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domenica 19 dicembre 2010

KURDISTAN IL PAESE CHE NON C'E'

Da un secolo, il popolo curdo, una nazione divisa sotto la dominazione degli Stati turco, iracheno, iraniano e siriano, non ha diritto di esistere. Sono stati privati del diritto all’autodeterminazione, di organizzarsi come intendono, di possedere la propria terra, di vivere secondo la propria cultura, anche di parlare la propria lingua, schiacciati sotto il peso di una organizzazione semi-feudale estremamente arretrata e autoritaria, creata a fini di controllo sociale.
I 25, 30 milioni di curdi, sparsi nei diversi paesi del Medio Oriente, sono spesso presentati come il più grande popolo senza Stato sulla terra.
Sono, nondimeno, senza storia?
Non si inscrivono in una storia medio-orientale che, per più di un millennio, non è stata la storia degli Stati o delle nazioni, ancor meno dei nazionalismi, ma degli Imperi sovranazionali?
Tenterò di rispondere per Voi, oggi, a queste domande.  



“Kine em?
Kine em?”

“Chi siamo?
Chi siamo?”

si interroga una canzone popolare curda (http://www.youtube.com/watch?v=-dPNdbbJVAI).
Non è facile definire in poche parole chi siano i curdi: non sono un gruppo etnico, non hanno un’unità religiosa e la loro stessa lingua possiede dialetti incomprensibili tra loro.
Nonostante questo, si riconoscono come curdi tra loro.
Hanno condotto una lotta difficile per ottenere il diritto di esistere, che ha valso loro di essere gasati, massacrati ed esiliati a milioni. Ma la lotta curda continua verso e contro tutto, con una forza impressionante, alimentata da ciascuna delle comunità del Kurdistan. Non è solo una lotta contro lo Stato coloniale, contro le forze imperialiste, che, il più sovente, si trovano dietro, ma, in una proporzione identica, è una lotta contro la classe feudale dei ricchi proprietari terrieri curdi, principali alleati degli Stati coloniali, che hanno ammassato una considerevole fortuna grazie a questa situazione. Non siamo di fronte a una semplice lotta nazionalista, nel senso stretto della parola, siamo di fronte a una lotta sociale, a una lotta per la completa emancipazione della popolazione curda dalle catene del colonialismo e del capitalismo. Si tratta di una lotta di liberazione nazionale nel senso pieno del termine.  

“A titolo di informazione, il Kurdistan non esiste.”

Queste parole spiccavano su un sacco, ritrovato, dopo molte peripezie, dal componente di una spedizione alpinistica al Cilo Dag e si riferivano alla scritta, certamente ingenua, che era stata apposta sul sacco stesso: Spedizione Francese 1969 nel Kurdistan, Van.
La correzione rifletteva l’atteggiamento ufficiale del governo turco nei confronti del problema curdo, per cui è logico sentire una sfumatura di risentimento in chi si era preso il disturbo di applicarla; ma è anche vero: da un punto di vista politico, il Kurdistan non esiste. Esistono, invece, i curdi, ma la loro innegabile unità etnica e culturale non è mai riuscita a concretarsi e a formare una nazione. Sparsi in cinque Stati diversi, Turchia (sud-est), Iran (ovest), Iraq (nord), Siria (nord-est) e Armenia, hanno, spesso, creato, in passato, e continuano a creare notevoli problemi e grattacapi ai rispettivi governi.   
Eppure le origini dei curdi sono molto antiche. Alla loro formazione etnica hanno, probabilmente, concorso molti di quei popoli nomadi indoeuropei, che sono discesi, in epoca remota, dalle steppe russe nella pianura mesopotamica e in Iran.
Le tavolette sumeriche parlano di un popolo di pastori montanari, chiamati kuti o guti, discesi, intorno al 2000 a.C., dai Monti Zagros verso la pianura mesopotamica e anche i testi assiri più antichi li menzionano con il nome di kurdu. È probabile che abbiano costituito una parte della popolazione del regno di Urartu, Stato potente e bellicoso che sorse, agli inizi del I millennio a.C., nella Turchia orientale, tra le montagne che circondano il Lago Van, includendo nei suoi confini anche il biblico Monte Ararat, sul quale sarebbe approdata l’Arca di Noè.
La prima descrizione dei curdi, da cui emergono le caratteristiche di questa popolazione, la dobbiamo a Senofonte, che narra della sua ritirata attraverso le impervie montagne dei caduchi, gente fiera e avida di preda:

“Questi ultimi, a detta dei prigionieri, vivevano sulle montagne ed erano un popolo bellicoso, che rifiutava di obbedire al re; una volta, un esercito regio di centoventimila uomini aveva invaso il loro paese: ma di questi nessuno aveva fatto ritorno, tanto impervio era quel territorio.”
Senofonte, Anabasi, III, 5, 16

Anche nei secoli successivi, questa fama di popolo barbaro e temibile rimase inseparabile dai curdi nell’opinione dei viaggiatori e dei popoli con i quali ebbero contatti. Questi furono molti, a iniziare dai medi e dai cimmeri, che ne modificarono probabilmente la lingua, mescolandosi tra loro. In seguito, subirono influenze anche dai turchi, dagli arabi, dai circassi, dagli armeni, loro secolari avversari, da cui trassero, tuttavia, impulso all’agricoltura, modificando il loro carattere di nomadi o seminomadi.
Durante il Medioevo, i curdi furono convertiti alla religione islamica dagli arabi. Fu una conversione forzata, ma permise loro di cogliere un grande trionfo al tempo della Terza Crociata, quando il principe curdo Salah ad-Din, noto in Occidente con il nome di Saladino, divenne Sultano della Siria e dell’Egitto e si oppose, valorosamente, ai crociati di Riccardo Cuor di Leone. È una figura che i curdi non hanno dimenticato, anzi, hanno idealizzato fino a farne il simbolo stesso delle loro virtù guerriere.
Prima dell’islam si era diffusa tra i curdi anche la religione cristiana, sotto la forma eretica del nestorianesimo, ma la nuova fede cancellò a tal punto la precedente che divennero, al pari dei circassi, i più feroci persecutori degli armeni, contribuendo alla distruzione di quel popolo sventurato.
I rari europei che visitarono il Kurdistan, nel XIX secolo, ci confermano quel ritratto dei curdi che, i tempi precedenti, ci hanno  trasmesso. Vivevano, di fatto, indipendenti, sia nell’ambito dell’Impero ottomano, sia in Persia, e molti di loro erano organizzati in bande dedite al brigantaggio. Con veloci razzie calavano sui villaggi e sulle città, depredavano gli abitanti e risalivano nelle loro vallate, ai loro accampamenti di tende, la cui mobilità nell’ambiente montuoso li metteva al riparo dalle rappresaglie. Questo spiega l’esistenza di un proverbio arabo, secondo cui vi sarebbero tre calamità sulla terra: le locuste, i topi e i curdi.
Il nome di curdi con cui sono conosciuti in tutta l’Asia occidentale e che è usato da loro stessi, si ritrova nell’aggettivo persiano kurd, che significa rude, ma anche forte, eccellente. In turco, la stessa parola significa lupo. Anche in queste coincidenze linguistiche si può vedere la fama di gente indomabile e fiera, oltre che pericolosa, che i curdi avevano sparso attorno a loro.
Ben presto, sorsero leggende intorno alle loro origini. Secondo una di queste, dovuta ad antichi scrittori arabi, il re Salomone avrebbe mandato a cercare in Occidente quattrocento fanciulle per arricchire il suo harem, ma, lungo la via, queste avrebbero incontrato dei geni malefici, dei jin, che le avrebbero violentate. Quando Salomome avrebbe saputo di questo oltraggio, avrebbe allontanato da sé le fanciulle divenute indegne di lui. Ma l’unione con i jin avrebbe, presto, dato i suoi frutti e ne sarebbero nati i progenitori dei curdi.    
Il terreno montagnoso e la divisione in tribù e principati di struttura feudale, governati da dinastie ereditarie, hanno, sempre, impedito ai curdi di superare le loro tendenze particolaristiche e di riunirsi in un organismo più vasto, basato sul sentimento di una loro unità etnica, linguistica e culturale. Ognuno di questi principati aveva armate regolari, alcune delle quali raggiungevano una forza considerevole. Ma le rivalità tra i capi erano così vive, che un principe curdo era più incline a diventare vassallo di un sovrano straniero che a piegarsi di fronte a un altro principe curdo. Al di sopra delle tribù non si concepiva nulla che non fosse la comune appartenenza all’islam.
Nel XVI secolo, il Kurdistan si trovò coinvolto nelle contese tra l’Impero ottomano e la Persia. Il nuovo Shah  di Persia, Ismail I, che aveva imposto lo sciismo come religione di Stato, cercava di diffonderlo ai paesi vicini. Da parte loro, gli ottomani volevano mettere fine alle mire espansionistiche dello Shah, assicurare le frontiere persiane per potersi lanciare nella conquista dei paesi arabi. Presi nella tenaglia tra i due giganti, i curdi, politicamente frantumati, non avevano affatto possibilità di sopravvivere in quanto entità indipendente.
Nel 1514, il Sultano Selim I inflisse una cocente disfatta allo Shah Ismail I. Temendo che la sua vittoria restasse senza domani, cercò i mezzi per assicurare, in modo permanente, la difficile frontiera persiana. È, a questo punto, che uno dei suoi consiglieri più ascoltati, il sapiente curdo Idris di Bitlis, gli prospettò l’idea di riconoscere ai principi curdi tutti i loro passati diritti e privilegi, in cambio dell’impegno di sorvegliare quella frontiera e di battersi al fianco degli ottomani, in caso di conflitto perso-ottomano. Selim I dette il suo avallo al piano del consigliere curdo, che incontrò, uno a uno, i principi e i signori curdi per convincerli che fosse interesse dei curdi e degli ottomani concludere questa alleanza. Sia per l’abile negoziazione del curdo Idris di Bitlis, sia per motivi religiosi, in quanto i turchi erano musulmani sunniti e non musulmani sciiti, come i persiani, i leaders curdi – che, per lingua e razza, erano più vicini ai persiani – posti davanti alla scelta di essere, prima o poi, annessi dalla Persia o accettare, formalmente, la supremazia del Sultano ottomano, optarono, in cambio di una ampia autonomia, per questa seconda soluzione. La missione di Idris di Bitlis (1) era stata facilitata in quanto questi era un sapiente conosciuto e rispettato e, soprattutto, per l’immenso prestigio di cui godeva suo padre, lo sceicco Husameddin, un capo spirituale sufi molto influente. Così il Kurdistan o più esattamente i suoi innumerevoli feudi e principati entrarono nell’alveo ottomano attraverso la via della diplomazia.
Questo status particolare assicurò al Kurdistan circa tre secoli di pace. I principi curdi godettero, infatti, di una ampia autonomia fino al XIX secolo e tutta la regione acquistò le caratteristiche di uno Stato cuscinetto, remoto e impenetrabile tra le sue montagne, la cui conquista effettiva non invogliava nessuno. Gli ottomani controllavano alcune guarnigioni strategiche sul territorio curdo, ma il resto del paese era governato da signori e principi curdi. Oltre a una sequela di modeste signorie ereditarie, il Kurdistan contava diciassette principati o hukumets, che beneficiavano di una ampia autonomia. Alcuni come quello di Ardelan, di Hisn Keif, di Bohtan e di Rawanduz giovavano degli attributi dell’indipendenza, battevano moneta e facevano dire la preghiera del venerdì a loro nome.
Nonostante le ingerenze del potere centrale, questo status funzionò, senza spaccature, fino all’inizio del XIX secolo, con soddisfazione dei curdi e degli ottomani. Questi ultimi, protetti dalla potente barriera curda sul fronte persiano, potevano concentrare le loro forze sugli altri fronti. Quanto ai curdi, erano, praticamente, indipendenti nella gestione dei loro affari. Vivevano, certo, nell’isolamento e il loro paese era frantumato in una serie di principati, ma, nella stessa epoca, la Germania contava circa trecentocinquanta Stati autonomi e l’Italia era ben più sminuzzata del Kurdistan.
Ogni corte curda era la sede di una vita letteraria e artistica importante. E nell’insieme, nonostante lo smembramento politico, questo periodo costituì l’Età d’Oro della creazione letteraria, musicale, storica e filosofica curda. Nel 1596, il principe Sharaf Khan portava a compimento la sua monumentale Sharafname o Fasti della nazione curda.  Le scuole teologiche di Jezireh e Zakho erano reputate in tutto il mondo musulmano, la città di Akhlat, dotata di un osservatorio, era conosciuta per l’insegnamento delle scienze naturali. Maestri del sufismo, come Ibrahim Gulsheni e Ismail Çelebi erano celebrati, perfino a Istanbul, per il loro insegnamento spirituale e il loro genio musicale. Alcuni curdi ambiziosi, quali i poeti Nabi e Nefi, scrivevano in turco per guadagnare il favore del Sultano. A eccezione di alcuni spiriti visionari, quali il grande poeta classico curdo del XVII secolo, Ahmad Khani (1650–1707), i letterati e i principi curdi sembravano credere che il loro status sarebbe duratoin eterno e non sentivano il bisogno di cambiarlo. Nel 1675, più di un secolo prima della rivoluzione francese, che sparse in Occidente l’idea di nazione e di Stato-nazione, Ahmad Khani, nella sua epopea in versi Mem û Zîn, aveva, infatti, chiamato i curdi a unirsi e a creare un proprio Stato. Non era stato ascoltato né dall’aristocrazia né dalla popolazione. In terra di islam, come, d’altronde, nella stessa epoca, nella cristianità, la coscienza religiosa prevaleva, generalmente, sulla coscienza nazionale. Ogni principe era preoccupato dagli interessi del suo clan e le dinamiche familiari, tribali o dinastiche, prevalevano sovente su ogni altra considerazione. Non era, affatto, raro vedere dinastie curde regnare su popolazioni non curde. Nell’XI secolo, a esempio, il Farsistan, provincia persiana per eccellenza, era stato governato da una dinastia curda; dal 1242 al 1378, il Khorassan, provincia persiana del nord-est, aveva avuto ugualmente una dinastia curda e, dal 1747 al 1859, era stato il caso del lontano Beluchistan, che fa parte, oggi, del Pakistan. Così, il fatto che questa o quella porzione di territorio curdo fosse governata da dinastie straniere non doveva sembrare inaccettabile ai contemporanei.  
L’idea di Stato-nazione e di nazionalismo trovò, rapidamente, un terreno particolarmente propizio in due paesi spezzettati e in parte asserviti: la Germania e l’Italia. Sono pensatori tedeschi, quali Johann Joseph von Görres (1776-1848), Franz Brentano (1838-
1917) e Johann Georg Grimm (1846-1887), che posero il postulato secondo cui le frontiere politiche, geografiche e linguistiche dovessero coincidere. Sognavano di una Germania che raggruppasse in uno Stato la sequela dei suoi piccoli Stati autonomi. Il pangermanismo aveva, necessariamente, ispirato altri movimenti nazionalistici, quali il panslavismo e il panturchismo. Queste idee pervennero con qualche ritardo, verso il 1830, in Kurdistan dove il principe di Rawanduz, Mir Mohammad, si batté, dal 1830 al 1839, in nome delle sue idee per la creazione di un Kurdistan unificato. Fino ad allora, fintanto che non erano stati minacciati nei loro privilegi, i principi curdi si erano accontentati di amministrare il loro dominio, rendendo omaggio al lontano Sultano-Califfo di Costantinopoli. In linea generale, non si sollevarono  né tentarono di creare un Kurdistan unificato che quando, all’inizio del XIX secolo, l’Impero ottomano si ingerì nei loro affari e cercò di mettere fine alla loro autonomia e i russi li incoraggiarono alla ribellione. Seguì, fino alla Prima Guerra Mondiale, tutta una serie di rivolte contro il potere centrale per l’unificazione e l’indipendenza del Kurdistan, sotto la guida di capi tradizionali, sovente religiosi, tutte duramente represse, che giunsero fino a minacciare Istanbul. Nel 1847, crollava l’ultimo principato curdo indipendente, quello di Bohtan. Segno dei tempi, le forze ottomane, nella loro lotta contro i curdi, erano consigliate e aiutate dalle potenze europee. Si noti, a esempio, la presenza nei ranghi ottomani di Helmuth Karl Bernhard Graf von Moltke (1800-
1891) (2), allora giovane capitano e consigliere militare. L’ultima sollevazione, tra il 1878 e il 1881, ebbe un carattere diverso, perché poneva, per la prima volta, il problema curdo sul piano di una lotta nazionale, rivolgendosi a tutte le minoranze curde sparse nei diversi Stati. Fu soffocata da Turchia e Iran, congiunti di fronte alla nuova minaccia.
Le cause del fallimento di questi movimenti sono molteplici: sgretolamento dell’autorità, dispersione feudale, dispute di supremazia tra principi e feudali curdi, ingerenza delle grandi potenze al fianco degli ottomani.
Si deve precisare che, in questa fine XIX secolo, l’Impero ottomano era in preda a vive convulsioni nazionaliste: ogni popolo aspirava a creare il proprio Stato-nazione. Dopo aver tentato, invano, di mantenere questo agglomerato in vita con l’ideologia del panottomanesimo, poi, del panislamismo, le stesse élites turche divennero panturchiste e militarono in favore della creazione di un Impero turco, che si estendesse dai Balcani all’Asia Centrale.
Dopo aver annesso, uno a uno, i principati curdi, il potere turco si adoperò a integrare l’aristocrazia curda, distribuendo, alquanto generosamente, posti e prebende e mettendo in piedi scuole, dette tribali, destinate a inculcare ai figli dei signori curdi il principio di fedeltà al Sultano. Questo tentativo di integrazione alla Luigi XIV fu, in parte, coronato dal successo, ma favorì ugualmente l’emergenza di élites curde moderniste. Sotto la loro spinta si delineò, a Costantinopoli, una fase moderna del movimento politico, si moltiplicarono associazioni e società benefiche e patriottiche che tentarono di introdurre la nozione di organizzazione e di impiantare un movimento strutturato nella popolazione curda. Ma all’inizio del XX secolo, maturò l’idea in un gruppo di uomini colti, che impostarono la lotta su basi moderne, consci che l’antica organizzazione tribale non avrebbe retto, a lungo, di fronte al sorgere di nuove entità nazionali dal potere centralizzato. Raccolsero gli elementi tipici della loro cultura e iniziarono al Cairo la pubblicazione di un giornale in curdo e in turco, Il Kurdistan: questo nome, che, presso gli scrittori orientali, aveva sempre avuto, unicamente, il valore generico di paese dei curdi, assumeva ora un preciso significato politico. Nel 1908, il giornale fu trasferito a Istanbul, sotto la spinta delle illusioni che la rivoluzione dei Giovani Turchi e il disfacimento dell’Impero ottomano avevano creato nei vari gruppi etnici desiderosi di indipendenza. Si costituì anche un’associazione per l’elevazione e il progresso dei curdi, ma la sua opera fu presto ostacolata e repressa dal nuovo governo turco, che, durante la Prima Guerra Mondiale, operò vaste deportazioni di curdi dai vilayet orientali alla frontiera, con l’uccisione di alcuni capi.
La società curda affrontò la Prima Guerra Mondiale divisa, decapitata, senza un progetto collettivo per il suo avvenire.
Nel 1915, gli Accordi franco-britannici, detti di Sykes-Picot, prevedevano lo smembramento del loro paese. Tuttavia, i curdi erano in conflitto sul divenire della loro nazione. Gli uni, molto permeabili all’ideologia panislamista del Sultano-Califfo, vedevano la salvezza del popolo curdo in uno statuto di autonomia culturale e amministrativa nel quadro dell’Impero ottomano. Altri, richiamandosi al principio delle nazionalità, degli ideali della Rivoluzione francese e del Presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), combattevano per l’indipendenza totale del Kurdistan.  
La sfaldatura si accentuò all’indomani della disfatta ottomana, nel 1918.
L’interesse alla questione curda da parte degli Alleati favorì, nonostante le spaccature presenti nel movimento nazionale curdo, il costituirsi del Comitato per l’Indipendenza Curda, il quale inviò una propria delegazione alla Conferenza di Versailles (1919), per presentare “le rivendicazioni della nazione curda”, guidata dal generale Mohammad Sharif Pasha (1826-1887). Il Comitato operò, inizialmente, per tutelare i territori etnicamente curdi dalle pretese armene – appoggiate soprattutto dagli Stati Uniti – che rivendicavano l’inserimento in un loro Stato indipendente di zone popolate in maggioranza da curdi. Le richieste del Comitato furono esplicitate in un memoriale presentato, il 22 marzo 1919, dallo stesso capo della delegazione, Mohammad Sharif Pasha.
Gli Alleati presero in considerazione le rivendicazioni curde, pur non contemplando la nascita di uno Stato indipendente, e si mostrarono favorevoli, come in precedenti occasioni, a un regime di autonomia, che, solo successivamente, si sarebbe potuto trasformare in indipendenza.
Il Trattato di Pace tra gli Alleati e l’Impero ottomano, firmato a Sèvres, il 10 agosto 1920, attribuiva la Tracia, Smirne e una gran parte delle province egee alla Grecia e separava dalla Turchia, la Siria, posta sotto il mandato francese, e la Mesopotamia, la Palestina e la Transgiordania, sotto il mandato britannico. L’ex-Impero era, ormai, ridotto alla sola penisola anatolica e alle isole. La creazione di un Kurdistan autonomo (sezione III, artt. 62-64) e la cessione del Dodecaneso e di Rodi all’Italia erano, egualmente, contemplate nel trattato. Il Trattato di Sèvres non venne mai ratificato dai governi interessati, risultando del tutto inefficace.
La complicata e inestricabile situazione condusse a una nuova conferenza, svoltasi a Parigi, tra il 22 e il 26 marzo 1921, in cui si discusse una pronta soluzione della questione d’Oriente.
Le ostilità ripresero con l’offensiva sferrata dai kemalisti contro Smirne.
Con la firma dell’Armistizio di Mudanya (11 ottobre 1922), i negoziati per la pace furono, immediatamente, avviati con l’inaugurazione, il 22 novembre dello stesso anno, della Conferenza di Losanna. 
Un nuovo trattato, firmato a Losanna, il 24 luglio 1923, restituiva alla Turchia alcuni dei suoi territori: la parte orientale della Tracia, la regione di Smirne, l’Anatolia, la Cilicia, l’Armenia e il Kurdistan. Il Trattato di Losanna rendeva caduco il Trattato di Sèvres e, senza apportare alcuna garanzia a quello che atteneva il rispetto dei diritti dei curdi, consacrava l’annessione della maggior parte del Kurdistan al nuovo Stato turco. I curdi non furono, neppure, invitati e le grandi potenze decretarono la divisione del territorio curdo in tre parti, lasciando all’Iran la porzione già inclusa nei suoi confini.
I curdi non accettarono questa decisione e diedero inizio a una serie di insurrezioni, di volta in volta, scatenatesi nei singoli Stati, ma mai simultaneamente e questo fu, forse, il motivo dei loro insuccessi. Inoltre, l’importanza assunta dal petrolio in diverse zone, come nella regione di Mossul, creò i presupposti per un’ingerenza diretta della Gran Bretagna, che appoggiò l’azione del governo iracheno con bombardamenti aerei dei villaggi curdi, sia nel 1923, sia durante le successive insurrezioni del 1930-1933. Arguendo, in effetti, che lo Stato iracheno non sarebbe stato in grado di sopravvivere senza le ricchezze agricole e petrolifere di questa provincia, la Gran Bretagna aveva ottenuto, il 16 dicembre 1925, dal Consiglio della Società delle Nazioni l’annessione di Mossul all’Iraq, posto sotto il suo mandato. Così, alla fine del 1925, il paese dei curdi, conosciuto, dal XIII secolo, sotto il nome di Kurdistan, si era trovato diviso in quattro Stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. E, per la prima volta, dalla sua lunga storia, era stato privato anche della sua autonomia culturale.
Nello stesso periodo, si era scatenata in Turchia una violenta repressione del movimento curdo, sotto il governo di Mustafa Kemal Atatürk: fu proibito l’uso della lingua curda e dello stesso nome di curdi. Deportazioni e massacri fecero seguito alla rivolta del 1925, guidata dal capotribù Sheikh Said: uomini politici e intellettuali furono imprigionati e uccisi. La repressione fu, particolarmente, spietata a Erzurum e Diyarbakir, la principale città del Kurdistan turco, dove vennero condannati a morte cento capi curdi, tra i quali lo stesso Sheikh Said. Molti curdi cercarono scampo in Iraq e in Siria; quelli rimasti in Turchia non ebbero più alcuna possibilità di organizzarsi politicamente e di riprendere la lotta. 
I conquistatori e gli Imperi passati si erano accontentati di certi vantaggi e privilegi economici, politici e militari. Nessuno aveva concepito il progetto di distruggere la personalità curda, di spersonalizzare, tagliando dalle sue radici culturali millenarie, tutto un popolo. Questo progetto fu quello dei nazionalisti turchi che vollero fare della Turchia, società eminentemente multiculturale, multirazziale e multinazionale, una nazione una e uniforme; fu, più tardi, ripreso dall’Iraq e dall’Iran.
Vittima della sua geografia, della storia e anche, forse, della mancanza di chiaroveggenza dei suoi leaders, il popolo curdo ha pagato un pesante tributo nel rimodellamento del Medio Oriente.
Durante la seconda guerra mondiale, emerse la figura di Mustafa Barzani, destinato ad assumere le caratteristiche di capo carismatico della rivoluzione curda negli anni successivi. Una serie di arresti di esponenti curdi lo indusse, nel 1943, a proclamare la rivolta nella regione di Barzan, dove viveva il suo clan. L’intervento dell’esercito iracheno, che era appoggiato dall’aviazione inglese nella protezione dei pozzi petroliferi minacciati dai curdi, lo costrinse a una lunga ritirata verso l’Iran attraverso le montagne, con una marcia epica alla testa di diecimila persone, tra cui tremila guerrieri. Nel frattempo, anche i curdi dell’Iran e della Turchia si erano impegnati a collaborare per una lotta comune e avevano stretto un patto sul Monte Dalanpar, da cui nacque, il 12 gennaio 1946, la Repubblica curda di Mahabad, che aveva uno spiccato carattere socialista e alla cui testa fu posto il curdo iraniano Qazi Mohammad, giudice, capo religioso e membro di un’influente famiglia. La reazione dell’esercito iraniano fu immediata; contro la nuova repubblica, che aveva affidato a Mustafa Barzani il comando delle proprie truppe, entrò in azione l’esercito dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, armato ed equipaggiato dall’Inghilterra e, un anno dopo, la resistenza curda fu stroncata.
Qazi fu giustiziato con altri capi; Mustafa Barzani rientrò in Iraq, dove lasciò le donne, i vecchi e i bambini e intraprese con i suoi uomini quella “marcia dei cinquecento” che doveva portarlo in Unione Sovietica e creare un alone leggendario intorno al suo nome. In quattordici giorni, furono coperte 220 miglia a piedi, sempre sotto la minaccia degli eserciti iracheno, turco e iraniano.
Nell’Unione Sovietica, Barzani doveva rimanere più di dieci anni; gli fu conferito il grado di generale dell’esercito sovietico, fatto che gli fece attribuire sentimenti filo-comunisti, da lui sempre smentiti. Del resto, la limitatezza degli aiuti dell’Unione Sovietica ai curdi in lotta fu una delle cause della loro sconfitta. Un altro motivo di fondo del crollo della repubblica di Qazi Mohammad fu, senza dubbio, la tradizionale mancanza di coesione tra le tribù, gelose come sempre della loro autonomia e, spesso, in contrasto con i capi del movimento, provenienti dalla popolazione cittadina più evoluta e istruita.
Una nuova situazione si determinò in Iraq con la rivoluzione del luglio 1958, che portò al potere il generale ‘Abd al-Karim Qasim (1914-1963) e con la nuova costituzione che garantiva i diritti dei curdi nell’ambito dello Stato iracheno. Barzani poté rientrare in patria e il problema curdo sembrò avviarsi a una soddisfacente soluzione politica. Ma l’illusione fu di breve durata. Le promesse di autonomia non vennero mantenute e, nel 1960, i rapporti si fecero, di nuovo, tesi.
Questa volta, Barzani aveva l’appoggio del partito comunista iracheno e la lotta riprese in forma cruenta, con bombardamenti dei villaggi curdi, da una parte, e azioni di guerriglia, dall’altra, finché il nuovo colpo di Stato di ‘Abd as-Salam ‘Arif (1921-1966) del febbraio 1963 mise fine alle ostilità, ma solo per pochi mesi.
La costituzione della RAU (Repubblica Araba Unita) e il colpo di Stato baathista del luglio 1968, che portò al potere il generale ‘Ahmad Hasan al-Bakr, non fecero che complicare la situazione sul piano politico, senza porre fine in modo durevole ai combattimenti.
Nella primavera del 1969, la guerra imperversò, ancora, nel Kurdistan; il governo di Baghdad impiegò il napalm e l’acido solforico per distruggere i raccolti, provocando la distruzione di innumerevoli villaggi e la morte di 33 mila peshmarga, come sono chiamati i combattenti curdi, oltre a 20 mila vittime tra la popolazione civile.
Seguirono trattative di pace, che portarono a un accordo, nel marzo del 1970.
Anche questa volta, tuttavia, gli accordi furono rispettati solo in parte, per la riluttanza del governo iracheno a concedere l’autonomia nei centri petroliferi, specialmente quello di Kirkuk, dove la popolazione curda era prevalente.
Negli anni successivi, la situazione si fece sempre più intricata: il movimento curdo fu, perfino, accusato dal Baath di essere alleato di Israele e dell’Iran contro la causa araba. D’altra parte una serie di dissidi portò a uno scontro armato tra Barzani e i comunisti all’interno del movimento stesso. Anche le relazioni tra curdi iracheni e curdi iraniani si deteriorano, per l’interesse dei primi a mantenere buoni rapporti con il governo dello Shah, che garantiva l’unica frontiera attraverso cui potessero ricevere aiuti nella lotta contro Baghdad.
Si giunse, così, alla concessione di autonomia dell’11 marzo 1974, proposta da al-Bakr, ma non accettata dai curdi, che avrebbero voluto una più favorevole ripartizione degli utili del petrolio, calcolata in base alla loro consistenza etnica. La minaccia di distruggere gli impianti, da parte di Barzani, condanne a morte di notabili curdi ed esecuzioni sommarie di militari iracheni per ritorsione e, infine, una ripresa generale delle ostilità, furono gli avvenimenti, che crearono in questo tormentato paese i presupposti per una situazione di tipo vietnamita. Le grandi potenze non si esposero direttamente, ma influenzarono la situazione secondo le linee della loro politica internazionale, vale a dire dei loro interessi. L’Unione Sovietica, che, in passato, aveva appoggiato concretamente il movimento curdo, sostenne il governo iracheno, di cui faceva parte il partito comunista e cui era legata da un patto di amicizia dal 1972. Di conseguenza armi, consiglieri militari e aerei sovietici furono impiegati contro i combattenti curdi, sostenuti apertamente dallo Shah, che aveva interesse a indebolire lo Stato iracheno e, indirettamente, dagli Stati Uniti, accusati di fornire armi a Barzani. Al di sopra di questo rovesciamento di alleanze permaneva lo scarso interesse dei vari Stati confinanti alla realizzazione di un Kurdistan indipendente nella zona irachena, che avrebbe spinto a nuove rivendicazioni le altre minoranze curde; la lotta del popolo curdo, asserragliato tra le sue montagne, si svolse, quindi, nella massima incertezza circa le prospettive future.
Nel Kurdistan iracheno, la repressione fu tale che Mustafa Barzani decise di mettere fine alla rivoluzione curda e di partire in esilio.
Il silenzio degli Stati Uniti fu vissuto come un tradimento dell’Occidente per gli ambienti curdi che aderivano ormai al sistema socialista, in parte maoista, perché Mosca aveva portato chiaramente il suo sostegno a Baghdad.
Negli anni 1980, riprese la lotta armata tra turchi e curdi.
Nella regione iniziò una stagione di violenza, con attentati da parte dei guerriglieri, seguiti da feroci rappresaglie da parte dell’esercito turco. Secondo un rapporto della Commissione di Indagine del Parlamento turco, il conflitto tra lo Stato e il PKK,  il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, di ispirazione marxista, fondato, il 27 novembre 1978, da Abdullah Öcalan, studente di scienze politiche ad Ankara, e da suo fratello Osman, avrebbe provocato complessivamente tra le 35 e le 40 mila vittime.
Le violenze non si placarono fino alla fine degli anni 1990, in seguito all'arresto dello stesso Öcalan (5 febbraio 1999).
A partire dall’11 settembre 2001, il PKK veniva inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche e, nel 2006, il governo di Ankara varava una legge, che prevedeva l’arresto anche per i minori che manifestassero a sostegno di organizzazioni riconducibili al PKK.
Vi è una poesia curda che esprime in modo tragico il carattere di questo popolo indurito dalle lotte secolari per la sua esistenza. Racconta di un fatto di armi contro i turchi, in cui fu ucciso un capo curdo; quando la sua testa fu portata alla madre, questa guardò lontano, verso le montagne e disse:

“Non è che la testa di un agnello; Dio protegga gli arieti che sono sui monti.”

  

  
Note:

(1)Idris di Bitlis è l’autore del primo trattato della storia generale dell’Impero ottomano, intitolato Otto Paradisi, che traccia il regno degli otto Sultani ottomani.

(2) Dopo una brillante carriera, nel 1857, Helmuth Karl Bernhard Graf von Moltke (Parchim, 26 ottobre 1800 – Berlino, 24 aprile 1891) fu nominato Capo dello Stato Maggiore Generale Prussiano, una carica che ricoprì per i successivi trenta anni.
Versato poliglotta e, più ancora, ottimo diplomatico, fu definito:
“Uno che, all’occorrenza, sapeva tacere in sette lingue diverse.”
Suo nipote, il conte Helmuth James von Moltke (1907-1945), partecipò all’attentato al Führer del 20 luglio 1944 e fu impiccato poche settimane prima che i sovietici entrassero a Berlino.
“Per tutta la vita, fino dai tempi della scuola, ho lottato contro un certo spirito di limitatezza e di violenza, di presunzione, di intolleranza, di assolutismo e di spietata consequenzialità che alberga nell’animo tedesco e che ha trovato la sua espressione nello Stato nazional-socialista.
Mi sono anche adoperato perché questo spirito, con le gravi manifestazioni che da esso derivano, come l’eccesso di nazionalismo, la persecuzione razziale, l’ateismo, il materialismo, venisse superato.
Per tutti questi motivi e dal loro punto di vista, i nazional-socialisti hanno perfettamente ragione ad uccidermi.” 
da una lettera del conte Helmuth James von Moltke ai propri figli




Daniela Zini
Copyright © 19 dicembre 2010 ADZ






lunedì 6 dicembre 2010

SE WIKILEAKS...?

Julian Assange non demorde e mette la sua firma.
Il suo sito internet è divenuto “un pericolo per il mondo” e una base dalla quale sono condotti “attacchi contro la comunità internazionale”, se prestiamo fede al Segretario di Stato americano, Hillary Clinton.
Hillary Clinton ha serie ragioni per essere furiosa con il fondatore di WikiLeaks.
Non solo centinaia di migliaia di segreti del Dipartimento di Stato sono stati messi in piazza, ma uno dei documenti, firmato di suo pugno, incarica i suoi sottoposti di raccogliere ogni sorta di informazioni circa gli alti vertici dell’ONU, e anche, stranamente, i dati bancari relativi alla carta di credito del Segretario Generale Ban Ki-moon.
Questa volta, Julian Assange ha messo in linea 251.288 documenti segreti, che coprono il periodo dal 28 dicembre 1966 al 28 febbraio 2010 e contano 261.276.536 parole.
Di che riempire 3.000 volumi!
Grazie a WikiLeaks, il comune mortale ha, dunque, avuto accesso a informazioni inusitate.
Si può comprendere il Dipartimento di Stato, per il quale conta solo l’aspetto dannoso di queste fughe.
È un fatto che WikiLeaks renderà il lavoro dei diplomatici molto più difficile di prima.
Gli interlocutori parleranno meno e i compilatori di informazioni faranno fatica a trovare di che riempire i loro regolari rapporti.
Si può comprendere anche l’inquietudine dei politici che amano bisbigliarsi confidenze in un mondo dove microfoni, camere e orecchie indiscrete non hanno accesso.
Che sarà della politica se i retroscena e i palazzi fortificati divengono trasparenti?
Susciterà ancora interesse o perderà il suo lato oscuro, i suoi misteri e i suoi intrighi?
I governanti si rassicurino.
La politica resterà quella che è, sempre, stata, vale a dire segreta, misteriosa, intrigante.
Conserverà, sempre, le sue due parti ben distinte: la parte superficiale, alla quale il pubblico può accedere e la parte essenziale, non accessibile al comune mortale, quella delle decisioni più importanti, sovente vitali, per i miliardi di esseri umani che hanno scelto di vivere in comunità.
Nell’era numerica, in cui l’informazione circola alla velocità della luce, come nell’era preindustriale, in cui la velocità dell’informazione non superava quella del cavallo, la politica e i politici restano fondamentalmente gli stessi.
Oggi come ieri, il pubblico non ha diritto che alle informazioni che si vuole dargli.
Julian Assange non è un mago.
Non è dotato di poteri sovrannaturali che gli permettono di appropriarsi dei segreti meglio custoditi.
Le centinaia di migliaia di cablogrammi confidenziali che ha pubblicato sul sito, gli sono pervenuti, da tempo, senza che li abbia né cercati o pagati per averli.
Ad aver fornito la massa di segreti a Julian Assange è stato un soldato americano, ventitreenne, Bradley Manning.
Bradley Manning è in prigione, in attesa di processo.
La domanda che ci si pone è come gli Stati Uniti, con la massa di informazioni segrete e compromettenti di cui dispongono, abbiano potuto commettere una tale “imprudenza”.
Un errore ha guastato il sistema e messo in imbarazzo Washington.
Un responsabile americano ha giustificato questa “imprudenza” con gli attentati dell’11 settembre.
Questi attentati non hanno potuto essere evitati, tra l’altro, a causa dell’“accaparramento dell’informazione e del rifiuto dei diversi servizi a condividerla”.
A proposito degli attentati dell’11 settembre, un dibattito è in corso, attualmente, negli Stati Uniti.
Sarebbero stati messi in atto questi attentati se vi fosse stato, allora, WikiLeaks?
La domanda è stata posta da un’ex-collaboratrice dell’FBI, Coleen Rowley, sul Los Angeles Times:

“Eravamo in molti, prima dell’11 settembre, ad aver captato segnali di allarme che indicavano che qualcosa di devastante si stesse progettando. Ma lavoravamo con  burocrazie sclerotiche, incapaci di agire con rapidità e decisione. Ultimamente, due di noi si sono chiesti semmai vi fosse stato un modo rapido e riservato per ottenere informazioni, le cose sarebbero potute andare diversamente.”

In effetti, se vi fosse stato WikiLeaks prima dell’11 settembre, se avesse disposto di informazioni monopolizzate dai servizi segreti sui preparativi degli attentati, li avrebbe, senza alcun dubbio, diffusi e, oggi, la configurazione del mondo sarebbe nettamente migliore!




Daniela Zini
Copyright © 4 dicembre 2010 ADZ

domenica 24 ottobre 2010

GUERRE SENZA FINE

7 ottobre 2001 – 7 ottobre 2010


“Le guerre iniziano perché i diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi credono a quello che leggono.”
Karl Kraus




1.     Bradley Manning: un caso di coscienza in tempo di guerra
“Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia.”
Otto von Bismarck

Chi si ricorda dei Pentagon Papers?
Quaranta anni fa gettarono un forte discredito sulle operazioni in Vietnam e sulla politica estera di Richard Nixon, proprio un anno prima dello scandalo Watergate.
Il caso ebbe inizio nel 1971, quando Daniel Ellsberg, un ex-analista della Rand Corporation, rimise clandestinamente alla redazione del New York Times e, poi, a quella del Washington Post, un dossier di 7 mila pagine, appartenente al Pentagono, il dipartimento americano della difesa, sull’implicazione politica e militare degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, dal 1945 al 1967. Pubblicandoli, il New York Times rivelò che la Casa Bianca aveva deliberatamente esteso la guerra al Laos e aveva condotto azioni militari, in tutta illegalità, prima dell’impegno ufficiale del paese nel conflitto. L'amministrazione Nixon tentò di bloccare la pubblicazione dei documenti, che riguardavano in gran parte la condotta delle amministrazioni democratiche precedenti (Harry S. Truman, Dwight David Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Baines Johnson). La Casa Bianca non poteva permettere che segreti di Stato fossero diffusi dai giornali. Ebbe la meglio il New York Times,  con una sentenza della Corte Suprema, considerata storica per la libertà di espressione. Ellsberg, che aveva rischiato una condanna a 115 anni di prigione, venne prosciolto da ogni accusa.
Il 25 luglio scorso, un sito internet diffondeva, sotto il nome di Afghan War Diary, più di 92 mila documenti confidenziali che mostravano, sotto una luce cruda, le vittime civili del conflitto afghano, la terribile pressione subita dalle truppe alleate, le difficoltà quotidiane delle missioni, spesso mal precisate, i legami supposti tra i servizi segreti pakistani e i talebani, nonché alcuni “abusi” commessi da alcune società di sicurezza private, operanti nel paese. Particolarmente impressionante, il numero dei “fuochi amici”, questi  errori di tiro che hanno colpito principalmente civili, soldati della coalizione e uomini dell’ENA, l’esercito nazionale afghano e gravano pesantemente, molto pesantemente, sull’opinione pubblica americana. Circostanza aggravante, queste elencazioni imbarazzanti sono anche accompagnate da documenti che mostrano le violenze intertribali, che insanguinano il paese e rendono la situazione ogni giorno sempre più inestricabile. Tra le righe, lo smarrimento delle truppe impegnate è quasi palpabile.
Il fondatore del sito internet WikiLeaks (1), Julian Assange (2), non è uno sconosciuto. Si è già distinto, diffondendo, il 5 aprile scorso, un video, Collateral Murder, che mostra l’equipaggio americano di un elicottero Apache aprire il fuoco, il 12 luglio 2007, su un gruppo di civili, tra i quali il fotografo dell’agenzia di stampa Reuters (3) Namir Noor-Eldeen, ventidue anni, e il suo autista Saeed Chmagh, quaranta anni. Il video dà i brividi, non fosse che per l’imbecillità di quei soldati che, dall’alto dell’elicottero, prendono delle cineprese per mitragliatrici AK-47 o lanciagranate RPG, e l’esultanza oscena che provano nello sparare, letteralmente addosso, su tutto ciò che si muove. Secondo WikiLeaks, il video proveniva da “alcune fonti militari”, allora non precisate.
Accusato di aver minacciato la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il 26 luglio, Julian Assange aveva difeso in una conferenza stampa, a Londra, la sua decisione di pubblicare i documenti confidenziali sulla guerra in Afghanistan, che rivelavano possibili crimini di guerra, commessi dalle forze della coalizione internazionale.

“Siamo abituati al fatto che quelli di cui denunciamo gli abusi cerchino di screditarci… Non vediamo niente altro nella risposta della Casa Bianca.”

E in un’intervista al Guardian, aveva aggiunto :

“È il ruolo del giornalismo di prendersela con i potenti e, quando questi sono sfidati, vi sono sempre delle reazioni.”

L’esercito americano non è il solo a essere messo in causa.
È stato, a esempio, messo in luce e imputato alle truppe francesi, un incidente sopravvenuto, nel 2008, in Afghanistan. Lo stato-maggiore francese ha contestato la versione di WikiLeaks, asserendo che quattro civili, tre adulti e un bambino, erano stati effettivamente feriti, e non otto come affermava il sito internet.

“Quel giorno”,

aveva precisato un portavoce dell’esercito francese,

“un minibus si è inserito tra due blindati delle forze francesi in un convoglio, non tenendo conto degli avvertimenti di un soldato. Le schegge dei proiettili di due spari intimidatori al suolo hanno, sfortunatamente ferito, in modo lieve, quattro civili, tra i quali un bambino.”

Anche la madre di un soldato canadese, ucciso in combattimento, aveva contestato la versione del sito che sosteneva che suo figlio fosse stato vittima non degli insorti, ma di un “fuoco amico”.
Al New York Times, al Guardian e allo Spiegel era stato dato accesso al materiale diverse settimane prima, a condizione che i tre giornali non ne parlassero prima del 25 luglio, quando WikiLeaks li avrebbe messi on-line.
La reazione della Casa Bianca non si era fatta attendere.
Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, l’ex-generale James Jones, che l’8 ottobre scorso si è dimesso dall’incarico, aveva immediatamente commentato la pubblicazione dell’Afghan War Diary, come lo aveva definito il New York Times:

“Gli Stati Uniti condannano fermamente la rivelazione di informazioni riservate da parte di individui e organizzazioni che possono mettere in pericolo le vite degli americani e dei loro alleati, e minacciano la sicurezza nazionale. WikiLeaks non ha fatto nessun passo per contattarci rispetto a questi documenti: il governo degli Stati Uniti è venuto a sapere della loro pubblicazione dalla stampa. Queste scelte irresponsabili non influiranno sul nostro impegno ad approfondire i legami con l’Afghanistan e il Pakistan, a battere i nostri nemici comuni e a sostenere le aspirazioni dei popoli afghano e pakistano.”

Barack Obama aveva ricordato che quei documenti riguardavano il periodo 2004-2009, e dal dicembre del 2009, era stata adottata “una nuova strategia in Afghanistan”.
Le esazioni e i tradimenti non erano, dunque, più di attualità!
Il Pentagono aveva aperto un’inchiesta penale sulla fonte dello scoop di WikiLeaks.
Lo stesso 26 luglio, il colonnello Dave Lapan, portavoce del Pentagono aveva affermato:

“L’inchiesta in corso sulla divulgazione di documenti a WikiLeaks… non si concentra su un individuo in particolare, ha un più ampio spettro.”

e aveva aggiunto:

Il Pentagono sta valutando i potenziali pericoli causati da queste fughe in materia di sicurezza.”

Il martedì 6 luglio, il soldato Bradley Manning, uno specialista di intelligence della decima divisione di montagna, era stato accusato di violazione del regolamento militare “per aver trasferito dati confidenziali sul proprio computer”. Secondo il portavoce del Pentagono Geoff Morrell, il soldato Manning era “molto sicuramente un personaggio chiave” nel caso della fuga dei documenti pubblicati, la domenica 25 luglio, da Wikileaks. Il soldato Bradley Manning era stato arrestato in Iraq, il 29 maggio, e, poi, trasferito, per più di un mese, nel centro di detenzione militare di Camp Arifjan, in Kuwait, a seguito della denuncia di un ex-hacker Adrian Lamo (4), con il quale si sarebbe vantato, conversando in chat, di essere stato lui ad aver consegnato a WikiLeaks il famoso video del 12 luglio 2007. Nonostante Adrian Lamo avesse, in passato, contribuito economicamente al progetto WikiLeaks, aveva avuto paura e aveva trasmesso le conversazioni in chat all’FBI. Quello che fa sicuramente tremare l’America è che Manning aveva, anche, dichiarato a Lamo di aver consegnato un secondo video a WikiLeaks, un video (5) che mostra un raid aereo americano, che ha ucciso, lo scorso anno, 140 civili.
Non è, forse, a caso che Collateral Murder inizi con una citazione di George Orwell:

“Il linguaggio politico è concepito in modo che le menzogne suonino sincere e l'omicidio rispettabile, e per dare una parvenza di solidità all'aria.”

Non è, forse, neppure a caso che Time Magazine abbia detto di WikiLeaks che il sito “potrebbe divenire uno strumento giornalistico importante come Freedom of Information Act (la legge americana fondata sul principio della libertà di informazione che obbliga le agenzie federali a trasmettere i propri documenti a chiunque ne faccia richiesta, quale  ne sia la nazionalità)”.
Attendendo questo secondo video, Julian Assange, che continua, a trentanove anni, a spostarsi spesso, come in gioventù, tiene un profilo basso.
Non si sa mai…
Il primo agosto scorso, come preannunciato in primavera,  il contingente olandese lasciava l’Afghanistan e rientrava in patria, dopo quattro anni, durante i quali era stato impegnato, con circa 2 mila unità, nella provincia dell’Uruzgan – Kamp Holland la loro base principale –. In totale, nelle operazioni militari, sono rimasti uccisi 24 soldati olandesi tra i quali il figlio del capo di stato-maggiore dell’esercito nazionale, il generale Peter van Uhm.
La richiesta di rinforzi rivolta, all’inizio dell’anno, agli Stati membri della coalizione aveva provocato un acceso dibattito nei Paesi Bassi e portato alla caduta della coalizione governativa, in febbraio. La richiesta di prolungamento della missione, sostenuta dal centrodestra dei cristiano-democratici di Jan Peter Balkenende, aveva, infatti, trovato la ferma opposizione del ministro delle Finanze Wouter Bos e del suo partito laburista.
Il ritiro olandese ha, subito, avuto forti implicazioni sulla compagine militare dell'Alleanza Atlantica anche perché in Afghanistan è in atto un’operazione della Nato e non di una coalition of the willing, come in Iraq.
Il Canada ha deciso di ritirare le sue truppe, schierate a Kandahar, nel 2011, mentre la Polonia e altri paesi hanno annunciato il possibile ritiro dei militari dall'Afghanistan tra il 2012 e il 2013.
L’ex-combattente dell’Iraq, Evan Knappenberger (6) ha pubblicato, il 30 luglio, una lettera aperta sul sito Common Dreams.
Scrive:

“Bradley Manning è il mio nuovo eroe.”,

e prosegue:

“Il mio più grande rimpianto per il mio tempo in Iraq è di non avere divulgato le informazioni cui avevo accesso.”

Bradley Manning è nato ventidue anni fa, a Crescent, una piccola città dell’Oklahoma dove, raccontava agli amici “vi sono più banchi di chiesa che persone”.
Nel 2001, dopo il divorzio, la madre, gallese, lo aveva condotto con sé nel Galles, dove i suoi compagni di classe si beffavano di lui perché lo sospettavano essere attratto dai ragazzi.

“È, forse, la peggiore esperienza che si possa fare. Sentirsi diverso dovunque come mi sentivo io e come si sentiva Bradley, è come tornare al tempo del Medioevo.”

ha riferito un compagno omosessuale dei suoi anni di liceo. 
La madre lo aveva rimandato in America, ma il padre, un militare di carriera, lo aveva buttato fuori di casa, quando aveva scoperto la sua omosessualità. Ai suoi amici, più tardi, aveva confessato di aver dormito per qualche tempo nell’auto.
Nel 2007, Bradley si era arruolato nell’esercito, come gli aveva suggerito un amico omosessuale e soldato, sperando di trovare la sua strada e potersi pagare gli studi universitari. Bradley non nascondeva la sua omosessualità come gli imponeva la legge Don’t ask don’t tell. Ai suoi amici fuori della caserma, raccontava delle allusioni dei suoi commilitoni. I superiori “mi ignorano”, si era lamentato in una e-mail, “salvo per domandare: “Portami del caffé, poi spazza il pavimento.”.
Prima della sua partenza per l’Iraq, si era innamorato di uno studente di Cambridge (Massachusetts), Tyler Watkins. E stando a quanto scrive, nel mese di maggio, su Facebook, Bradley aveva subito un’ennesima delusione:

“Bradley Manning ha ora la triste sensazione di non avere più niente.”

Bradley, che ha mostrato il volto brutale delle guerre in Iraq e in Afghanistan, è rinchiuso dal 29 luglio, nella base militare di Quantico, in Virginia, in attesa del processo davanti a una corte marziale  e rischia cinquantadue anni di carcere.
È un traditore o un eroe?
Semplice, ribelle, solitario, a disagio nell’esercito americano dove la sua omosessualità è considerata tabù, Bradley voleva aprire gli occhi al popolo americano, svelare le ingiustizie e le atrocità di cui era stato testimone.
L’ultimo atto di un idealista, a disagio nella sua pelle.
Il suo ritratto di ragazzo sorridente ha fatto il giro del mondo.
Il suo caso ha suscitato ampi dibattiti.
Il ragazzo ha tradito?

“Sì.”

sostiene il governo di Washington.
Ma vi è un’altra America, un’America che sostiene che Bradley abbia agito secondo giustizia.
In America, quelli che considerano Bradley un eroe sono, indubbiamente, minoritari, ma rischiano di ritrovarsi più numerosi se l’amministrazione Obama non darà risposte concrete nei prossimi mesi.
Come ridurre le perdite civili che si rivelano ben superiori a quello che ammettono i comunicati ufficiali?
Quale strategia di uscita dall’Afghanistan se una vittoria militare è impossibile e nessuna prospettiva politica è in vista?
I mesi di giugno e di luglio sono stati i più sanguinosi per le forze americane in Afghanistan dal 2001, con 166 soldati uccisi.
Nel 2009, le perdite di soldati americani per suicidio sono state più di due volte superiori a quelle conosciute in Iraq, 334 contro 149.
Un anno fa, alcuni medici militari avevano constatato che, ogni mese, circa 1.000 veterani tentavano il suicidio. Più di 100 veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan hanno avuto crisi di follia e comportamenti violenti fino all’omicidio. Un terzo delle loro vittime erano loro compagne, loro mogli o altri membri della famiglia.
Obama è ormai costretto a sorvegliare il fronte interno.
Abbiamo appreso dal Vietnam, che è là anche e, forse, soprattutto, che si vincono o si perdono le guerre esterne.
Mostrare crimini di guerra è un crimine?
Io credo che non dovrebbe essere giudicato, perché ha fatto il giusto.
La gente negli Stati Uniti e nel mondo intero non conosce la verità sulla guerra in Afghanistan.
Afghan War Diary mostra una immagine diversa della guerra.
E in una democrazia, è importante conoscere la verità per prendere decisioni giuste.



2.   Nove anni dopo
“Nessuno può a lungo avere una faccia per sé stesso e un'altra per la folla, senza rischiare di non sapere più quale sia quella vera.”
Marguerite Yourcenar                                                                       

Per molti paesi poveri, le risorse naturali sono più di ogni altra cosa una maledizione!
Come uscire dal pantano afghano?
Agli inizi di agosto, di fronte a una opinione pubblica americana sulla difensiva, il presidente Barack Obama aveva finito per uscire dal riserbo. Nel corso di una riunione davanti a veterani, aveva annunciato una nuova strategia e aveva riconosciuto che l’esercito americano “si trova confrontato con enormi difficoltà”.
Di fatto, la prima potenza militare mondiale non si batte solo sul terreno in Afghanistan, deve anche far fronte anche a una delle più disastrose fughe di documenti segreti della sua storia.
Nove anni dopo, gli attentati drammatici dell’11 settembre 2001 continuano a fare rovine in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan, per non citare che i luoghi dove le conseguenze sono più disastrose.
Nove anni dopo, il principale mandante di questi attentati, Osama ben Laden, continua a sfidare i suoi battitori dalle montagne del Waziristan, a dispetto dei 50 milioni di dollari, che gli Stati Uniti hanno promesso a chiunque lo consegni vivo o morto.
Dopo l’11 settembre, il segretario di stato Colin Powell aveva promesso agli americani che il dipartimento di stato avrebbe divulgato un White Paper, con le prove dettagliate della colpevolezza di ben Laden.
Il governo talebano aveva richiesto questo documento per estradare ben Laden.
Questo White Paper non è mai stato diffuso e gli Stati Uniti hanno ignorato le procedure legali in vigore e hanno invaso l’Afghanistan.
Noi attendiamo ancora queste prove.    
Noi non conosciamo sempre se Osama ben Laden stia veramente dietro questi attacchi. Numerosi dati di fatto designano lui e al-Qaida, ma le prove intangibili mancano sempre all’appello. L’unica cosa certa è che gli attacchi sono stati pianificati in Germania, non in Afghanistan. Dei diciannove attentatori, quindici erano sauditi, due erano degli Emirati Arabi Uniti, uno era egiziano e un altro libanese.
Un rapporto esplosivo, pubblicato a Londra, agli inizi di settembre, dall’Istituto Internazionale di Studi Strategici dimostrerebbe che la pericolosità di al-Qaida è stata ampiamente esagerata. Il numero dei membri di al-Qaida non ha mai superato le trecento unità.
Oggi, secondo il capo della CIA, Leon Edward Panetta, non vi sono più di cinquanta uomini di al-Qaida in Afghanistan.
E, tuttavia, il presidente Obama ha portato il numero delle unità in Afghanistan a 150 mila, a causa di quella che chiama la minaccia di al-Qaida.
Nel 1999, tra il 4 e il 16 del mese di settembre, circa trecento cittadini russi morivano in una spaventosa serie di attentati esplosivi che, avevano distrutto due condomini nelle città di Volgodonsk e di Buinaksk. Putin aveva accusato, senza alcuna prova, il terrorismo islamico ceceno. Il panico aveva, allora, invaso la Russia e favorito l’ascesa al potere di Vladimir Putin.
Il primo ottobre del 1999, Putin inviava l’esercito in Cecenia e, nel marzo del 2000, veniva trionfalmente eletto presidente della Repubblica Federale Russa. Ma mentre tutta la Russia applaudiva Putin, alcuni agenti dell’FSB venivano sorpresi mentre tentavano di mettere esplosivi in uno stabile di Ryazan, una città operaia della Russia centrale. Pochi giorni dopo l’ultimo attentato di settembre, il 22 settembre 1999, alcuni residenti avevano notato, a tarda sera, due uomini scaricare dei sacchi da una macchina scura senza targa e portarli nella cantina del palazzo. Avevano chiamato la polizia che era, subito, intervenuta e aveva trovato dei sacchi pieni di hexogen. Poche ore dopo, la polizia aveva intercettato una loro telefonata, fatta da una cabina verso un numero di Mosca e i due erano stati arrestati. Ma il numero di Mosca corrispondeva a un interno dell’FSB. I due fermati, infatti, si erano, infatti, dichiarati agenti dei servizi. Furono immediatamente rilasciati.  
La storia fu soffocata.
Nel 2002, Alexander Litvinenko, ex-alto dirigente dell’FSB aveva, apertamente, accusato Putin di aver orchestrato gli attentati del 1999 per giustificare la seconda guerra cecena e arrivare al Cremlino. Litvinenko aveva denunciato tutto in un libro che, appena pubblicato in Russia, nel dicembre del 2003, era stato sequestrato dall’FSB. Fu assassinato a Londra, avvelenato con polonio radioattivo.
Vi sono troppe domande senza risposta, troppi sospetti e poi, quel vecchio adagio latino che dice:

“Cui prodest?”

“A chi giova?”
  
Il 28 febbraio 1933, uno squilibrato olandese, Marinus Van der Lubbe, che, in passato aveva avuto contatti con il Partito comunista, appiccò un incendio al parlamento tedesco, il Reichstag. Mentre le rovine del Reichstag fumavano ancora, Adolf Hitler dichiarò la “guerra al terrorismo”. Fu emanato un decreto “per la Protezione del Popolo e dello Stato”, che sospendeva tutte le protezioni legali in materia di libertà di parola, di riunione, di proprietà e di libertà individuali. L'incendio del Reichstag permise al governo di fermare senza neppure una procedura legale le persone sospettate di terrorismo e di dare praticamente pieni poteri alla polizia.
Nove anni dopo, non sappiamo ancora che cosa sia veramente accaduto l’11 settembre.
La versione ufficiale non è credibile.
Nove anni dopo, quei tragici eventi sono sempre usati dagli estremisti negli Stati Uniti.
L’ultimo episodio è stato l’azione annunciata dal reverendo Terry Jones di bruciare copie del Corano, l’11 settembre, in piena polemica con la costruzione di una moschea a Ground Zero. L’iniziativa non è passata inosservata e neppure la scelta di una data simbolica per passare all’azione: l’11 settembre, nono anniversario degli attentati, che, questo anno, coincideva con la fine del ramadan. Sul sito internet della sua chiesa in Florida, il pastore battista, il cui gruppo riunisce una cinquantina di fedeli, ne spiegava le ragioni:

“L’islam è un pericolo. Intendiamo, dunque, mettere in guardia contro l’insegnamento e l’ideologia dell’islam, che dobbiamo esecrare perché è esecrabile.”

Terry Jones, che aveva invitato altri centri religiosi a seguire il suo esempio, per ricordare le vittime degli attacchi e combattere “il demone dell’islam”, e a decretare l’11 settembre “Giornata Mondiale Io brucio il Corano”, aveva, infine, abbandonato il piano. Ma la semplice minaccia aveva provocato sommosse e manifestazioni in tutto il mondo musulmano fino in Indonesia, dove l’Unione delle Chiese Cristiane Protestanti aveva inviato una lettera al presidente Barack Obama per esortarlo a intervenire.

“Bruciare il Corano ci riporterebbe nel Medioevo e costituirebbe un atto contro la civiltà”,

era stato il commento del suo presidente, Andreas Yewangoe, preoccupato delle conseguenze che avrebbero potuto verificarsi in Indonesia, dove più dell’85% della popolazione è di fede musulmana. Un centinaio di musulmani radicali avevano, già, manifestato, alla fine di agosto, davanti all’ambasciata degli Stati Uniti, a Giacarta, minacciando di scatenare una guerra santa nel caso in cui fosse stato messo in atto il progetto. 
Il comandante delle forze internazionali in Afghanistan, il generale David Petraeus, è stato uno dei primi a stigmatizzare, in una intervista alla ABC, la minaccia molto mediatizzata del piccolo gruppo integralista cristiano.

“Questo potrebbe mettere in pericolo le truppe e lo sforzo globale.”

aveva dichiarato in un’intervista apparsa sul Wall Street Journal, lo scorso 6 settembre.

“É proprio il genere di azioni che i talebani utilizzano e questo potrebbe causare problemi significativi. Non solo qui, ma dappertutto nel mondo dove siamo presenti al fianco della comunità islamica.”

aveva aggiunto.
Nove anni fa, dunque, era perpetrata una serie di attentati contro i simboli economici e militari della potenza americana a New York e a Washington. Per il loro carattere spettacolare e inedito, per il livello terrificante di violenza, per il numero di morti (più di 3 mila innocenti vi hanno perso la vita), questi attentati hanno provocato un terremoto politico che non poteva non guastare l’asse strategico intorno al quale ruotava la potenza americana. 
Il profondo sconvolgimento della linea bellica, seguita dagli Stati Uniti, è visibile dall’indomani, il 12 settembre.
Il grave deficit in termini di esperienza, di intelligenza e di fiuto politico che caratterizzava l’allora centro decisionale a Washington avrebbe fatto in modo che un gruppo di neoconservatori, ossessionati dall’Iraq e determinati a distruggerlo, potesse sfruttare gli eventi drammatici dell’11 settembre per ottenere la guerra contro l’Iraq.
Dopo aver ridotto a brandelli il regime dei talebani, l’esercito americano avrebbe avuto la capacità di sradicare al-Qaida dall’Afghanistan e di impedirgli di fuggire verso le montagne del Waziristan pakistano.
La decisione di abbandonare l’Afghanistan in uno stato di anarchia e di occuparsi del regime baatista dell’Iraq si sarebbe rivelata fatale. È già considerata da storici americani come la decisione più disastrosa nella storia della politica straniera americana.
Lasciando nel rilievo scosceso della frontiera afghano-pakistana i veri responsabili delle azioni terroristiche e distruggendo il regime baatista iracheno, dittatoriale certo, ma una barriera insormontabile al terrorismo, George Bush e il suo circolo di neoconservatori aprivano le porte dell’inferno non solo per l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan e lo Yemen, ma anche per il proprio paese.
Per una decisione insensata, gli Stati Uniti hanno alimentato per anni un genere di terrorismo nichilista e suicida sconosciuto fino ad allora e contro il quale gli eserciti più potenti del mondo non possono molto.
Partiti, nel 2001, con grande fanfara per “abbattere il terrorismo” nel quadro di una guerra globale, Bush e i suoi amici l’hanno, al contrario, nutrito e mantenuto con una serie di decisioni erronee.
È un fatto indiscutibile che le disgrazie che si sono abbattute sugli iracheni, gli afghani, i pakistani e gli yemeniti hanno un legame diretto con gli attentati dell’11 settembre 2001.
Lo scorso 31 agosto, in occasione della partenza delle truppe di combattimento dall’Iraq, Barack Obama ha affermato che “nessuno dubita dell’amore del presidente Bush per il proprio paese e del suo impegno per la sua sicurezza”, aggiungendo che la guerra in Iraq costituisce “un capitolo notevole nella storia dell’impegno dell’America verso la libertà”.
Quanto all’“impegno dell’America verso la libertà”, la schiacciante maggioranza degli iracheni sarebbe stata ben felice di non beneficiarne. Perché, a rischio di indignare qualche sensibile anima occidentale, la dittatura di Saddam Hussein era di gran lunga preferibile all’anarchia e al terrorismo suicida che insanguinano l’Iraq dal 2003 e che alcuni americani si ostinano sempre a chiamare libertà.



3.   Afghanistan: una guerra infinita
“Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità.”
Friedrich Nietzsche

Il 7 ottobre scorso, la guerra scatenata da George W. Bush contro il regime dei talebani in Afghanistan, è entrata nel suo decimo anno, e né Washington, né la NATO hanno la minima idea di concludere questo conflitto insensato. Fino a oggi, le strategie occidentali, che siano a Kabul, a Washington o a Bruxelles, dove ha sede la NATO, si sono mostrate incapaci di immaginarne una che metta fine a quello che è divenuto l’incubo delle truppe alleate, confrontate con un’insurrezione talebana sempre più ardita e sempre più aggressiva.  
Gli attacchi quotidiani nel nord-ovest del Pakistan a colpi di missili lanciati dai drones americani, mirano a eliminare i quadri della nebulosa terrorista di al-Qaida, rifugiati nelle montagne che dominano la frontiera pakistano-afghana. Quasi tutti i giorni, comunicati di fonte americana riferiscono della morte di numerosi terroristi, informazioni che nessuno può verificare. Al contrario, sono perfettamente verificabili gli attacchi dei drones che hanno accresciuto, in modo drammatico, le difficoltà delle truppe alleate in Afghanistan.
I talebani pakistani, volendo vendicarsi degli attacchi americani, si sono messi ad attaccare, quotidianamente, i convogli di carburante, di cibo e di materiale destinato alle truppe della NATO, prima che superino la frontiera afghano-pakistana dal lato di Peshawar o, più a sud, dal lato di Quetta. I camion incendiati in prossimità di queste due città pakistane si contano a centinaia, ponendo un vero problema di approvvigionamento per le truppe alleate in Afghanistan, che contano più di 150 mila soldati.
Ci si può legittimamente stupire che con un numero così elevato di soldati dotati di armi, di tanks, di elicotteri e di aerei da combattimento, tra i più sofisticati, gli Stati Uniti e la NATO fatichino a venire a capo di un’insurrezione di cui la povertà, l’ignoranza e il sottoequipaggiamento sono le caratteristiche principali dei suoi combattimenti!
È vero che i talebani sono a casa loro, conoscono le montagne afghane come le loro tasche e possono in un batter d’occhio confondersi tra i civili, lasciando l’esercito più potente disorientato. È vero anche che le forze alleate, che hanno spesso il grilletto troppo facile, hanno servito molto più alla causa dei talebani che alla causa per la quale combattono. Facendo un numero elevato di vittime civili, le forze americano-atlantiche hanno involontariamente accresciuto la popolarità dei talebani, a dispetto della loro crudeltà e del loro oscurantismo, e accresciuto, allo stesso tempo, il risentimento e l’odio per le forze straniere tra la popolazione afghana, che non crede più molto alle promesse di un avvenire democratico e prospero.
Ma gli afghani hanno mai creduto in un avvenire democratico e prospero?
È permesso dubitarne quando si sa la storia dell’Afghanistan, un paese insanguinato, di volta in volta, da conflitti fratricidi e guerre contro l’occupazione straniera. Prima dell’invasione del paese da parte delle truppe sovietiche, nel dicembre del 1979, gli afghani si erano sbranati l’un l’altro, per anni, durante i quali si erano succeduti colpi di Stato e rivoluzioni di palazzo.
L’invasione sovietica aveva unificato fazioni e tribù la maggior parte delle quali erano a coltelli tirati. Nei dieci anni di guerra contro l’occupante sovietico (1979-1989), gli afghani non erano mai stati così uniti. Una unità che è andata in frantumi dalla partenza dell’ultimo soldato russo.  
Gli Stati Uniti che, durante quel decennio, erano stati eccessivamente generosi in denaro e armi con la resistenza eteroclita afghana, avevano girato le spalle all’Afghanistan subito dopo la disfatta sovietica.
Un errore strategico monumentale che stanno ancora pagando.
Per sette anni (1989-1996), gli afghani si sono uccisi l’un l’altro nell’indifferenza quasi totale, distruggendo le poche infrastrutture che erano sfuggite alla guerra contro i sovietici.
Il regime oscurantista dei talebani, che aveva finito per imporsi, nel 1996, aveva un solo punto positivo: aveva portato una stabilità che il paese non conosceva da decenni.
Il regime dei talebani si sarebbe probabilmente mantenuto fino a oggi, se il suo capo, il Mollah Omar, avesse accettato di consegnare Osama ben Laden agli americani, come avevano richiesto, all’indomani degli attacchi terroristi dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington.
Bisogna anche dire che l’Afghanistan, in particolare, e il mondo, in generale, starebbero meglio, oggi, se George W. Bush non avesse deciso, nel 2003, di lasciare l’opera incompiuta in Afghanistan per andare a tirare il diavolo per la coda in Iraq.
Questi errori strategici hanno impantanato gli Stati Uniti in quella che è divenuta la più lunga guerra straniera della storia americana. Questa guerra costa, oggi, al contribuente americano più di 100 miliardi di dollari l’anno, vale a dire sette volte il prodotto interno lordo afghano.
Abbiamo qui uno degli enigmi che i futuri storici faranno fatica a chiarire: la più grande potenza del mondo, aiutata dalla più grande alleanza militare del pianeta, ha fallito, a dispetto delle spese illimitate, a stabilizzare un paese povero e arretrato.
La cosa più terrificante è che la metastasi del cancro afghano non ha l’aria di limitarsi alle frontiere afghane. Le zone tribali del nord-ovest del Pakistan sembrano soccombere, di giorno in giorno, al modello afghano, che combina anarchia e violenza.
Quello che tutto il mondo teme, è che i cloni pakistani dei talebani afghani si spingano ad afghanizzare il Pakistan.
E se, Dio non voglia, si spingano a minacciare le strutture statali a Islamabad e a generalizzare l’anarchia e la violenza nel paese dei puri che, per di più, è detentore di un arsenale di armi nucleari, le conseguenze disastrose non si limiterebbero, sicuramente, all’Asia del sud.


Note:

(1) Il 17 aprile 2009, WikiLeaks aveva svelato l’integralità del processo del caso Marc Dutroux, il pedofilo belga, in particolare l’estratto delle sue audizioni.

(2) Fisicamente Julian Assange esce dall’ordinario con i suoi capelli bianchi, i suoi occhi freddi e la sua fronte spaziosa. Anche la storia della sua vita. Nel dicembre del 2006, crea WikiLeaks, un sito dedicato alla rivelazione di documenti confidenziali.

(3) Nel 2007, l’agenzia di stampa Reuters la Reuters aveva chiesto il video al Pentagono, secondo quanto disposto dal Freedom of Information Act, senza ottenere risposta.

(4) Adrian Lamo, ex-pirata informatico californiano, è stato condannato per essersi introdotto, nel 2004, nei sistemi informatici del New York Times, di Microsoft e di Lexis-Nexis, con l’intenzione, a suo dire, di testare le difese di queste imprese.

(5) Wikileaks ha annunciato la pubblicazione di 15 mila documenti supplementari sulla guerra in Afghanistan.

(6)
The Heroism of PFC Bradley Manning
by Evan Knappenberger
At the US Army’s Intelligence Training Center at Fort Huachuca, Arizona in 2003 and 2004, our first term paper was assigned to be on the military intelligence hero of our choice. The museum there had several dozen to choose from, though I forget now who I wrote about. Aside from the occasional joke (Isn’t M.I. an oxymoron?) I don’t think I got much out of it. So here I am: seven years, one degree, and a hell of a lot of heartache later, re-writing the paper, which I intend to submit in its entirety to the commander of that school.
I am writing today about PFC Bradley Manning, and why he is my new M.I. hero. Mr. Manning has the distinction of being the prominent “wiki-leaker” suspected of the 92,000 document upload featured in the news this last week. I look up to Mr. Manning specifically because he had the guts to do what I didn’t: expose the lie that is war.
My proudest moment as a US Army intelligence analyst came when I was in Iraq. I did a comprehensive study of civilian sectarian violence in and around Baghdad. Roughly a few weeks before the Lancet published a study that estimated more than 550,000 Iraqis had been killed between 2003 and 2006, I had corroborative, classified intelligence to the same effect. After first mapping out a GIS database of all insurgent weapons caches, findings of bodies by US forces, and reports of kidnapping, I made a series of overlays that gave each 50-meter area its own designation: weapon cache site, insurgent checkpoint, body dumping ground, or sectarian-contested area. In this way, using empirical classified data, I correctly predicted a dozen sites where armed militants were manning checkpoints and kidnapping civilians. The cache report also led, simultaneously, to the largest find of illicit explosives to that date in Iraq: nearly a thousand artillery rounds piled in a junkyard north of Baghdad.
After completing this phase of the study, I was surprised to learn that the Rand Corporation was being contracted by the Department of Defense to do a similar GIS study at the cost of several million dollars. Intrigued, I found a copy on the army’s secret computer network, the SIPRNET, and was disgusted with the obviousness of the results. The Rand’s expensive product was very simply a satellite image of the main highway in Iraq, with a few highlighted areas named “IED Hotspots”. This was nothing that a few hours on the ground wouldn’t tell any soldier in the army; but somehow, someone behind a desk in DC was making tons of money off it.
The next phase of the study was kind of an accident. I had the unfortunate experience of being assigned to guard the base for 97 nights on a metal tower behind the burning cesspools of the American occupiers’ filth. Several times, I was shot at on this guard duty, late at night. Once or twice we were mortared as well. After returning to my job as an analyst, I half-jokingly set myself the task of finding these attacks in the database, where they should have been after my reports. Surprise: they were not there. Thus began my next project: determining the actual extent of the databases’ failure.
For two weeks I worked non-stop to get a picture of the accuracy of the data that ultimately determined the narrative that our commanders told themselves and their bosses. My best estimate was that 30-50% of attacks on US forces went unreported at this time. This number was worse for the Iraqi Army, where probably 70% of attacks went unreported, unless casualties were taken.
Another part of my job was to sit in on the nightly classified SIPRNET briefings for the Multi-national Division Baghdad. Major General JD Thurmond, then in charge, would start every night about 6 pm with a hearty Salaam Alaikum, Baghdad! This briefing would often include visiting Senators and other administration officials, as well as Iraqi officials. One night as I was preparing this phase of my study, I was amused to listen for nearly an hour as two of Thurmond’s associates tried to claim credit for a perceived drop in violence in an area recently turned over to the Iraqi Army. One general argued that it was his superior training and logistics that had prevailed against the insurgents. Another claimed it was the cultural similarities of the Iraqi troops that made them adaptable to the territory. Never did it cross any of their minds that perhaps attacks were actually increasing against the Iraqi army at this point, but not making it to their screens in the nightly briefing. Thurmond settled the issue by saying something to the effect that more area should be turned over to the Iraqi unit as soon as possible.
My point in sharing these stories is twofold. First, I would hope to illustrate the principle of a lost narrative. Not only is the information fed to the American media and often inaccurate (even to the point of being propaganda), but the information that the military uses to form its own narrative of conflict is skewed. Second, that sometimes even the privates in the army know better than the generals in charge. This almost certainly is the case for PFC. Bradley Manning, now in jail accused of leaking information to the world.
Mr. Manning, at twenty-two, is something of a hero to me now. We went through the US Army’s Intelligence Analyst School at Fort Huachuca Arizona at different times, but I feel like we are on the same page. My biggest regret about my time in Iraq is that I didn’t leak the information I had access to. One can only hope that these soldiers, in better position to see the situation than anyone else, continue to leak the military’s secrets to the world.
I have to admit, I am not surprised at the reaction of the media to this latest leak. For a bunch of idiots hiding in the green zone, I don’t think there is much to their supposed analysis of the situation beyond what they get spoon-fed by the military’s press liaisons. That anyone could expect the press coverage of the wars in Iraq and Afghanistan to be anything other than utter drivel is pretty ironic. Not as ironic, though, as General Mattis telling a roomful of reporters that Wikileaks “already has blood on their hands.”
If I couldn’t tell the generals a single thing as an intelligence analyst when I was in the Army, maybe I could have told the world. I have to wonder about a country that would send me to war as a twenty-year-old virgin but is shocked and unwilling to hear of the horrible things that happen there on a regular basis. If these 92,000 or so “documents” are what the military is using to assess its own situation, it makes one wonder what doesn’t make it into their database. The questions that the media has failed to ask extend far beyond those posed by the comparatively mundane Wikileaks documents exposed this week.
Perhaps now that the administration has some of the public looking over its shoulder, it will be compelled to tell the truth about Afghanistan. So far, the only challenge to the war propaganda has been the rising number of coalition casualties. Now, it seems, the monumental task of making up reasons for these numbers is going to have to fit in with the half-truth of the Afghanistan database documents.
As far as the courageous PFC Manning goes, he is my new military intelligence hero. Thanks, Brad. And shame on you, media, for being out-reported by a twenty-two year-old kid with a laptop. But most of all, shame on you, US Army, for forcing a kid to be the one to finally expose the truth about your costly and deadly wars.
Evan Knappenberger is an Operation Iraqi Freedom (05-07) veteran living in Bellingham, Washington, and a recent graduate of Whatcom Community College.  He can be reached at evan.m.knappenberger@gmail.com.




Daniela Zini
Copyright © 17 ottobre 2010 ADZ