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martedì 20 marzo 2012

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE BARACK OBAMA

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE BARACK OBAMA

Roma, 19 marzo 2012


President Barack Obama
The White House
1600 Pennsylvania Avenue NW
Washington, DC 20500

“E in principio erano le statue.”
È così che potrebbe iniziare un saggio storiografico sulla guerra o una dissertazione filosofica sulla vera levatrice della storia moderna. Perché le statue belliche nascondono più guerre di quante non ne mostrino. Erette per cantare in pietra la memoria delle conquiste belliche, non fanno che nascondere l’orrore, la distruzione e la morte di ogni guerra. E i sembianti di pietra di Vittorie o di Angeli, coronati di alloro, non servono solo a far sì che il vincitore mantenga la memoria del proprio trionfo, ma anche a foggiare l’amnesia nel vinto.
Oggi, questi specchi di roccia sono caduti in oblio.
Non solo sono seppelliti, giorno dopo giorno, dalla critica implacabile di uccelli di ogni genere, ma hanno trovato nei media un rivale imbattibile.
L’effigie di Saddam Hussein, rovesciata a Baghdad, non è stata soppiantata da quella del Presidente degli Stati Uniti di allora, ma dai cartelloni pubblicitari delle multinazionali. Per quanto il volto sempliciotto di George W. Bush si prestasse a promuovere “cibo spazzatura”, le multinazionali hanno preferito auto-erigersi l’omaggio di un nuovo mercato conquistato. Al mercato della distruzione è succeduto il mercato della ricostruzione. E, anche se le perdite continuano tra le truppe, l’importante è il danaro che va e che viene come deve essere: con fluidità e in abbondanza.
“In passato erano le statue, oggi sono le Borse Valori.”
È, così, che potrebbe continuare la istoriografia moderna della guerra.
Ma la realtà della storia – questo caotico orrore guardato, tutti i giorni, un pò meno e con un pò più di asepsi – impegna, chiede conto, esige addebiti, incrimina. Uno sguardo onesto e una analisi critica potrebbero individuare i pezzi del puzzle e, allora, si udrebbe, come un macabro fracasso, l’adagio: 
“In principio era la guerra.” 
Chi non ricorda la giustificazione della forza armata multinazionale per invadere l’Iraq?
Si è costruita su quella menzogna una gigantesca impalcatura mediatica che è stata il carburante per una guerra che non è, ancora, terminata, almeno in termini militari. Al pari delle statue che sono servite per il ricordo del vincitore e l’amnesia del vinto, nelle guerre, i belligeranti devono non solo distruggere fisicamente l’avversario, ma anche costruirsi un alibi di propaganda, di legittimità.
Distruggere moralmente!
Chi non ricorda che non sono, mai, state trovate armi di distruzione di massa in Iraq?
È, dunque, senza importanza che si sia agito con una menzogna, che vi siano stati orrori, distruzione e morte, perpetrati con un falso alibi?
Signor Presidente, è ancora viva in me l’eco delle Sue parole a Praga:
“Quando sono nato il mondo era diviso e le nostre Nazioni erano confrontate a situazioni molto diverse. Poche persone avrebbero potuto prevedere che uno come me sarebbe potuto divenire, un giorno, Presidente degli Stati Uniti. Poche persone avrebbero potuto prevedere che a un Presidente americano sarebbe stato concesso di parlare a un pubblico come questo, a Praga.
[…]”
Quel 5 aprile 2009, Lei non ha esitato a fissare un obiettivo molto ambizioso alla Sua nuova diplomazia: l’impegno dell’America a ricercare la pace e la sicurezza in un mondo senza armi nucleari.
Questa dichiarazione di intenti lasciava ben sperare tutti coloro che lottano per la pace. Entrava in risonanza con l’appello in favore del Protocollo Hiroshima-Nagasaki, complementare al Trattato di Non-Proliferazione Nucleare, avente come obiettivo la creazione di un mondo libero da armi nucleari entro il 2020.
Lei, Signor Presidente, in rottura totale con il Suo predecessore, riteneva che il Suo Paese avesse una “precisa responsabilità morale di agire”. E ciò, proprio quando gli Stati Uniti ci avevano abituato, da lungo tempo, a parole e ad azioni belliche, in linea con il loro modello di sviluppo infallibile, basato sulla democrazia liberale e la fede cristiana.
Ebbene, ora, è necessario concretizzare nella pratica questa “precisa responsabilità morale di agire” per essere coerenti tra il dire e il fare.
Lei, Signor Presidente, deve prendere decisioni politiche per superare i conflitti armati che affliggono l’intera umanità, conflitti nei quali il Suo Paese è implicato.    
E ho ricordato un altro 5 aprile, quello del 1898. Quel giorno, un altro Suo predecessore, Theodore Roosevelt, che, pure, era favorevole alla guerra, scriveva al suo Sottosegretario di Stato Robert Bacon:
“Qui, a Washington, noi abbiamo l’impressione che tutti coloro che abbiano un legame qualsiasi con gli interessi del big business siano pronti a ricorrere a qualsiasi infamia per preservare la pace ed evitare che gli affari siano pregiudicati.”
Ed ecco che, al presente, la nostra realtà nazionale è invasa dalla guerra!
Una guerra che non solo non è più lontana per chi aveva l’abitudine di vederla in geografie o in calendari distanti, ma che inizia a governare le decisioni e le indecisioni di coloro che credevano che i conflitti bellici non si trovassero che nei bollettini di informazione o nei filmati di luoghi così lontani quali l’Iraq, l’Afghanistan…
Guerra senza fine?
Quando finirà questa guerra?
Quando apparirà sullo schermo del Governo Federale il game over della fine del gioco, seguito dai nomi dei produttori o degli sponsors della guerra?
La guerra non è più un urto tra eserciti.
È una conflagrazione tra popoli che, nella lotta, impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite.
È la guerra totale, in cui ciascuna delle parti cerca, con i più efficienti strumenti, forniti dalla scienza moderna, di distruggere il potenziale bellico e di abbattere il morale del nemico, come mezzo indiretto per annientarne l’esercito.
È la negazione di ogni sentimento umano, il definitivo ripudio del diritto come regola di vita.
È un turbine che sradica intere popolazioni dalle terre, sulle quali risiedevano da secoli, per gettarle senza più case, senza più mezzi per vivere, a migliaia di chilometri di distanza; che non rispetta né ospedali, né luoghi di culto, né asili di infanzia; che riduce in macerie fumanti biblioteche, musei, opere d’arte, i più preziosi patrimoni ereditati da innumerevoli generazioni passate.
L’umanità sta, laboriosamente, cercando la sua strada attraverso un agitato periodo di transizione. Le istituzioni politiche e sociali devono, ancora una volta, essere trasformate: un nuovo mondo sta per nascere. Il vecchio mondo, da qualsiasi lato si guardi, appare nel suo letto di morte.
Settantacinque anni dopo la firma del trattato di pace e il ritiro delle truppe americane dall’Italia, noi non vediamo intorno a noi che diffidenza, incertezza e fanatismo. Noi viviamo sotto il regime della grande paura. Per decine di milioni di esseri umani la fame e la disperazione sono più che una paura, sono realtà della vita giornaliera.
Il sangue ha iniziato a scorrere di nuovo.
Per cecità da una parte, per impotenza dall’altra, le soluzioni della disperazione sembrano essere le sole adottabili e realiste.
Che cosa dobbiamo pensare di tutto ciò?
Nel 1947, tre fattori principali sono stati determinanti nella vita internazionale: il piano Marshall, l’insuccesso della Conferenza dei Tre Grandi e il sorgere del Cominform.
Il problema dell’ordine internazionale è il problema più urgente, quello che deve avere una precedenza assoluta nella nostra considerazione, in quanto solo una sua razionale soluzione può dare un senso a tutte le soluzioni proposte per i particolari problemi politici, economici, spirituali che, oggi, si presentano nell’ambito dei singoli Stati. Se non arriveremo a un assetto internazionale che metta fine alle guerre a ripetizione, coinvolgenti tutti i Paesi del mondo, non potremo salvare la nostra civiltà: entreremo in un nuovo Medioevo.
La cosiddetta Intelligentia risulta composta di propagandisti e di esperti, perché non si apprezzano più le opere di significato universale, né le ricerche disinteressate, ma solo le opere che esaltano i sentimenti nazionalisti e i ritrovati tecnici, che possono tradursi in armi efficienti. Discorsi, giornali, televisione, fanno appello alle forze irrazionali dell’animo umano, per creare uno stato di follia collettiva, che unifichi tutto il popolo in una sola volontà diretta a un unico fine: la vittoria, a qualunque costo, sopportando qualsiasi sacrificio. Non ci si deve neppure più chiedere cosa la vittoria possa significare. Si vuole la vittoria per la vittoria, si vuole la distruzione del nemico, si vuole sopravvivere, anche se quello che di noi sopravvivrà non meriterebbe, in alcun modo, essere difeso.
Le falsificazioni, le menzogne sono, sistematicamente, adoperate come strumenti di guerra al pari delle bombe e dei missili.
Chi ragiona, chi dubita, è un nemico della patria.
Tutti i valori morali sono sovvertiti: la violenza, il misconoscimento di ogni regola di vita civile, l’odio che non ammette alcuna attenuante a favore dell’avversario, il conformismo e l’obbedienza cieca agli ordini che vengono dall’alto, sono lodati, premiati, divengono abiti spirituali, in luogo del rispetto della vita umana, dell’ossequio alle leggi, della tolleranza, dello spirito critico e del senso di responsabilità individuale.
È per questo che la distinzione tra reazionari e progressisti, oggi, non corre più lungo la linea che separa coloro che  vogliono consolidare o modificare, in qualsiasi modo, lo stato di cose esistente entro i confini dei singoli Stati nazionali, ma si pone tra coloro che ostacolano e coloro che favoriscono l’avvento di un nuovo ordine internazionale, capace di ridurre i contrasti tra Stati. 
Cessiamo di guardare altrove e di aspettare da altri la soluzione dei nostri problemi.
Riflettiamo sulla profonda affermazione lanciata da George Washington al popolo americano, al termine della sua Presidenza:
“Trattate tutte le Nazioni con buona fede e giustizia.
[…]
Bisogna abbandonare gli odi inveterati e gli appassionati attaccamenti per altri. La Nazione che si abbandona a un durevole odio o a un ostinato affetto per un’altra Nazione si rende in certa misura schiava.”
La posizione, che ho delineata, implica un atteggiamento pacifista perfettamente chiaro.
Opponendomi alla guerra, credo rendere un servizio ai reali interessi di una Europa e di una America, i cui popoli non chiedono che di vivere in pace.
Il mio pacifismo, è bene intenderci, non è sinonimo di viltà.
Mi rendo conto, fin troppo bene, che vi sono cose il cui valore è superiore a quello della vita stessa.
Ma queste cose possono essere salvaguardate dalla guerra?
Potrebbe una gara di distruzione atomica risolvere il problema israelo-iraniano?
Io credo che la soluzione militare, a onta della cortina fumogena di “fermezza” e di “potenza” da cui viene circondata, non sia in fondo che una prova di impotenza e di collasso.
I conflitti armati non risolvono nulla.
I problemi non si risolvono che con una conveniente organizzazione della società.
Coloro che vogliono la pace non si preparino più oltre alla guerra.
Non è vero che le due guerre mondiali furono determinate da cause economiche. Nessuno che sappia compiere un ragionamento economico corretto può credere che un popolo, anche vincitore, possa trarre dalla guerra un qualsiasi risultato, se non di impoverimento, di miseria e di abiezione.
Vero è, invece, che le due grandi guerre furono guerre civili, anzi guerre di religione e, così, sarà la terza, se, per nostra sventura, opereremo in modo da provocarne l’opera finale di distruzione.
Se nell’Europa conquistata dai tedeschi si ripeté l’esperienza che Tacito aveva scolpito con le parole solenni:
“Senatus, equites, populusque romanus ruere in servitium.,
ciò fu perché, negli uomini, lo spirito, non sempre, è pronto a vincere la materia.
Non ha senso alcuno dire che le guerre siano una conseguenza del capitalismo, della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalisti. Indiscutibilmente, i gruppi capitalisti possono avere interesse che scoppi la guerra. Ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente per farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato, i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano le città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi.
È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalisti, che ottengono l’appoggio dei Governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi, nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra gli Stati.
Nella nuova era atomica, guerra vuol dire distruzione, forse, non della razza umana, ma certamente di quell’umanesimo per cui, soltanto agli uomini, è consentito di essere al mondo.
Quella bomba atomica, di cui tanto paventiamo, vive, purtroppo, in ognuno di noi!
Un mondo auspicabile, per la cui attuazione si deve lottare, non è un mondo chiuso contro nessuno, è un mondo aperto a tutti.
È un mondo in cui gli uomini possono, liberamente, far valere i propri contrastanti ideali e le maggioranze sono tenute a rispettare le minoranze e a promuoverne le finalità.
È un mondo in cui ogni Stato è pronto a sacrificare una parte della propria sovranità.
Oggi, ogni Stato afferma, nel modo più intransigente, la propria assoluta sovranità; non ammette alcun limite al proprio volere; pretende essere, in ogni caso, il solo giudice del proprio diritto. E, per difendere il proprio diritto, cerca di raggiungere una forza maggiore degli eventuali nemici, armandosi e alleandosi con altri Stati. La sicurezza conseguita da uno Stato corrisponde all’insicurezza, all’accettazione di una condizione di inferiorità, da parte di altri.
Il cosiddetto diritto internazionale, in realtà non è un diritto, perché afferma norme che le parti osservano finché desiderano rispettarle. In tutti gli accordi internazionali è, infatti, sottintesa la clausola rebus sic stantibus, per la quale i Governi, in pratica, si ritengono vincolati solo nei limiti in cui l’adempimento degli obblighi, che dagli accordi discendono, non sia, a loro insindacabile giudizio, in contrasto con l’interesse del proprio Paese.
La più grandiosa e grottesca manifestazione della completa vacuità del diritto internazionale è stata, il Patto Briand-Kellog, che poneva la guerra “fuori legge”. Pressoché tutti i Governi del mondo – compresi quelli della Germania, dell’Italia e del Giappone – si affrettarono a dare pubblica prova delle loro pacifiche intenzioni, firmando la morte legale della guerra.
Stupendi discorsi, scambio di telegrammi tra Capi di Stato, brindisi, felicitazioni, articoli ditirambici su grandi giornali.
Ma di buone intenzioni è lastricato l’inferno!
In nome degli ideali più puri si costruiscono le migliori cattedrali, ma se gli ideali proposti non vivono nel nostro animo, al servizio di ciascuno di noi, sono destinati a venire traditi.
E le belle cattedrali si trasformano in vuote conchiglie!
Il Patto Briand-Kellog, non prevedendo nessuna efficace sanzione, lasciò le cose come stavano. La guerra, tutta occupata a massacrare e a distruggere, neppure si accorse di essere stata messa “fuori legge” da così tante brave persone.
In un mondo, in cui si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalisti, in cui, improvvisamente, si scoprono passionali correnti patriottiche in chi fino a ieri professava idee internazionaliste, in questo mondo, in cui si vedono, con raccapriccio, riformarsi tendenze belliciste, urge compiere un’opera di unificazione.
Opera, dico, e non predicazione!
Signor Presidente, lei voleva realizzare il sogno di Martin Luther King, lui che ha lottato, incessantemente, per sancire i diritti civili nel suo Paese e debellare l’ingiustizia perché tutti noi potessimo sedere alla stessa tavola della fraternità, dividere insieme il pane che alimenta il corpo e il pane che alimenta lo spirito, costruire insieme i cammini della libertà.
La pace è una costruzione permanente tra le persone e i popoli nella diversità e nell’unità.
Signor Presidente, lei è di fronte a grandi sfide, che non possono essere assunte da una sola persona. Anche i popoli devono poter partecipare alla costruzione di nuovi modelli di vita e pervenire, così, alla realizzazione di società più giuste e più fraterne. 
Georges Clemenceau sosteneva che la guerra fosse una cosa troppo seria per essere lasciata ai generali. Noi dovremmo, tutti, convincerci che la pace è una cosa troppo seria per essere lasciata ai diplomatici.
Signor Presidente, ascolti la voce dei popoli e non si lasci manipolare da coloro che cercano, sempre, di favorire il capitale finanziario e di imporre i propri interessi economici, politici e militari piuttosto che la vita dell’umanità. Le spese militari sono alternative alle spese sociali. Quanto più aumentano le une, tanto più devono, necessariamente, diminuire le altre.
Nel piccolo gruppo di uomini, estremamente ricchi, debbono trovarsi persone stupide oltre ogni dire, se pensano, seriamente, che la guerra totale possa giovare alle loro ricchezze o al loro potere politico. Sono le stesse che distruggono l’ambiente e la libertà cittadina e che generano la fame, la povertà e l’emarginazione.
Noi vogliamo essere liberati, in questa epoca di abbondanza, dal tirannico spettro della fame e dell’incertezza del domani.
Noi non vogliamo più essere vittime di un potere economico accentrato nelle mani di una minoranza irresponsabile.
Noi non vogliamo più tollerare l’esclusione, per ragioni di nascita o di povertà o di altra inferiorità sociale, dalla possibilità di impiegare tutte le nostre capacità per il bene di tutti.
Noi non vogliamo più essere esposti allo spregio e alla umiliazione o corrotti dalla presunzione e dalla strettezza di vedute, che ogni sistema a stratificazioni sociali porta con sé. 
“Ogni giogo è fatto per essere scosso.”
ci ammonisce Denis Diderot.
Certa che le Sue prossime decisioni andranno nella buona direzione, chiuderò questa mia, prendendo in prestito i versi del grande Poeta persiano Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, da lei citati, lo scorso Nouruz:

Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.
Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.
To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.
Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.
Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Az samin-e qalb kheili moteshakkeram.
’Eid-e Ishan mobarak, Aqa-ye Obama!


Assunta Daniela Zini
Copyright © 19 marzo 2012 ADZ