Così dice Re Dario, il Re dei Re:
Colui che è giusto mi è gradito alla vista. Non amo i bugiardi. Non sono vendicativo. Sono contro tutto ciò che mi è causa di cruccio.
Colui che serve la patria sarà da me ricompensato e colui che pecca sarà castigato.
Non amo coloro che fanno male al loro prossimo, né amo che i malfattori restino impuniti.
Sono contento quando sento qualcuno lodare il prossimo e ne gioisco, essendo per me fonte di gioia.
Tutto quello che ho fatto, lo vedrai e lo sentirai: quanto ho fatto in patria o sui campi di battaglia.
Conoscerai allora la misura della mia potenza e della mia saggezza.
dal testamento di Dario
di
Daniela Zini
“Io sono Dario, il grande Re, il Re dei Re, il Re dei Paesi dove abitano diverse razze, il Re di queste immense terre fino alle frontiere lontane, figlio di Istaspe Achemenide, persiano, figlio di persiani, ariano di razza ariana.
Quando il Dio Ahura Mazda vide che sulla terra le cose non andavano bene, mi dette potere, creandomi Re. Io, con il suo aiuto, ovunque ho ristabilito l’ordine. Ogni mio desiderio è stato esaudito ed eseguito. Se vuoi vedere e conoscere la diversità dei popoli che Dario ha governato, guarda queste immagini e queste figure sulle cui teste poggia il mio trono. Con questo mi conoscerai bene e comprenderai che le lance dei persiani sono andate lontanissimo e i soldati persiani si sono battuti in questi Paesi molto lontani dalla loro terra.”
Queste sono le frasi scolpite da millenni nella viva roccia delle aride montagne di Naqsh-e Rostam, che ricordano ai posteri di tutte le razze e di tutte le civiltà la gloria immortale di Dario I di Persia, il Re dei Re. Nacque, nel 550 a .C., nella nobile famiglia degli Achemenidi e non sarebbe, forse, mai salito sul trono, se una congiura di palazzo non avesse posto in pericolo non solo la dinastia regnante, ma l’avvenire stesso del giovane Impero fondato pochi decenni prima dal grande Ciro. Durante i ventuno anni del suo governo, Ciro aveva saputo creare uno Stato esteso quanto nessun altro in quel tempo; aveva sottomesso i medi, i lidi, i babilonesi e aveva portato i confini dello Stato fino al limite meridionale della Siberia. Ma, opera ancora più mirabile, in pochissimi anni aveva dato ai suoi vastissimi possedimenti una organizzazione politica, militare, amministrativa solidissima, fondando il suo governo sulla generosità verso i popoli vinti, sulla magnanimità, il rispetto delle idee e delle tradizioni altrui: rara eccezione in un’epoca in cui i conquistatori fondavano i loro Imperi sul terrore, sulle rovine, sul sangue dei popoli conquistati e sottomessi.
Il figlio del saggio Ciro, Cambise, pur avendo ereditato alcuni aspetti positivi del carattere paterno, fu, spesso, vittima di veri attacchi di follia omicida e si macchiò di orrendi delitti che gli inimicarono l’opinione pubblica; e quando, durante una sua assenza dalla capitale, un avventuriero detto Gaumata il Mago, spacciandosi per il figlio morto di Ciro, Smerdi, tentò di impadronirsi del potere, la situazione si rivelò subito pericolosissima: era in pericolo non solo la dinastia regnante, ma la solidità stessa del giovane Impero. Fu in questo momento terribile che Cambise venne a morte, sembra in Siria, in circostanze misteriose; la Persia intera, divisa in fazioni, attendeva con ansia lo svilupparsi degli eventi, quando un giovane della dinastia regnante degli Achemenidi, Dario, con polso fermo, prese in mano le redini della situazione. Con il valido aiuto dei grandi feudatari raccolse attorno a sé, i fedeli del Re defunto e, scacciato dalla Persia l’usurpatore, salì al trono iniziando un regno che doveva passare alla storia come splendido esempio di oculatezza amministrativa, di audacia guerriera e di abilità politica.
Iniziò con il domare le ribellioni interne, scoppiate numerosissime in ogni parte del vasto Impero: e, per questo, riunì attorno a sé un perfetto esercito di fedelissimi, pronto a seguirlo in ogni dove.
I governatori dell’Egitto e della Lidia, le province della Babilonia, dell’Armenia, dell’Assiria e altre ancora avevano rifiutato di sottomettersi al nuovo sovrano; Dario le affrontò, a una a una, e con la forza delle armi le domò. Babilonia gli resistette a lungo, ma quando l’assedio fu rotto, il re ordinò che 3mila dei suoi più eminenti cittadini fossero crocifissi nella pubblica via, spaventoso esempio a quanti avessero in futuro accarezzato idee di ribellione e di rivolta.
La pace, infine, tornò a regnare sovrana sull’Impero persiano; e, allora, Dario, deposte le armi, pensò a riorganizzare politicamente e amministrativamente la sua terra, ben sapendo che il disordine interno non gli avrebbe mai permesso nuove conquiste esterne.
L’Impero era, fino ad allora, governato con un sistema feudale, mentre le singole regioni sottomesse avevano mantenuto una certa indipendenza in seno allo stesso Impero. Dario abolì il feudalesimo, accentrò il governo nelle mani sue e di un esiguo gruppo di nobili suoi fedeli; per meglio governare le singole regioni, suddivise tutto il territorio in Satrapie, governata ciascuna da un principe vassallo, ma sempre nel nome e per ordine del Re dei Re. Per evitare che i Satrapi potessero sfuggire al suo controllo, Dario inviò, in ogni regione, un generale al comando di un gruppo di soldati scelti; e il generale dipendeva, unicamente, dal sovrano ed era indipendente dal governatore. Ma temendo che tutto ciò non bastasse, decise di nominare propri segretari personali i quali, dipendendo unicamente dal Re dei Re, vivevano nelle varie regioni con il compito di controllare l’operato sia dei principi, sia dei generali e di riferirne, personalmente, al sovrano. Infine, tutto l’Impero era perlustrato, costantemente, da osservatori incaricati di indagare in materia fiscale, finanziaria, politica, morale, su ogni privato cittadino e sui rappresentanti della legge: a tali personaggi il popolo diede il significativo nome di “Occhi e Orecchi del Re”, occhi e orecchi sempre bene aperti, cui mai nulla sfuggiva di quanto avveniva attorno.
I principi-governatori ricevevano altissimi compensi che consentivano loro un regime di vita elevatissimo; ed egualmente ben pagati erano i funzionari governativi. Era lo stesso popolo persiano che provvedeva ai loro bisogni, così come provvedeva al necessario e al superfluo del Re dei Re. Le varie Satrapie versavano ogni anno, nelle casse reali, somme proporzionate alle proprie risorse, ma che ammontavano a complessivi 14.500 talenti: una somma paragonabile, oggi, a 94.250.000,00 euro. Inoltre i vari principi dovevano contribuire alle necessità reali con merci e materie prime di vario genere: l’Armenia forniva 30mila puledri l’anno, la Media 100mila pecore, l’Egitto il grano necessario per sfamare 120mila uomini.
In cambio di questi oneri piuttosto rilevanti, i cittadini delle singole regioni potevano conservare intatte le proprie leggi private, i propri costumi, la propria religione, la propria moneta, spesso, anche la propria dinastia di Re; l’ordine interno, la pace, la libertà davano ai sudditi del Re dei Re la sensazione di un presente felice e di un futuro pieno di promesse per i propri figli.
Ma il dio della guerra costrinse, ben presto, il grande Dario a riprendere le armi. L’Iran non poteva, ormai, più estendersi a nord, dove le altissime montagne del Caucaso, formavano una barriera invalicabile dai soldati di allora, né a sud, dove l’Impero persiano aveva raggiunto i grandi deserti africani da un lato e l’Oceano Indiano dall’altro. Dario si volse, allora, a occidente dove le città greche, in Asia Minore, costituivano un continuo pericolo anche per il potente sovrano orientale.
L’esercito persiano non possedeva una flotta abbastanza forte per attaccare la Grecia dal mare, ragione per cui il Re dispose l’attacco via terra e puntò con un fortissimo esercito verso l’Ellesponto, ma ebbe la marcia ostacolata da uno dei secolari nemici dell’Iran: il popolo degli sciti, selvaggi e abilissimi guerrieri che, con improvvise scorrerie, rendevano difficile la vita ai conquistatori.
Le truppe persiane, divise in vari gruppi, oltrepassarono il Bosforo e puntarono decise verso il Danubio, penetrando fin dentro i confini attuali della Russia. Gli sciti, affrontati ripetutamente in duri scontri, non trovarono di meglio che fuggire e cercarono scampo nelle sterminate pianure russe, oltre il fiume Don. La via, ormai, era sgombra e l’esercito persiano fece ritorno ai confini dell’Iran, ma il Re, nel frattempo, aveva mutato i suoi piani e, anziché volgersi a occidente, puntò deciso verso est e andò alla conquista dell’India e delle sue favolose ricchezze.
Decine e decine di migliaia di uomini marciavano, agli ordini del Re dei Re, attraverso sterminati territori, portando con loro diverse abitudini, diverse culture, diversi sistemi di guerra, diversi armamenti. L’esercito persiano poggiava su un perno costituito da 2mila fanti e 2mila cavalieri, tutti nobili, tutti devotissimi al sovrano, cui si affiancavano le schiere dei cosiddetti “Immortali”: 10mila soldati di provate capacità e di assoluta fedeltà, che facevano della guerra lo scopo della loro vita. Sempre primi in battaglia, sempre pronti allo sbaraglio, sapevano che quando uno di loro cadeva, immediatamente, veniva sostituito da un giovane delle nuove leve, perché il numero di 10mila non doveva mai essere mutato. Accanto a questo fior fiore di combattenti, si schieravano centinaia di migliaia di soldati provenienti dalle varie regioni dello sterminato Impero: chi armato di daghe, chi di frecce, chi di giavellotto, chi a piedi, chi a cavallo, chi completamente difeso da armature di metallo o in cuoio, chi con il corpo seminudo. E accanto agli uomini carri velocissimi e leggeri da combattimento, pesanti vetture per il trasporto di viveri, schiere di elefanti che con la loro poderosa mole incutevano terrore a quanti non li avevano mai visti; e migliaia di servi, di sguatteri che provvedevano alle necessità giornaliere dei soldati, che, talvolta, si facevano seguire, perfino, dalle proprie famiglie, vecchi e bambini compresi.
Una simile massa in spostamento causava problemi gravissimi sia per il sostentamento, sia per l’organizzazione militare e amministrativa. Problemi tutti che Dario seppe, sempre, brillantemente, risolvere, ma, che dopo di lui, dovevano essere una delle cause determinanti del troppo rapido disgregarsi dell’Impero persiano.
L’India venne conquistata e, in parte, sottomessa, in parte sottoposta alla sola influenza commerciale dell’Iran; Dario dovette fare ritorno in occidente, richiamato dalle voci di una rivolta in Egitto. Accorse nella terra dei Faraoni, punì il disonesto governatore che aveva creato tanto malcontento tra quelle popolazioni, si dedicò per mesi, personalmente, al riordino amministrativo e morale di quella vasta terra di antichissima civiltà. Fece costruire strade, riattivò le immense miniere d’oro, intensificò i commerci. Fece erigere templi nuovi alle divinità locali, insegnò nuovi metodi di irrigazione; il grandioso tempio di Ammone, nella valle di Tebe, si erge, ancora oggi, a ricordare agli uomini la grandezza e la munificenza del Re dei Re.
Narra Erodoto, nelle sue meravigliose Storie, che Dario il Grande organizzò la celebre spedizione persiana contro la Grecia, spinto dal capriccio della sua bella moglie, Atossa: la preferita del momento. Ma ragioni ben più gravi e più serie dovettero spingere l’illuminato sovrano in una impresa tanto pericolosa e difficile. Le Città- Stato della Grecia dovettero apparire al Re un pericolo latente, ma non per questo meno grave, al dominio persiano nell’Asia occidentale.
Quando i cittadini greci della Ionia, soggetti al trono di Persia, si ribellarono cercando la libertà, Atene e Sparta, messa da parte la tradizionale rivalità, corsero in aiuto dei fratelli in pericolo; e Dario, sia pure con riluttanza, si preparò alla nuova guerra.
Correva, già, l’anno 490 quando una flotta persiana, comandata da Dati e Artaferne, il figlio del grande Satrapo omonimo, penetrò nell’Egeo per punire le due grandi città greche che avevano osato, apertamente, aiutare i nemici dell’Impero persiano. A bordo erano circa 20mila uomini perfettamente armati e addestrati.
La prima città a cadere sotto il dominio dell’esercito di Dario fu Nasso, che venne, aspramente, punita per la resistenza opposta ai soldati persiani nelle campagne militari dell’anno 500; quindi, fu la volta dell’Eretria, che fu ridotta in cenere, mentre i cittadini sopravvissuti all’immane rovina vennero trasportati a Susa. Ormai, Atene era esposta, direttamente, all’attacco persiano, priva quasi totalmente di alleati, se si esclude la piccola città di Platea. Tebe, per lotte interne, non aveva voluto scendere in campo con le città in pericolo e i soldati spartani, accampati a pochi chilometri dalla pianura di Maratona, luogo del probabile scontro, non potevano impugnare le armi prima del prossimo plenilunio, a causa di certe prescrizioni religiose, che non intendevano, a nessun costo, ignorare.
L’esercito persiano, compatto e possente, prese posizione favorevole e, in poche ore, fu pronto alla battaglia.
Contro i 20mila uomini del Re dei Re scesero in campo circa 10mila greci, spinti da un coraggio leonino e dalla forza della disperazione: sapevano che il destino non solo di Atene, ma della Grecia tutta era nelle loro mani. Li guidava Milziade, il quale si rese conto che l’unico modo per tentare di aver ragione di un esercito numericamente più forte, era sorprenderlo con un attacco immediato e deciso.
E così fu fatto.
Mentre gli spartani esitavano ancora, trattenuti dai loro scrupoli religiosi, 10mila opliti di Atene e di Platea si lanciarono a passo di corsa e con grandi grida verso il nemico. La forza d’urto fu tremenda, ma la linea mediana greca si schiantò contro il possente centro persiano; la battaglia parve per un attimo in mano dei soldati del Re dei Re, quando le ali greche, con uno sforzo immane, riuscirono ad avere ragione dei loro diretti avversari e con azione rapidissima e poderosa effettuarono una conversione verso l’interno, stringendo il nemico in una morsa di ferro e di fuoco.
Colti alla sprovvista dall’impreveduta situazione, i guerrieri orientali ripiegarono rapidamente verso l’accampamento: di là con una corsa velocissima raggiunsero il mare.
Ma 6.400 uomini, la sera, non poterono rispondere alle chiamate dei loro compagni superstiti: giacevano, per sempre, immoti, sull’insanguinato campo di Maratona, accanto ai corpi di 192 greci: ancora un difensore della libertà greca, Filippide, doveva trovare la morte, poche ore dopo, stremato dalla fatica della corsa che lo aveva condotto in patria ad annunciare ai suoi concittadini la strepitosa notizia della vittoria.
Il grande Dario accolse la notizia senza dimostrare alcuna emozione; e, da quel momento, si mise, ancora una volta, di impegno, a preparare un’altra spedizione contro l’unico popolo che avesse osato sfidarlo e resistere alla sua potenza. Lavorò, seriamente, per tre anni, senza mai darsi riposo; quando l’esercito fu pronto, gli spiriti temprati, pronti alla lotta, la notizia di una nuova, violenta sommossa in Egitto indusse Dario ad accantonare, almeno per il momento, il grande sogno e a prepararsi a domare i suoi sudditi ribelli.
Ma la morte lo colse improvvisa, nel 486 a .C., non permettendogli di portare a compimento l’impresa, più a lungo, sognata nella sua laboriosa vita.
Daniela Zini
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