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domenica 24 ottobre 2010

GUERRE SENZA FINE

7 ottobre 2001 – 7 ottobre 2010


“Le guerre iniziano perché i diplomatici raccontano bugie ai giornalisti e poi credono a quello che leggono.”
Karl Kraus




1.     Bradley Manning: un caso di coscienza in tempo di guerra
“Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia.”
Otto von Bismarck

Chi si ricorda dei Pentagon Papers?
Quaranta anni fa gettarono un forte discredito sulle operazioni in Vietnam e sulla politica estera di Richard Nixon, proprio un anno prima dello scandalo Watergate.
Il caso ebbe inizio nel 1971, quando Daniel Ellsberg, un ex-analista della Rand Corporation, rimise clandestinamente alla redazione del New York Times e, poi, a quella del Washington Post, un dossier di 7 mila pagine, appartenente al Pentagono, il dipartimento americano della difesa, sull’implicazione politica e militare degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, dal 1945 al 1967. Pubblicandoli, il New York Times rivelò che la Casa Bianca aveva deliberatamente esteso la guerra al Laos e aveva condotto azioni militari, in tutta illegalità, prima dell’impegno ufficiale del paese nel conflitto. L'amministrazione Nixon tentò di bloccare la pubblicazione dei documenti, che riguardavano in gran parte la condotta delle amministrazioni democratiche precedenti (Harry S. Truman, Dwight David Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Baines Johnson). La Casa Bianca non poteva permettere che segreti di Stato fossero diffusi dai giornali. Ebbe la meglio il New York Times,  con una sentenza della Corte Suprema, considerata storica per la libertà di espressione. Ellsberg, che aveva rischiato una condanna a 115 anni di prigione, venne prosciolto da ogni accusa.
Il 25 luglio scorso, un sito internet diffondeva, sotto il nome di Afghan War Diary, più di 92 mila documenti confidenziali che mostravano, sotto una luce cruda, le vittime civili del conflitto afghano, la terribile pressione subita dalle truppe alleate, le difficoltà quotidiane delle missioni, spesso mal precisate, i legami supposti tra i servizi segreti pakistani e i talebani, nonché alcuni “abusi” commessi da alcune società di sicurezza private, operanti nel paese. Particolarmente impressionante, il numero dei “fuochi amici”, questi  errori di tiro che hanno colpito principalmente civili, soldati della coalizione e uomini dell’ENA, l’esercito nazionale afghano e gravano pesantemente, molto pesantemente, sull’opinione pubblica americana. Circostanza aggravante, queste elencazioni imbarazzanti sono anche accompagnate da documenti che mostrano le violenze intertribali, che insanguinano il paese e rendono la situazione ogni giorno sempre più inestricabile. Tra le righe, lo smarrimento delle truppe impegnate è quasi palpabile.
Il fondatore del sito internet WikiLeaks (1), Julian Assange (2), non è uno sconosciuto. Si è già distinto, diffondendo, il 5 aprile scorso, un video, Collateral Murder, che mostra l’equipaggio americano di un elicottero Apache aprire il fuoco, il 12 luglio 2007, su un gruppo di civili, tra i quali il fotografo dell’agenzia di stampa Reuters (3) Namir Noor-Eldeen, ventidue anni, e il suo autista Saeed Chmagh, quaranta anni. Il video dà i brividi, non fosse che per l’imbecillità di quei soldati che, dall’alto dell’elicottero, prendono delle cineprese per mitragliatrici AK-47 o lanciagranate RPG, e l’esultanza oscena che provano nello sparare, letteralmente addosso, su tutto ciò che si muove. Secondo WikiLeaks, il video proveniva da “alcune fonti militari”, allora non precisate.
Accusato di aver minacciato la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il 26 luglio, Julian Assange aveva difeso in una conferenza stampa, a Londra, la sua decisione di pubblicare i documenti confidenziali sulla guerra in Afghanistan, che rivelavano possibili crimini di guerra, commessi dalle forze della coalizione internazionale.

“Siamo abituati al fatto che quelli di cui denunciamo gli abusi cerchino di screditarci… Non vediamo niente altro nella risposta della Casa Bianca.”

E in un’intervista al Guardian, aveva aggiunto :

“È il ruolo del giornalismo di prendersela con i potenti e, quando questi sono sfidati, vi sono sempre delle reazioni.”

L’esercito americano non è il solo a essere messo in causa.
È stato, a esempio, messo in luce e imputato alle truppe francesi, un incidente sopravvenuto, nel 2008, in Afghanistan. Lo stato-maggiore francese ha contestato la versione di WikiLeaks, asserendo che quattro civili, tre adulti e un bambino, erano stati effettivamente feriti, e non otto come affermava il sito internet.

“Quel giorno”,

aveva precisato un portavoce dell’esercito francese,

“un minibus si è inserito tra due blindati delle forze francesi in un convoglio, non tenendo conto degli avvertimenti di un soldato. Le schegge dei proiettili di due spari intimidatori al suolo hanno, sfortunatamente ferito, in modo lieve, quattro civili, tra i quali un bambino.”

Anche la madre di un soldato canadese, ucciso in combattimento, aveva contestato la versione del sito che sosteneva che suo figlio fosse stato vittima non degli insorti, ma di un “fuoco amico”.
Al New York Times, al Guardian e allo Spiegel era stato dato accesso al materiale diverse settimane prima, a condizione che i tre giornali non ne parlassero prima del 25 luglio, quando WikiLeaks li avrebbe messi on-line.
La reazione della Casa Bianca non si era fatta attendere.
Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, l’ex-generale James Jones, che l’8 ottobre scorso si è dimesso dall’incarico, aveva immediatamente commentato la pubblicazione dell’Afghan War Diary, come lo aveva definito il New York Times:

“Gli Stati Uniti condannano fermamente la rivelazione di informazioni riservate da parte di individui e organizzazioni che possono mettere in pericolo le vite degli americani e dei loro alleati, e minacciano la sicurezza nazionale. WikiLeaks non ha fatto nessun passo per contattarci rispetto a questi documenti: il governo degli Stati Uniti è venuto a sapere della loro pubblicazione dalla stampa. Queste scelte irresponsabili non influiranno sul nostro impegno ad approfondire i legami con l’Afghanistan e il Pakistan, a battere i nostri nemici comuni e a sostenere le aspirazioni dei popoli afghano e pakistano.”

Barack Obama aveva ricordato che quei documenti riguardavano il periodo 2004-2009, e dal dicembre del 2009, era stata adottata “una nuova strategia in Afghanistan”.
Le esazioni e i tradimenti non erano, dunque, più di attualità!
Il Pentagono aveva aperto un’inchiesta penale sulla fonte dello scoop di WikiLeaks.
Lo stesso 26 luglio, il colonnello Dave Lapan, portavoce del Pentagono aveva affermato:

“L’inchiesta in corso sulla divulgazione di documenti a WikiLeaks… non si concentra su un individuo in particolare, ha un più ampio spettro.”

e aveva aggiunto:

Il Pentagono sta valutando i potenziali pericoli causati da queste fughe in materia di sicurezza.”

Il martedì 6 luglio, il soldato Bradley Manning, uno specialista di intelligence della decima divisione di montagna, era stato accusato di violazione del regolamento militare “per aver trasferito dati confidenziali sul proprio computer”. Secondo il portavoce del Pentagono Geoff Morrell, il soldato Manning era “molto sicuramente un personaggio chiave” nel caso della fuga dei documenti pubblicati, la domenica 25 luglio, da Wikileaks. Il soldato Bradley Manning era stato arrestato in Iraq, il 29 maggio, e, poi, trasferito, per più di un mese, nel centro di detenzione militare di Camp Arifjan, in Kuwait, a seguito della denuncia di un ex-hacker Adrian Lamo (4), con il quale si sarebbe vantato, conversando in chat, di essere stato lui ad aver consegnato a WikiLeaks il famoso video del 12 luglio 2007. Nonostante Adrian Lamo avesse, in passato, contribuito economicamente al progetto WikiLeaks, aveva avuto paura e aveva trasmesso le conversazioni in chat all’FBI. Quello che fa sicuramente tremare l’America è che Manning aveva, anche, dichiarato a Lamo di aver consegnato un secondo video a WikiLeaks, un video (5) che mostra un raid aereo americano, che ha ucciso, lo scorso anno, 140 civili.
Non è, forse, a caso che Collateral Murder inizi con una citazione di George Orwell:

“Il linguaggio politico è concepito in modo che le menzogne suonino sincere e l'omicidio rispettabile, e per dare una parvenza di solidità all'aria.”

Non è, forse, neppure a caso che Time Magazine abbia detto di WikiLeaks che il sito “potrebbe divenire uno strumento giornalistico importante come Freedom of Information Act (la legge americana fondata sul principio della libertà di informazione che obbliga le agenzie federali a trasmettere i propri documenti a chiunque ne faccia richiesta, quale  ne sia la nazionalità)”.
Attendendo questo secondo video, Julian Assange, che continua, a trentanove anni, a spostarsi spesso, come in gioventù, tiene un profilo basso.
Non si sa mai…
Il primo agosto scorso, come preannunciato in primavera,  il contingente olandese lasciava l’Afghanistan e rientrava in patria, dopo quattro anni, durante i quali era stato impegnato, con circa 2 mila unità, nella provincia dell’Uruzgan – Kamp Holland la loro base principale –. In totale, nelle operazioni militari, sono rimasti uccisi 24 soldati olandesi tra i quali il figlio del capo di stato-maggiore dell’esercito nazionale, il generale Peter van Uhm.
La richiesta di rinforzi rivolta, all’inizio dell’anno, agli Stati membri della coalizione aveva provocato un acceso dibattito nei Paesi Bassi e portato alla caduta della coalizione governativa, in febbraio. La richiesta di prolungamento della missione, sostenuta dal centrodestra dei cristiano-democratici di Jan Peter Balkenende, aveva, infatti, trovato la ferma opposizione del ministro delle Finanze Wouter Bos e del suo partito laburista.
Il ritiro olandese ha, subito, avuto forti implicazioni sulla compagine militare dell'Alleanza Atlantica anche perché in Afghanistan è in atto un’operazione della Nato e non di una coalition of the willing, come in Iraq.
Il Canada ha deciso di ritirare le sue truppe, schierate a Kandahar, nel 2011, mentre la Polonia e altri paesi hanno annunciato il possibile ritiro dei militari dall'Afghanistan tra il 2012 e il 2013.
L’ex-combattente dell’Iraq, Evan Knappenberger (6) ha pubblicato, il 30 luglio, una lettera aperta sul sito Common Dreams.
Scrive:

“Bradley Manning è il mio nuovo eroe.”,

e prosegue:

“Il mio più grande rimpianto per il mio tempo in Iraq è di non avere divulgato le informazioni cui avevo accesso.”

Bradley Manning è nato ventidue anni fa, a Crescent, una piccola città dell’Oklahoma dove, raccontava agli amici “vi sono più banchi di chiesa che persone”.
Nel 2001, dopo il divorzio, la madre, gallese, lo aveva condotto con sé nel Galles, dove i suoi compagni di classe si beffavano di lui perché lo sospettavano essere attratto dai ragazzi.

“È, forse, la peggiore esperienza che si possa fare. Sentirsi diverso dovunque come mi sentivo io e come si sentiva Bradley, è come tornare al tempo del Medioevo.”

ha riferito un compagno omosessuale dei suoi anni di liceo. 
La madre lo aveva rimandato in America, ma il padre, un militare di carriera, lo aveva buttato fuori di casa, quando aveva scoperto la sua omosessualità. Ai suoi amici, più tardi, aveva confessato di aver dormito per qualche tempo nell’auto.
Nel 2007, Bradley si era arruolato nell’esercito, come gli aveva suggerito un amico omosessuale e soldato, sperando di trovare la sua strada e potersi pagare gli studi universitari. Bradley non nascondeva la sua omosessualità come gli imponeva la legge Don’t ask don’t tell. Ai suoi amici fuori della caserma, raccontava delle allusioni dei suoi commilitoni. I superiori “mi ignorano”, si era lamentato in una e-mail, “salvo per domandare: “Portami del caffé, poi spazza il pavimento.”.
Prima della sua partenza per l’Iraq, si era innamorato di uno studente di Cambridge (Massachusetts), Tyler Watkins. E stando a quanto scrive, nel mese di maggio, su Facebook, Bradley aveva subito un’ennesima delusione:

“Bradley Manning ha ora la triste sensazione di non avere più niente.”

Bradley, che ha mostrato il volto brutale delle guerre in Iraq e in Afghanistan, è rinchiuso dal 29 luglio, nella base militare di Quantico, in Virginia, in attesa del processo davanti a una corte marziale  e rischia cinquantadue anni di carcere.
È un traditore o un eroe?
Semplice, ribelle, solitario, a disagio nell’esercito americano dove la sua omosessualità è considerata tabù, Bradley voleva aprire gli occhi al popolo americano, svelare le ingiustizie e le atrocità di cui era stato testimone.
L’ultimo atto di un idealista, a disagio nella sua pelle.
Il suo ritratto di ragazzo sorridente ha fatto il giro del mondo.
Il suo caso ha suscitato ampi dibattiti.
Il ragazzo ha tradito?

“Sì.”

sostiene il governo di Washington.
Ma vi è un’altra America, un’America che sostiene che Bradley abbia agito secondo giustizia.
In America, quelli che considerano Bradley un eroe sono, indubbiamente, minoritari, ma rischiano di ritrovarsi più numerosi se l’amministrazione Obama non darà risposte concrete nei prossimi mesi.
Come ridurre le perdite civili che si rivelano ben superiori a quello che ammettono i comunicati ufficiali?
Quale strategia di uscita dall’Afghanistan se una vittoria militare è impossibile e nessuna prospettiva politica è in vista?
I mesi di giugno e di luglio sono stati i più sanguinosi per le forze americane in Afghanistan dal 2001, con 166 soldati uccisi.
Nel 2009, le perdite di soldati americani per suicidio sono state più di due volte superiori a quelle conosciute in Iraq, 334 contro 149.
Un anno fa, alcuni medici militari avevano constatato che, ogni mese, circa 1.000 veterani tentavano il suicidio. Più di 100 veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan hanno avuto crisi di follia e comportamenti violenti fino all’omicidio. Un terzo delle loro vittime erano loro compagne, loro mogli o altri membri della famiglia.
Obama è ormai costretto a sorvegliare il fronte interno.
Abbiamo appreso dal Vietnam, che è là anche e, forse, soprattutto, che si vincono o si perdono le guerre esterne.
Mostrare crimini di guerra è un crimine?
Io credo che non dovrebbe essere giudicato, perché ha fatto il giusto.
La gente negli Stati Uniti e nel mondo intero non conosce la verità sulla guerra in Afghanistan.
Afghan War Diary mostra una immagine diversa della guerra.
E in una democrazia, è importante conoscere la verità per prendere decisioni giuste.



2.   Nove anni dopo
“Nessuno può a lungo avere una faccia per sé stesso e un'altra per la folla, senza rischiare di non sapere più quale sia quella vera.”
Marguerite Yourcenar                                                                       

Per molti paesi poveri, le risorse naturali sono più di ogni altra cosa una maledizione!
Come uscire dal pantano afghano?
Agli inizi di agosto, di fronte a una opinione pubblica americana sulla difensiva, il presidente Barack Obama aveva finito per uscire dal riserbo. Nel corso di una riunione davanti a veterani, aveva annunciato una nuova strategia e aveva riconosciuto che l’esercito americano “si trova confrontato con enormi difficoltà”.
Di fatto, la prima potenza militare mondiale non si batte solo sul terreno in Afghanistan, deve anche far fronte anche a una delle più disastrose fughe di documenti segreti della sua storia.
Nove anni dopo, gli attentati drammatici dell’11 settembre 2001 continuano a fare rovine in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan, per non citare che i luoghi dove le conseguenze sono più disastrose.
Nove anni dopo, il principale mandante di questi attentati, Osama ben Laden, continua a sfidare i suoi battitori dalle montagne del Waziristan, a dispetto dei 50 milioni di dollari, che gli Stati Uniti hanno promesso a chiunque lo consegni vivo o morto.
Dopo l’11 settembre, il segretario di stato Colin Powell aveva promesso agli americani che il dipartimento di stato avrebbe divulgato un White Paper, con le prove dettagliate della colpevolezza di ben Laden.
Il governo talebano aveva richiesto questo documento per estradare ben Laden.
Questo White Paper non è mai stato diffuso e gli Stati Uniti hanno ignorato le procedure legali in vigore e hanno invaso l’Afghanistan.
Noi attendiamo ancora queste prove.    
Noi non conosciamo sempre se Osama ben Laden stia veramente dietro questi attacchi. Numerosi dati di fatto designano lui e al-Qaida, ma le prove intangibili mancano sempre all’appello. L’unica cosa certa è che gli attacchi sono stati pianificati in Germania, non in Afghanistan. Dei diciannove attentatori, quindici erano sauditi, due erano degli Emirati Arabi Uniti, uno era egiziano e un altro libanese.
Un rapporto esplosivo, pubblicato a Londra, agli inizi di settembre, dall’Istituto Internazionale di Studi Strategici dimostrerebbe che la pericolosità di al-Qaida è stata ampiamente esagerata. Il numero dei membri di al-Qaida non ha mai superato le trecento unità.
Oggi, secondo il capo della CIA, Leon Edward Panetta, non vi sono più di cinquanta uomini di al-Qaida in Afghanistan.
E, tuttavia, il presidente Obama ha portato il numero delle unità in Afghanistan a 150 mila, a causa di quella che chiama la minaccia di al-Qaida.
Nel 1999, tra il 4 e il 16 del mese di settembre, circa trecento cittadini russi morivano in una spaventosa serie di attentati esplosivi che, avevano distrutto due condomini nelle città di Volgodonsk e di Buinaksk. Putin aveva accusato, senza alcuna prova, il terrorismo islamico ceceno. Il panico aveva, allora, invaso la Russia e favorito l’ascesa al potere di Vladimir Putin.
Il primo ottobre del 1999, Putin inviava l’esercito in Cecenia e, nel marzo del 2000, veniva trionfalmente eletto presidente della Repubblica Federale Russa. Ma mentre tutta la Russia applaudiva Putin, alcuni agenti dell’FSB venivano sorpresi mentre tentavano di mettere esplosivi in uno stabile di Ryazan, una città operaia della Russia centrale. Pochi giorni dopo l’ultimo attentato di settembre, il 22 settembre 1999, alcuni residenti avevano notato, a tarda sera, due uomini scaricare dei sacchi da una macchina scura senza targa e portarli nella cantina del palazzo. Avevano chiamato la polizia che era, subito, intervenuta e aveva trovato dei sacchi pieni di hexogen. Poche ore dopo, la polizia aveva intercettato una loro telefonata, fatta da una cabina verso un numero di Mosca e i due erano stati arrestati. Ma il numero di Mosca corrispondeva a un interno dell’FSB. I due fermati, infatti, si erano, infatti, dichiarati agenti dei servizi. Furono immediatamente rilasciati.  
La storia fu soffocata.
Nel 2002, Alexander Litvinenko, ex-alto dirigente dell’FSB aveva, apertamente, accusato Putin di aver orchestrato gli attentati del 1999 per giustificare la seconda guerra cecena e arrivare al Cremlino. Litvinenko aveva denunciato tutto in un libro che, appena pubblicato in Russia, nel dicembre del 2003, era stato sequestrato dall’FSB. Fu assassinato a Londra, avvelenato con polonio radioattivo.
Vi sono troppe domande senza risposta, troppi sospetti e poi, quel vecchio adagio latino che dice:

“Cui prodest?”

“A chi giova?”
  
Il 28 febbraio 1933, uno squilibrato olandese, Marinus Van der Lubbe, che, in passato aveva avuto contatti con il Partito comunista, appiccò un incendio al parlamento tedesco, il Reichstag. Mentre le rovine del Reichstag fumavano ancora, Adolf Hitler dichiarò la “guerra al terrorismo”. Fu emanato un decreto “per la Protezione del Popolo e dello Stato”, che sospendeva tutte le protezioni legali in materia di libertà di parola, di riunione, di proprietà e di libertà individuali. L'incendio del Reichstag permise al governo di fermare senza neppure una procedura legale le persone sospettate di terrorismo e di dare praticamente pieni poteri alla polizia.
Nove anni dopo, non sappiamo ancora che cosa sia veramente accaduto l’11 settembre.
La versione ufficiale non è credibile.
Nove anni dopo, quei tragici eventi sono sempre usati dagli estremisti negli Stati Uniti.
L’ultimo episodio è stato l’azione annunciata dal reverendo Terry Jones di bruciare copie del Corano, l’11 settembre, in piena polemica con la costruzione di una moschea a Ground Zero. L’iniziativa non è passata inosservata e neppure la scelta di una data simbolica per passare all’azione: l’11 settembre, nono anniversario degli attentati, che, questo anno, coincideva con la fine del ramadan. Sul sito internet della sua chiesa in Florida, il pastore battista, il cui gruppo riunisce una cinquantina di fedeli, ne spiegava le ragioni:

“L’islam è un pericolo. Intendiamo, dunque, mettere in guardia contro l’insegnamento e l’ideologia dell’islam, che dobbiamo esecrare perché è esecrabile.”

Terry Jones, che aveva invitato altri centri religiosi a seguire il suo esempio, per ricordare le vittime degli attacchi e combattere “il demone dell’islam”, e a decretare l’11 settembre “Giornata Mondiale Io brucio il Corano”, aveva, infine, abbandonato il piano. Ma la semplice minaccia aveva provocato sommosse e manifestazioni in tutto il mondo musulmano fino in Indonesia, dove l’Unione delle Chiese Cristiane Protestanti aveva inviato una lettera al presidente Barack Obama per esortarlo a intervenire.

“Bruciare il Corano ci riporterebbe nel Medioevo e costituirebbe un atto contro la civiltà”,

era stato il commento del suo presidente, Andreas Yewangoe, preoccupato delle conseguenze che avrebbero potuto verificarsi in Indonesia, dove più dell’85% della popolazione è di fede musulmana. Un centinaio di musulmani radicali avevano, già, manifestato, alla fine di agosto, davanti all’ambasciata degli Stati Uniti, a Giacarta, minacciando di scatenare una guerra santa nel caso in cui fosse stato messo in atto il progetto. 
Il comandante delle forze internazionali in Afghanistan, il generale David Petraeus, è stato uno dei primi a stigmatizzare, in una intervista alla ABC, la minaccia molto mediatizzata del piccolo gruppo integralista cristiano.

“Questo potrebbe mettere in pericolo le truppe e lo sforzo globale.”

aveva dichiarato in un’intervista apparsa sul Wall Street Journal, lo scorso 6 settembre.

“É proprio il genere di azioni che i talebani utilizzano e questo potrebbe causare problemi significativi. Non solo qui, ma dappertutto nel mondo dove siamo presenti al fianco della comunità islamica.”

aveva aggiunto.
Nove anni fa, dunque, era perpetrata una serie di attentati contro i simboli economici e militari della potenza americana a New York e a Washington. Per il loro carattere spettacolare e inedito, per il livello terrificante di violenza, per il numero di morti (più di 3 mila innocenti vi hanno perso la vita), questi attentati hanno provocato un terremoto politico che non poteva non guastare l’asse strategico intorno al quale ruotava la potenza americana. 
Il profondo sconvolgimento della linea bellica, seguita dagli Stati Uniti, è visibile dall’indomani, il 12 settembre.
Il grave deficit in termini di esperienza, di intelligenza e di fiuto politico che caratterizzava l’allora centro decisionale a Washington avrebbe fatto in modo che un gruppo di neoconservatori, ossessionati dall’Iraq e determinati a distruggerlo, potesse sfruttare gli eventi drammatici dell’11 settembre per ottenere la guerra contro l’Iraq.
Dopo aver ridotto a brandelli il regime dei talebani, l’esercito americano avrebbe avuto la capacità di sradicare al-Qaida dall’Afghanistan e di impedirgli di fuggire verso le montagne del Waziristan pakistano.
La decisione di abbandonare l’Afghanistan in uno stato di anarchia e di occuparsi del regime baatista dell’Iraq si sarebbe rivelata fatale. È già considerata da storici americani come la decisione più disastrosa nella storia della politica straniera americana.
Lasciando nel rilievo scosceso della frontiera afghano-pakistana i veri responsabili delle azioni terroristiche e distruggendo il regime baatista iracheno, dittatoriale certo, ma una barriera insormontabile al terrorismo, George Bush e il suo circolo di neoconservatori aprivano le porte dell’inferno non solo per l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan e lo Yemen, ma anche per il proprio paese.
Per una decisione insensata, gli Stati Uniti hanno alimentato per anni un genere di terrorismo nichilista e suicida sconosciuto fino ad allora e contro il quale gli eserciti più potenti del mondo non possono molto.
Partiti, nel 2001, con grande fanfara per “abbattere il terrorismo” nel quadro di una guerra globale, Bush e i suoi amici l’hanno, al contrario, nutrito e mantenuto con una serie di decisioni erronee.
È un fatto indiscutibile che le disgrazie che si sono abbattute sugli iracheni, gli afghani, i pakistani e gli yemeniti hanno un legame diretto con gli attentati dell’11 settembre 2001.
Lo scorso 31 agosto, in occasione della partenza delle truppe di combattimento dall’Iraq, Barack Obama ha affermato che “nessuno dubita dell’amore del presidente Bush per il proprio paese e del suo impegno per la sua sicurezza”, aggiungendo che la guerra in Iraq costituisce “un capitolo notevole nella storia dell’impegno dell’America verso la libertà”.
Quanto all’“impegno dell’America verso la libertà”, la schiacciante maggioranza degli iracheni sarebbe stata ben felice di non beneficiarne. Perché, a rischio di indignare qualche sensibile anima occidentale, la dittatura di Saddam Hussein era di gran lunga preferibile all’anarchia e al terrorismo suicida che insanguinano l’Iraq dal 2003 e che alcuni americani si ostinano sempre a chiamare libertà.



3.   Afghanistan: una guerra infinita
“Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità.”
Friedrich Nietzsche

Il 7 ottobre scorso, la guerra scatenata da George W. Bush contro il regime dei talebani in Afghanistan, è entrata nel suo decimo anno, e né Washington, né la NATO hanno la minima idea di concludere questo conflitto insensato. Fino a oggi, le strategie occidentali, che siano a Kabul, a Washington o a Bruxelles, dove ha sede la NATO, si sono mostrate incapaci di immaginarne una che metta fine a quello che è divenuto l’incubo delle truppe alleate, confrontate con un’insurrezione talebana sempre più ardita e sempre più aggressiva.  
Gli attacchi quotidiani nel nord-ovest del Pakistan a colpi di missili lanciati dai drones americani, mirano a eliminare i quadri della nebulosa terrorista di al-Qaida, rifugiati nelle montagne che dominano la frontiera pakistano-afghana. Quasi tutti i giorni, comunicati di fonte americana riferiscono della morte di numerosi terroristi, informazioni che nessuno può verificare. Al contrario, sono perfettamente verificabili gli attacchi dei drones che hanno accresciuto, in modo drammatico, le difficoltà delle truppe alleate in Afghanistan.
I talebani pakistani, volendo vendicarsi degli attacchi americani, si sono messi ad attaccare, quotidianamente, i convogli di carburante, di cibo e di materiale destinato alle truppe della NATO, prima che superino la frontiera afghano-pakistana dal lato di Peshawar o, più a sud, dal lato di Quetta. I camion incendiati in prossimità di queste due città pakistane si contano a centinaia, ponendo un vero problema di approvvigionamento per le truppe alleate in Afghanistan, che contano più di 150 mila soldati.
Ci si può legittimamente stupire che con un numero così elevato di soldati dotati di armi, di tanks, di elicotteri e di aerei da combattimento, tra i più sofisticati, gli Stati Uniti e la NATO fatichino a venire a capo di un’insurrezione di cui la povertà, l’ignoranza e il sottoequipaggiamento sono le caratteristiche principali dei suoi combattimenti!
È vero che i talebani sono a casa loro, conoscono le montagne afghane come le loro tasche e possono in un batter d’occhio confondersi tra i civili, lasciando l’esercito più potente disorientato. È vero anche che le forze alleate, che hanno spesso il grilletto troppo facile, hanno servito molto più alla causa dei talebani che alla causa per la quale combattono. Facendo un numero elevato di vittime civili, le forze americano-atlantiche hanno involontariamente accresciuto la popolarità dei talebani, a dispetto della loro crudeltà e del loro oscurantismo, e accresciuto, allo stesso tempo, il risentimento e l’odio per le forze straniere tra la popolazione afghana, che non crede più molto alle promesse di un avvenire democratico e prospero.
Ma gli afghani hanno mai creduto in un avvenire democratico e prospero?
È permesso dubitarne quando si sa la storia dell’Afghanistan, un paese insanguinato, di volta in volta, da conflitti fratricidi e guerre contro l’occupazione straniera. Prima dell’invasione del paese da parte delle truppe sovietiche, nel dicembre del 1979, gli afghani si erano sbranati l’un l’altro, per anni, durante i quali si erano succeduti colpi di Stato e rivoluzioni di palazzo.
L’invasione sovietica aveva unificato fazioni e tribù la maggior parte delle quali erano a coltelli tirati. Nei dieci anni di guerra contro l’occupante sovietico (1979-1989), gli afghani non erano mai stati così uniti. Una unità che è andata in frantumi dalla partenza dell’ultimo soldato russo.  
Gli Stati Uniti che, durante quel decennio, erano stati eccessivamente generosi in denaro e armi con la resistenza eteroclita afghana, avevano girato le spalle all’Afghanistan subito dopo la disfatta sovietica.
Un errore strategico monumentale che stanno ancora pagando.
Per sette anni (1989-1996), gli afghani si sono uccisi l’un l’altro nell’indifferenza quasi totale, distruggendo le poche infrastrutture che erano sfuggite alla guerra contro i sovietici.
Il regime oscurantista dei talebani, che aveva finito per imporsi, nel 1996, aveva un solo punto positivo: aveva portato una stabilità che il paese non conosceva da decenni.
Il regime dei talebani si sarebbe probabilmente mantenuto fino a oggi, se il suo capo, il Mollah Omar, avesse accettato di consegnare Osama ben Laden agli americani, come avevano richiesto, all’indomani degli attacchi terroristi dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington.
Bisogna anche dire che l’Afghanistan, in particolare, e il mondo, in generale, starebbero meglio, oggi, se George W. Bush non avesse deciso, nel 2003, di lasciare l’opera incompiuta in Afghanistan per andare a tirare il diavolo per la coda in Iraq.
Questi errori strategici hanno impantanato gli Stati Uniti in quella che è divenuta la più lunga guerra straniera della storia americana. Questa guerra costa, oggi, al contribuente americano più di 100 miliardi di dollari l’anno, vale a dire sette volte il prodotto interno lordo afghano.
Abbiamo qui uno degli enigmi che i futuri storici faranno fatica a chiarire: la più grande potenza del mondo, aiutata dalla più grande alleanza militare del pianeta, ha fallito, a dispetto delle spese illimitate, a stabilizzare un paese povero e arretrato.
La cosa più terrificante è che la metastasi del cancro afghano non ha l’aria di limitarsi alle frontiere afghane. Le zone tribali del nord-ovest del Pakistan sembrano soccombere, di giorno in giorno, al modello afghano, che combina anarchia e violenza.
Quello che tutto il mondo teme, è che i cloni pakistani dei talebani afghani si spingano ad afghanizzare il Pakistan.
E se, Dio non voglia, si spingano a minacciare le strutture statali a Islamabad e a generalizzare l’anarchia e la violenza nel paese dei puri che, per di più, è detentore di un arsenale di armi nucleari, le conseguenze disastrose non si limiterebbero, sicuramente, all’Asia del sud.


Note:

(1) Il 17 aprile 2009, WikiLeaks aveva svelato l’integralità del processo del caso Marc Dutroux, il pedofilo belga, in particolare l’estratto delle sue audizioni.

(2) Fisicamente Julian Assange esce dall’ordinario con i suoi capelli bianchi, i suoi occhi freddi e la sua fronte spaziosa. Anche la storia della sua vita. Nel dicembre del 2006, crea WikiLeaks, un sito dedicato alla rivelazione di documenti confidenziali.

(3) Nel 2007, l’agenzia di stampa Reuters la Reuters aveva chiesto il video al Pentagono, secondo quanto disposto dal Freedom of Information Act, senza ottenere risposta.

(4) Adrian Lamo, ex-pirata informatico californiano, è stato condannato per essersi introdotto, nel 2004, nei sistemi informatici del New York Times, di Microsoft e di Lexis-Nexis, con l’intenzione, a suo dire, di testare le difese di queste imprese.

(5) Wikileaks ha annunciato la pubblicazione di 15 mila documenti supplementari sulla guerra in Afghanistan.

(6)
The Heroism of PFC Bradley Manning
by Evan Knappenberger
At the US Army’s Intelligence Training Center at Fort Huachuca, Arizona in 2003 and 2004, our first term paper was assigned to be on the military intelligence hero of our choice. The museum there had several dozen to choose from, though I forget now who I wrote about. Aside from the occasional joke (Isn’t M.I. an oxymoron?) I don’t think I got much out of it. So here I am: seven years, one degree, and a hell of a lot of heartache later, re-writing the paper, which I intend to submit in its entirety to the commander of that school.
I am writing today about PFC Bradley Manning, and why he is my new M.I. hero. Mr. Manning has the distinction of being the prominent “wiki-leaker” suspected of the 92,000 document upload featured in the news this last week. I look up to Mr. Manning specifically because he had the guts to do what I didn’t: expose the lie that is war.
My proudest moment as a US Army intelligence analyst came when I was in Iraq. I did a comprehensive study of civilian sectarian violence in and around Baghdad. Roughly a few weeks before the Lancet published a study that estimated more than 550,000 Iraqis had been killed between 2003 and 2006, I had corroborative, classified intelligence to the same effect. After first mapping out a GIS database of all insurgent weapons caches, findings of bodies by US forces, and reports of kidnapping, I made a series of overlays that gave each 50-meter area its own designation: weapon cache site, insurgent checkpoint, body dumping ground, or sectarian-contested area. In this way, using empirical classified data, I correctly predicted a dozen sites where armed militants were manning checkpoints and kidnapping civilians. The cache report also led, simultaneously, to the largest find of illicit explosives to that date in Iraq: nearly a thousand artillery rounds piled in a junkyard north of Baghdad.
After completing this phase of the study, I was surprised to learn that the Rand Corporation was being contracted by the Department of Defense to do a similar GIS study at the cost of several million dollars. Intrigued, I found a copy on the army’s secret computer network, the SIPRNET, and was disgusted with the obviousness of the results. The Rand’s expensive product was very simply a satellite image of the main highway in Iraq, with a few highlighted areas named “IED Hotspots”. This was nothing that a few hours on the ground wouldn’t tell any soldier in the army; but somehow, someone behind a desk in DC was making tons of money off it.
The next phase of the study was kind of an accident. I had the unfortunate experience of being assigned to guard the base for 97 nights on a metal tower behind the burning cesspools of the American occupiers’ filth. Several times, I was shot at on this guard duty, late at night. Once or twice we were mortared as well. After returning to my job as an analyst, I half-jokingly set myself the task of finding these attacks in the database, where they should have been after my reports. Surprise: they were not there. Thus began my next project: determining the actual extent of the databases’ failure.
For two weeks I worked non-stop to get a picture of the accuracy of the data that ultimately determined the narrative that our commanders told themselves and their bosses. My best estimate was that 30-50% of attacks on US forces went unreported at this time. This number was worse for the Iraqi Army, where probably 70% of attacks went unreported, unless casualties were taken.
Another part of my job was to sit in on the nightly classified SIPRNET briefings for the Multi-national Division Baghdad. Major General JD Thurmond, then in charge, would start every night about 6 pm with a hearty Salaam Alaikum, Baghdad! This briefing would often include visiting Senators and other administration officials, as well as Iraqi officials. One night as I was preparing this phase of my study, I was amused to listen for nearly an hour as two of Thurmond’s associates tried to claim credit for a perceived drop in violence in an area recently turned over to the Iraqi Army. One general argued that it was his superior training and logistics that had prevailed against the insurgents. Another claimed it was the cultural similarities of the Iraqi troops that made them adaptable to the territory. Never did it cross any of their minds that perhaps attacks were actually increasing against the Iraqi army at this point, but not making it to their screens in the nightly briefing. Thurmond settled the issue by saying something to the effect that more area should be turned over to the Iraqi unit as soon as possible.
My point in sharing these stories is twofold. First, I would hope to illustrate the principle of a lost narrative. Not only is the information fed to the American media and often inaccurate (even to the point of being propaganda), but the information that the military uses to form its own narrative of conflict is skewed. Second, that sometimes even the privates in the army know better than the generals in charge. This almost certainly is the case for PFC. Bradley Manning, now in jail accused of leaking information to the world.
Mr. Manning, at twenty-two, is something of a hero to me now. We went through the US Army’s Intelligence Analyst School at Fort Huachuca Arizona at different times, but I feel like we are on the same page. My biggest regret about my time in Iraq is that I didn’t leak the information I had access to. One can only hope that these soldiers, in better position to see the situation than anyone else, continue to leak the military’s secrets to the world.
I have to admit, I am not surprised at the reaction of the media to this latest leak. For a bunch of idiots hiding in the green zone, I don’t think there is much to their supposed analysis of the situation beyond what they get spoon-fed by the military’s press liaisons. That anyone could expect the press coverage of the wars in Iraq and Afghanistan to be anything other than utter drivel is pretty ironic. Not as ironic, though, as General Mattis telling a roomful of reporters that Wikileaks “already has blood on their hands.”
If I couldn’t tell the generals a single thing as an intelligence analyst when I was in the Army, maybe I could have told the world. I have to wonder about a country that would send me to war as a twenty-year-old virgin but is shocked and unwilling to hear of the horrible things that happen there on a regular basis. If these 92,000 or so “documents” are what the military is using to assess its own situation, it makes one wonder what doesn’t make it into their database. The questions that the media has failed to ask extend far beyond those posed by the comparatively mundane Wikileaks documents exposed this week.
Perhaps now that the administration has some of the public looking over its shoulder, it will be compelled to tell the truth about Afghanistan. So far, the only challenge to the war propaganda has been the rising number of coalition casualties. Now, it seems, the monumental task of making up reasons for these numbers is going to have to fit in with the half-truth of the Afghanistan database documents.
As far as the courageous PFC Manning goes, he is my new military intelligence hero. Thanks, Brad. And shame on you, media, for being out-reported by a twenty-two year-old kid with a laptop. But most of all, shame on you, US Army, for forcing a kid to be the one to finally expose the truth about your costly and deadly wars.
Evan Knappenberger is an Operation Iraqi Freedom (05-07) veteran living in Bellingham, Washington, and a recent graduate of Whatcom Community College.  He can be reached at evan.m.knappenberger@gmail.com.




Daniela Zini
Copyright © 17 ottobre 2010 ADZ 




IL MEDIO ORIENTE

Vediamo, in questa breve sintesi, come si è creata negli anni la situazione politica e commerciale che provoca tanti disordini.



L’espressione Medio Oriente, coniata dal quartiere generale alleato, durante la seconda guerra mondiale, per indicare un teatro di operazioni, non ha nessun valore storico e geografico ma, ormai, libri e giornali usano Medio Oriente – o addirittura, per la solita mania delle sigle, M. O. – con tanta sicura tranquillità che, anche a noi, conviene accettarlo così com’è. Ma sarà bene cercare di stabilire, con qualche approssimazione, che cosa intendiamo dire con questo discutibile termine.
Un’occhiata alla cartina geografica: Turchia, Iran, Egitto con la sua appendice Sudan, tutto quello che vi è in mezzo è Medio Oriente.
Più di 7 milioni di chilometri quadrati – poco meno della superficie degli Stati Uniti – su cui vivono poco più di 350 milioni di persone, che si addensano nelle zone dove, oggi come nel passato, l’esistenza è stata possibile e, a volte, anche ricca: vale a dire sulla costa mediterranea e lungo i tre grandi fiumi, il Nilo, il Tigri e l’Eufrate. Lungo questi fiumi si sono formate almeno due civiltà; sulla costa mediterranea sono nate due grandi religioni, mentre la terza, la musulmana, sorta nel cuore della deserta penisola arabica, ha trovato modo di espandersi e di fruttificare per tutto il bacino Mediterraneo.       



1.    Gli Stretti
Nella geografia e, quindi, nella strategia del mondo moderno, questa immensa zona è importante perché domina gli accessi all’Oriente e sta sulla strada di espansione delle grandi potenze occidentali.
L’impero zarista che si affacciava sul Mar Nero non poteva non interessarsi a questa zona giacché una sua espansione non era possibile, altrove. I suoi grandi fiumi navigabili, il Dnieper, il Dniester e il Don, sfociavano nel Mar Nero e alla Russia occorreva uno sbocco mediterraneo.
Anche la Francia, che, con Napoleone sognò le ricchezze e le glorie delle Indie, portò la guerra sul suolo egiziano.
La Germania, nel massimo fiorire del suo impero, divisò la “spinta a Oriente”, meta Baghdad.
E, nel gioco delle quattro grandi potenze, si inserirono le più piccole, non esclusa l’Italia.
La cosiddetta Convenzione degli Stretti del 1841 ammetteva scopertamente che quella via d’acqua non era affare solamente turco, ma interessava, in pratica, tutte le maggiori potenze.
La fine della prima guerra mondiale parve aver risolto in problema.
L’impero ottomano, in declino da oltre duecento anni, cessava di esistere; la Germania, sconfitta, rinunciava alla “spinta a Oriente”; dalla competizione si ritirava anche la Russia della rivoluzione, perché aveva altro da pensare e la nuova situazione non permetteva di dedicarsi ad alcuna politica di espansione imperialistica.
Restavano Francia e Inghilterra, che, infatti, si divisero la torta. L’Inghilterra consolidava l’occupazione di Cipro e assumeva il mandato in Palestina, in Giordania e in Iraq. Alla Francia andava la Siria e un contentino – dodici isolette intorno a Rodi – toccava anche all’Italia.
Oggi gli aerei e i missili superano decisamente la strategia dei Dardanelli e la situazione si semplifica.
Ma, solo in apparenza.


2.  Il Canale di Suez
L’opera, tecnicamente e politicamente, fu francese.
La Gran Bretagna non fu mai favorevole all’apertura del canale.
E, non a caso: avendo il predominio navale e commerciale della lunga via d’acqua che doppia Buona Speranza, controllando la via di terra per le Indie, perché avrebbe dovuto sollecitare l’apertura di una nuova strada, con il rischio che, nell’impresa e dopo, un’altra potenza le togliesse il controllo dei traffici?
Per il canale, dunque, si batterono i francesi.
Francese l’azione diplomatica, francesi i tecnici, francese l’animatore dell’impresa: Ferdinand de Lesseps.
Il capitale fu, in parte francese, in parte egiziano.
Egiziana la manodopera, pagata miseramente.
Il Khedivè Ismail sborsò di tasca propria, il 44% dei capitali necessari, qualcosa come 100 milioni di franchi di allora. Una somma, per i tempi, favolosa.
Furono soldi spesi male.
Cosa poteva impedire all’Egitto di diventare padrone del canale – metà dei soldi erano suoi, sua per quattro quinti la manodopera – se non la sventatezza dei governanti, i quali si fecero derubare di tutto il pacchetto azionario? 
A fare il colpo fu il primo ministro britannico Benjamin Disraeli. L’Inghilterra si avvide (1875) che la via di Suez era troppo importante e occorreva non farsi sfuggire il controllo.
Il canale fu inaugurato, nel 1869, e se, nei primi anni, il traffico fu modestissimo – una vera delusione: poco più di 400 mila tonnellate di merce – dieci anni dopo il traffico era, già, decuplicato; alla fine del secolo sfiorava il 10 milioni di tonnellate e, cinquanta anni dopo, i 70 milioni, con 11.751 navi.
Un traffico gigantesco, che imponeva tasse per 100 milioni di sterline annue: tutti soldi che, detratte le spese, non indifferenti peraltro, di gestione e di manutenzione, finivano nelle casseforti della Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez.
Universale, certo di nome, ma con la direzione a Parigi e le azioni a Londra.     


3.  Il Nazionalismo Arabo
Tra gli egiziani, liberatisi con la prima guerra mondiale dal dominio ottomano e, poi, via via sempre più indipendenti dal controllo inglese, cresceva il risentimento contro lo straniero, anche per la questione del canale.
Non era il canale frutto del lavoro indigeno?
E del capitale indigeno, poi sottratto con una abile manovra dai signori di Londra?
Perché il canale, si chiesero, non poteva essere controllato dagli egiziani?
Questo chiese Nasser alla folla scatenata del Cairo, all’indomani del tramonto del sogno di Assuan.
Ed ecco che nel Medio Oriente entrò in gioco una forza nuova, autonoma.
È un altro, importantissimo filo che occorre dipanare e seguire, se si vuole intendere l’attuale groviglio di interessi.
A prima vista sembra strano che, alla testa del nazionalismo arabo, si sia posto proprio l’Egitto, che è il meno arabo e il meno compatto dei paesi mediorientali. Unità economica e geografica, sicuramente: la valle del Nilo; ma non certo unità etnica e linguistica. La lingua ufficiale, fino al 1917, era il turco. Oggi è l’arabo.
Eppure, la bandiera del nazionalismo arabo ha sventolato proprio al Cairo.
Per quale motivo?
Il nazionalismo arabo ha un tono spiccatamente agonistico, come qualsiasi altro nazionalismo.
È contro qualcosa, prima di essere per qualcosa.
Nel nostro caso, era contro lo straniero.
L’Egitto ha conosciuto più di ogni altro paese mediorientale il peso della dominazione – politica, economica, finanziaria, militare – straniera. L’Egitto, inoltre, ha una più antica continuità politica e amministrativa. Le influenze straniere – francesi e inglesi – vi hanno portato fermenti rivoluzionari.
E come l’Egitto anche il resto del mondo arabo aveva motivo per rammaricarsi dell’atteggiamento occidentale.
Va ricordato che, durante la prima guerra mondiale, l’Inghilterra, per battere la Turchia, le aveva sollevato contro le popolazioni arabe e ne aveva organizzato gli eserciti: è l’epoca di Edmund Allenby e del leggendario Thomas Edward Lawrence. E dra riuscita a sollevarle solo promettendo, una volta caduto l’impero di Costantinopoli, la libertà e l’unità della nazione araba. Ma l’Inghilterra aveva fatto anche altre promesse: aveva assicurato alla Francia il controllo della Siria e al movimento sionista la “patria israeliana”.
Non si possono promettere troppe cose a troppe persone: alla resa dei conti qualcuno resta deluso.
Nel nostro caso, restarono delusi i paesi arabi.
La speranza dell’unità rinacque durante e dopo la seconda guerra mondiale: proprio allora (1944), sotto la pressione delle ostilità in corso e gli auspici inglesi, Siria, Giordania, Arabia Saudita, Libano, Yemen fondarono la Lega Araba, una unione secolare, non religiosa (tra l’altro, il Libano era prevalentemente cristiano), cui, più tardi, aderiva la Libia. 
La Lega Araba si dimostrò un organismo astratto, inefficiente, nato gracile e destinato a perire.


4.  Lo Stato di Israele
Attraverso i secoli, gli ebrei non hanno mai rinunciato al ritorno nella “terra dove scorre il latte e il miele”, come disse Giosuè al suo popolo, quando lo guidò dalle desolate lande del Sinai. Per questo popolo sparso in tutto il mondo, ma mai dimentico della comune origine, restava vivo l’appello della terra promessa, né in Palestina erano mai scomparse del tutto le piccole comunità ebraiche.
Verso la fine del XIX secolo, Theodor Herzl tracciò l’idelogia del moderno popolo di Israele e, in quegli anni, vi furono le prime immigrazioni verso la Palestina.
Durante la prima guerra mondiale, Chaim Weizmann – divenuto, poi, primo presidente dello Stato israeliano – e Walter Rothschild, il più ricco banchiere del mondo - che avevano concesso un cospicuo prestito al governo inglese – ottennero da Lord Arthur James Balfour una dichiarazione favorevole al futuro Stato di Israele. La dichiarazione, forse, intenzionalmente, era assai vaga.
Diceva:

“Il governo di Sua Maestà vede con favore la fondazione in Palestina di una Patria Nazionale del Popolo Ebraico, e contribuirà con ogni suo mezzo al raggiungimento di questo fine…”

Dopo la guerra, tra il 1922 e il 1938, l’immigrazione degli ebrei si fece intensissima: in Palestina raddoppiò la popolazione ebraica, che, provenendo dai più evoluti paesi d’Occidente, sapeva scegliere e mettere a frutto le terre migliori. Il risentimento degli arabi – non si dimentichi che, anche a loro, era stata promessa la nazione – si manifestò quasi subito e non giovarono a placare i dissensi gli ambigui interventi inglesi. 
La seconda guerra mondiale non migliorò la situazione.
30 mila soldati israeliani militarono, con la stella di David, nell’esercito britannico.
E anche in Italia: furono ottimi soldati.
Intanto la follia criminale di Adolf Hitler e di Heinrich Himmler stava distruggendo sistematicamente la popolazione ebraica di tutta l’Europa.
Finita la guerra vi furono motivi a sufficienza per chiedere ancora la patria in Palestina e le Nazioni Unite cercarono di eludere il problema, proponendo la divisione di due zone etniche, una araba e l’altra israeliana.
Nessuno accettò e iniziarono gli scontri armati.
L’Inghilterra non trovò di meglio che rinunciare per sempre al mandato.
Era il 15 maggio 1948.
Lo stesso giorno era proclamato lo Stato di Israele: Russia e Stati Uniti lo riconobbero subito, mentre la Lega Araba aprì le ostilità.
Gli israeliani si difesero con coraggio  e avvedutezza incredibili: avevano un esercito deciso, soldati pronti a tutto, che avevano conosciuto gli orrori della guerra in Europa e i rischi dell’immigrazione clandestina.
Combatterono anche le donne.
Il 3 aprile 1949, la Giordania chiese la pace e la guerra aperta finì, ma le ostilità continuarono allo stato freddo, esplodendo, di tanto in tanto, in piccole scaramucce di frontiera.
Lo Stato di Israele, ormai, esisteva, anzi cresceva perché l’afflusso immigratorio continuava. Questa volta, tuttavia, era un’immigrazione di tipo meno qualificato: gente che veniva dall’est, più spesso dall’Iraq, da dove la colonia ebraica, spossessata di ogni bene, aveva avuto “il permesso di emigrare”.
La popolazione stava salendo verso i 2 milioni e le risorse del paese erano quelle che erano: la vita non era facile anche a causa della pervicace ostilità dei popoli arabi e, soprattutto, dell’Egitto.
E il petrolio?
Durante la seconda guerra mondiale, l’Iraq aveva pensato bene di chiudere l’oleodotto che da Kirkuk faceva capo al porto di Haifa.
Ironia della politica internazionale: lo Stato di Israele, che aveva il petrolio a poche centinaia di miglia, doveva farselo venire dal Venezuela.
Ecco, dunque, a complicare la situazione, un altro elemento che completa il quadro mediorientale.  


5.  Il Petrolio
La civiltà moderna vive sul petrolio.
In pace e – lo si tenga bene a mente – più ancora in guerra, non è possibile muoversi senza una larga disponibilità di petrolio e dei suoi derivati.
La zona attorno alla foce dei due grandi fiumi – forse, nell’antichità geologica fu un mare di acque poco profonde – conteneva i più grandi giacimenti e offriva quasi tutte le condizioni richieste per lo sfruttamento. Infatti, il petrolio era abbondante e i giacimenti concentrati. Da un punto di vista geologico le condizioni erano perfette, basti pensare che il primo petrolio iraniano scaturì, nel 1908, da una profondità di 350 metri. Né esistevano complicazioni giuridico-politiche: proprietario del suolo, quasi sempre, era il sovrano locale, un re, un sultano, uno sceicco; si doveva discutere solo con lui e non era difficile trovare l’accordo.
La manodopera era sufficiente e a buon prezzo.
Assai meno facili le condizioni ambientali; in molti casi bisognava inventare un habitat tollerabile, provvedere a tutto, a iniziare dall’acqua potabile.
La prima nazione interessata allo sfruttamento dei giacimenti mediorientali fu la Gran Bretagna.
Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, nel 1913, poté sostituire il petrolio al carbone, per far viaggiare le navi da guerra.
L’anno prima era sorta la raffineria di Abadan, sul Golfo Persico.
Collegata ai pozzi da opportuni oleodotti, Abadan offriva tutto il petrolio che occorreva alle navi che vi facevano scalo. La società che se ne occupava era la Anglo-Iranian Oil Company, a fortissima partecipazione statale.
Nel 1919, erano 8 milioni e mezzo i fusti di petrolio estratto; nel 1950, oltre 242 milioni. L’anno dopo l’Iran di Mohammad Mossadeq nazionalizzò ogni cosa e si impadronì degli impianti:
Occorse cercare il petrolio altrove.
Ve ne era in abbondanza a Kirkuk, nell’Iraq, un immenso giacimento lungo 60 miglia e largo 2; nel 1952 se ne estrassero 141 milioni di fusti.
Petrolio si trovava nelle isole Bahrein e, poi, negli anni tra il 1932 e il 1936, sulla costa araba antistante a Damman, a esempio: l’Arabia Saudita entrò nel grande gioco del petrolio. Nel 1953, se ne estrassero 308 milioni di fusti.
Ancora più smaccata, quasi paradossale, la situazione del Kuwait, un sultanato indipendente tutelato dagli inglesi. Il Kuwait – grande quanto l’Abruzzo e con appena 200 mila abitanti – produceva quasi 55 milioni di tonnellate di petrolio l’anno. Lo estraeva la Kuwait Oil Company, la quale pagava allo sceicco 10 milioni di sterline al mese.
Questa era la situazione.
Gli Stati del Medio Oriente non potevano negare il petrolio all’Europa, per il semplice motivo che quella era la loro unica risorsa e che la loro economia era complementare rispetto all’economia europea.
Potevano, tuttavia, farselo pagare quanto volevano, potevano chiedere dollari, anziché sterline o franchi o marchi o lire, alterando in tal modo la bilancia finanziaria dei paesi interessati.
Potevano – lo avevano fatto – interrompere le forniture in caso di guerra, perché il petrolio acquistava importanza essenziale: un’industria poteva funzionare anche a carbone, un treno viaggiare anche con l’elettricità, ma un carro armato o un aereo, no di certo.
In caso di guerra il Medio Oriente era in grado di immobilizzare tutta l’Europa occidentale.
Questo è il motivo fondamentale degli avvenimenti cui abbiamo assistito e assistiamo con tanta trepidazione; tutte le nazioni del mondo sono interessate e l’avvenire è quanto mai incerto e tenebroso.




Daniela Zini
Copyright © 10 ottobre 2010 ADZ