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Informazioni personali

venerdì 16 novembre 2012

L'OCCIDENTE DISORIENTATO DI FRONTE AL DRAMMA SIRIANO


 L’OCCIDENTE DISORIENTATO
DI FRONTE AL DRAMMA SIRIANO

In un’epoca, in cui tutto si accelera e gli istanti si succedono nel caos di una accozzaglia di informazioni, sempre più densa; in un’era, governata da quella che Gilles Finchelstein [1963] definisce la dittatura dell’urgenza [Gilles Finchelstein, La dictature de l’urgence, http://www.youtube.com/watch?v=pIN5R_mIMng], i numeri perdono il loro significato e i drammi passano, talvolta, come banalità annegate nel gorgo dello scoop e del sensazionale. La morte si banalizza, gli enjeux si oscurano.
L’informazione non ha più, sembra, che la gravità della sua freschezza.
Culte de l’instant et culte de la vitesse,”, 
ci dice Finchelstein,
ici, instant du scoop qu’on oublie dès le lendemain, vitesse d’une information qui ne se hiérarchise plus dans l’esprit de spectateurs qu’elle étouffe. ” 
La nuova vittima di questo piccolo dramma delle nostre società moderne, è, senza dubbio, la Siria. L’interesse portato al massacro di innocenti, perfino di bambini, capaci solo di protestare contro un regime tirannico, è derisorio.
La tragedia siriana rivela un’altra tragedia, ben anteriore, ma che ravviva di una luce cruda: quella della banalizzazione dell’orrore nei nostri animi, banalizzazione che taglia corto a ogni indignazione e fa, così, correre il rischio di uno scivolamento verso il “coperto” dai silenzi.
Il Medio Oriente, diaframma tra il mondo occidentale e il mondo asiatico, ha, sempre, avuto nella Siria il suo centro di equilibrio. Confinante a Nord con la Turchia, a Est con l’Iraq, a Sud con la Giordania, a Ovest con Israele e il Libano, questo Paese di oltre 22 milioni di abitanti, sparsi su una superficie di 185.180 chilometri quadrati, pari a oltre la metà dell’Italia, è stata terra di conquista fino dall’Antichità.
Vediamone, in breve, le tappe.
Duemila anni prima di Cristo la Siria è spartita tra gli ittiti a Nord e gli egizi a Sud.
Mille anni dopo è provincia assira, fino a quando, nel 509 a.C., i principi siriani si ribellano agli assiri.
La libertà dura poco.
Dopo la battaglia di Isso [333 a.C.] cade sotto il dominio di Alessandro Magno [356 a.C-323 a.C.] e, quindi, del suo satrapo Seleuco [358-281], che inaugura una dinastia di sei re, i Seleucidi.
Sotto i romani, la Siria è abbellita da Adriano[76 d.C.-138 d.C.], vede nascere le glorie di Palmira e di Bosra. Ma raggiunge il suo maggiore splendore con gli arabi, calati, nel 635 d.C., e la dinastia degli Omayyadi, che trasferiscono a Damasco la capitale dell’impero.
Con l’anno 1000 arrivano i crociati, quindi, i mamelucchi, poi, i mongoli.
Nel 1400, le orde di Tamerlano [1336-1405] mettono a ferro e fuoco Aleppo e Damasco, finché nel Cinquecento cala sulla Siria la lunga notte dell’impero ottomano.
Il giogo turco dura cinque secoli.
Bisogna attendere la sconfitta della Turchia, alleata agli imperi centrali, nella prima guerra mondiale, perché la Società delle Nazioni assegni alla Francia, nel 1922, il protettorato sulla Siria.
I movimenti nazionalisti siriani hanno, ora, un altro bersaglio. La rivolta antifrancese parte dal Gebel Druso, ma è subito spenta. In cambio, la Francia si impegna a concedere l’indipendenza, entro il 1940.
La Siria ottiene l’indipendenza, nel 1941, ma le truppe francesi e britanniche non lasciano il Paese che, dopo la guerra, nel 1946.
Il nuovo Stato viene alla luce in condizioni difficili. Priva di una adeguata classe dirigente, senza industrie, con una economia arretrata e un popolo di pastori musulmani ancora divisi in sette religiose, la Siria assiste a una serie di colpi di Stato, orditi da militari di carriera, gli unici che detengono un effettivo potere.
Incrollabile resta, però, la sua diffidenza verso l’Europa e la simpatia verso l’Unione Sovietica, che non tarda a inviare aiuti, armi e tecnici al nuovo Stato.
Il primo febbraio del 1958, la Siria proclama la sua fusione con l’Egitto. Presidente della Repubblica Araba Unita [R.A.U.] è Gamal ‘Abd al-Nasser [1918-1970], il quale, sfruttando il comune odio per Israele e il sincero anelito popolare alla unità del mondo islamico, spera di attrarre a sé gli altri Stati arabi. Il sogno di Nasser è di breve durata. Il basso livello di vita dell’Egitto, che veniva a gravare sulle migliori condizioni dei siriani, e una continua sopraffazione amministrativa sulla Siria, scavano il solco tra le repubbliche sorelle. Nel settembre del 1961, la Siria esce, clamorosamente dalla R.A.U. Tuttavia, il nasserismo ha fatto proseliti anche tra gli stessi generali, un tempo gelosi custodi dell’autonomia nazionale.
Dal 1970, la vita politica siriana è dominata dal presidente Hafiz al-Assad [1930-2000] e dal Fronte Nazionale Progressista [Jabha al-Taqaddumi al-Watani], una coalizione di partiti, guidata dal partito Ba’th.
L’intervento in Libano, che inizia, intorno alla metà degli anni 1970, e la repressione degli estremisti musulmani segnano i mandati di al-Assad. Misure liberali sul piano economico e un avvicinamento all’Occidente si attuano, anche, sotto la sua presidenza.
La morte di Hafiz al-Assad, nel 2000, è seguita dall’ascesa al potere di suo figlio Bashar al-Assad [1965]. Culto della personalità, supersorveglianza della società, divieto di ogni opposizione: la Siria, che gli lascia suo padre, ha tutto di una dittatura, lo testimonia il massacro di Hama, nel 1982, che vede la morte di decine di migliaia di siriani e la distruzione di un terzo della città dagli innumerevoli capolavori architettonici. Per conservare il potere, Hafiz al-Assad ha saputo dissipare il proprio patrimonio e uccidere il suo stesso popolo, in un silenzio colpevole, già allora, dei media occidentali. 

In ogni poesia vedrò una dimora per me

Io non sono Gilgamesh e neppure Ulisse,
Non dall’Oriente, dove il tempo è una miniera di polvere,
Né dall’Occidente dove il tempo è ferro arrugginito.
Ma dove vado? E cosa farei se dicessi:
“La Poesia è il mio Paese e l’Amore il mio cammino.”
Così risiedo viaggiando,
Scolpendo la mia geografia con lo scalpello dello smarrimento.
Ed ecco la luce!
Non corre più sui passi dei bambini,
Allora perché il Sole ripete il suo volto?
Non scenderai tu pioggia
Per lavare questa volta l’utero della Terra?
La notte.
Lampi, i tessuti del tempo
Bruciano.
La verità si vela.
La Terra.
Sognami e dì:
“Ovunque io vada, vedrò una poesia abbracciarmi.”
Sognami.
Veramente.
E dì allora:
“In ogni poesia vedrò una dimora per me.”

Adonis
[pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, 1930]

Adonis [pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, 1930]
Considerato uno dei maggiori poeti arabi viventi, Adonis, pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, nasce a Qassabin, nel Nord della Siria, il primo gennaio del 1930. Attivissimo nel dibattito politico-culturale, estetico e filosofico, è tra i fondatori, insieme al poeta iracheno Badr Shakir al-Sayyab [1926-1964] e al palestinese Jabra Ibrahim Jabra [1919-1994], del gruppo Tammuzi. Più volte candidato al premio Nobel per la Letteratura, vince, nel 1995, il Prix Méditerranée per Soleils seconds. In Italia, gli è assegnato, nel 1999, il Premio Nonino per la Poesia e, nel 2000, il Premio LericiPea per l’Opera Poetica. Nel 2011, gli è conferito il prestigioso Premio Goethe.

Daniela Zini


Cola sangue che non si arresta


Inchiostro della Genesi,
Inaugurato da Caino.
Come ha ben visto Caino,
Non ha percorso lo smarrimento,
Non ha vissuto l’esilio.

Ed ecco il tempo
Trascinato dal sole, suo padre, cinto di catene,
Di ruote che solcano la terra,
Mentre lo spazio è una lanterna spenta.

Non avete, forse, parlato, voi,  cose silenziose?
Succhiando al seno della passione.
Mistero guidato dal fuoco.
Fuoco alimentato dal mistero.
Mentre la luce non cessa di piangere,
Piange la ragione del globo,
Dolendosi per le stirpi dell’esilio.

In esilio nascono le profezie.
Ma com’è facile mettere il copricapo di un profeta
Sulla testa di un impostore,
Com’è facile mettere il copricapo di un impostore
Sulla testa della storia.

Tempo,
Immenso crepuscolo di teste umane.


Adonis [pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, 1930]

Una delle ironie più crudeli che costellano la storia tumultuosa del mondo arabo è che l’ideologia ba’thista, che si proponeva di unificare la “nazione araba”, ha fallito nel mantenere la sicurezza e l’unità dei due Paesi guidati, per lungo tempo, dai due rami rivali del partito Ba’th, l’Iraq e la Siria. I susseguenti errori colossali [la guerra contro l’Iran, dal 1980 al 1988, e, in particolare, l’invasione del Kuwait, nel 1990], commessi dal capo supremo del partito Ba’th iracheno, Saddam Hussein [1937-2006], hanno condotto non solo alla distruzione del partito al potere e all’eliminazione fisica e politica dei suoi leaders, ma anche alla distruzione del Paese. Ancora oggi, l’Iraq paga l’ingente costo del confronto di due anomalie politiche, il regime di Saddam Hussein, a Baghdad, e quello di George W. Bush, a Washington.
Il ramo siriano del Ba’th si è rivelato più capace a fronteggiare i pericoli esterni e interni, grazie al suo leader, Hafiz al-Assad, fine politico e grande stratega, qualità che mancavano, ahimé!, al suo vicino e rivale dell’altro lato della frontiera Est, Saddam Hussein.   
La società irachena è divisa tra sciiti e sunniti, certo, ma è omogenea, paragonata alla società siriana multiconfessionale, dove convivono alawiti, sunniti, ismaeliti, drusi, curdi e cristiani. Tutto questo Salad Bowl, mosaico etnico, è “messo a punto” dagli alawiti, che non costituiscono più del 12% della popolazione.
Come questa minoranza controlla il Paese dal 1970, vale a dire da più di 42 anni?
Il regime, instaurato, all’indomani del colpo di Stato del 1970, è una dittatura militare, dominata dalla minoranza alawita, che ha saputo cattivarsi il sostegno di tutte le altre minoranze confessionali, che temono una dominazione politica sunnita. Questa paura è esacerbata da un evento sanguinoso, che ha terrorizzato le minoranze siriane: nel giugno del 1979, un commando dei Fratelli Musulmani aveva fatto irruzione nell’accademia militare di Aleppo, i cui studenti provenivano, in maggioranza, – 260 su 320 cadetti – dalla comunità alawita. I terroristi massacrarono, a sangue freddo, 83 cadetti, tutti alawiti. Alcuni analisti hanno stabilito un legame diretto tra questo massacro e la fatwa di Taqi ad-Din Ahmad ibn Taymiyyah [1263-1328], l’antenato del wahabismo salafita, che, nel XIV secolo, aveva chiamato alla persecuzione degli alawiti, che considerava apostati.
Due anni dopo, la rivincita del regime era stata terribile. Nel febbraio del 1982, infatti, i carri armati e l’artiglieria di Hafiz al-Assad avevano raso al suolo la città di Hama, sotterrandone i difensori nelle macerie. Ancora oggi, nessuno sa, esattamente, quanti siano i morti a Hama. Giornalisti e analisti stimano il bilancio dei morti tra i 10mila e i 20mila. Il corrispondente del New York Times, Thomas Lauren Friedman [1953], che andò a Hama, due mesi dopo il violento scontro, trovò una città nella quale interi quartieri erano stati spianati con i bulldozers e i rulli compressori. Il prezzo pagato dagli uomini era stato, ancora, più terribile.
“In pratica l’intera dirigenza musulmana di Hama – shaykh, maestri, personale delle moschee – che era sopravvissuta alla battaglia per la città venne liquidata successivamente in un modo o nell’altro; la maggior parte dei capi sindacali antigovernativi subì la stessa sorte.”,
racconta Friedman.
Ciò che accade, oggi, in Siria è, in un certo senso, il prolungamento degli eventi sanguinosi dal 1979 al 1982, con un sovrappiù, l’entrata in scena di potenze regionali e internazionali: l’Arabia Saudita e la sua appendice, il Qatar, con l’appoggio della Turchia e degli Stati Uniti, da una parte, e dall’altra parte, l’Iran e la sua appendice, il movimento sciita libanese hezbollah, con l’appoggio della Russia e della Cina.
Un anno e dieci mesi dopo l’inizio delle violenze in Siria, la situazione sembra bloccata. Il regime di Bashar al-Assad non dà alcun segno di un prossimo crollo. Domina i centri nevralgici del Paese e non è neppure impopolare come la stampa occidentale sembra dipingerlo.
Visibilmente, beneficia non solo dell’appoggio delle minoranze confessionali, terrorizzate dalla prospettiva di un potere sunnita dominato dai Fratelli Musulmani e dagli jihadisti sunniti, ma egualmente di una larga frangia di cittadini sunniti, inquieti per l’anarchia e il caos che ingenererebbe, forzosamente, il crollo del regime ba’thista. Queste forti inquietudini, sentite da larghi settori della società siriana, spiegano, al tempo stesso, la resistenza del regime di Bashar al-Assad e l’incapacità dell’opposizione armata nel realizzare i suoi obiettivi, a dispetto delle centinaia di milioni di dollari, che le provengono dall’Arabia Saudita e dal Qatar e della profondità strategica di cui beneficia nel territorio turco.


Ma l’impasse, nella quale si trova il conflitto, in Siria, non sembra proprio aiutare la riduzione dell’intensità dei combattimenti, al contrario. Nessuna parte nel conflitto è pronta a fare concessioni e il dialogo tra governo e opposizione armata è inimmaginabile. La tregua in occasione dell’Eid al-Adha, Festa del Sacrifico, laboriosamente raggiunta dall’inviato dell’ONU e della Lega Araba, l’algerino Lakhdar Brahimi [1934], non è durata che un solo giorno.

 
 
Di fronte agli sviluppi pericolosi della guerra civile in Siria, i Paesi occidentali, che erano, all’inizio, ferventi difensori dell’opposizione ed esigevano la destituzione di Bashar al-Assad e del suo regime, sono, ora, in grande imbarazzo e non sanno a quale santo votarsi. Da Washington a Parigi passando per Londra, non si sente più la stessa determinazione a “farla finita” con il regime ba’thista, in Siria, né lo stesso entusiasmo a sostenere l’opposizione come un anno fa, a esempio. Più il tempo passa, più il conflitto sprofonda nell’impasse e più l’Occidente si pone interrogativi.



Innanzitutto e anche se non lo riconoscono apertamente, i leaders politici, che si trovano alla Casa Bianca, al numero 10 di Downing Street o all’Eliseo, non possono ignorare un dato sempre più evidente: il regime di Bashar al-Assad, contrariamente a quello di Hosni Mubarak [1928], di Mu’ammar Gheddafi [1942-2011] o di Zine al-Abidine Ben Ali [1936], non è affatto sprovvisto di una base popolare. È giocoforza riconoscere che, se Bashar al-Assad è, sempre, presidente, non lo è solo perché è sostenuto dall’esercito, ma anche e soprattutto, perché è sostenuto da larghe frange della popolazione siriana. Altrimenti avrebbe conosciuto la stessa sorte dei suoi pari, egiziano, libico e tunisino, dalle prime settimane o, tutt’al più, dai primi mesi dell’insurrezione. Poi, il conflitto non è più limitato alle frontiere siriane. La violenza ha, già, “strabordato” in Turchia, in Libano e in Giordania, minacciando di trasformarsi in un conflitto regionale, di cui nessuno può prevedere né l’ampiezza né le conseguenze. E questa prospettiva ha, veramente, di che inquietare Washington, Londra e Parigi. Infine, e cosa più inquietante ancora, i guerriglieri dell’opposizione siriana non sono solo disertori dell’esercito e cittadini impegnati nella lotta per “farla finita” con la dittatura e stabilire una democrazia “all’occidentale”. Questa opposizione è, sempre più, infiltrata da jihadisti di al-Qaida con una agenda e un programma politico che non hanno niente a che vedere con gli obiettivi che avevano in mente i primi manifestanti del marzo del 2011. Per questi jihadisti, l’obiettivo immediato è eliminare la dittatura laica di Bashar al-Assad e l’obiettivo ultimo è instaurare una dittatura teocratica.
La tattica delle autobomba, che, qualche tempo fa, ha fatto la sua comparsa in Siria, è un marchio depositato di al-Qaida e un segno della sua presenza, sempre più dominante, in seno all’opposizione siriana.


 Che cosa fare in Siria?
Una domanda estremamente spinosa per gli strateghi occidentali, che, fino a oggi, non hanno alcuna idea della risposta appropriata da dare, né della strategia da attuare per fare fronte all’imbroglio siriano, prossimo a divenire un dramma corneliano.


Daniela Zini
Copyright © 15 novembre 2012 ADZ






lunedì 15 ottobre 2012

LETTERE DALL'IRAN: LETTERA DI SHIRIN ALAM HULI


 LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione della:

LETTERA DI SHIRIN ALAM HULI
prigioniera politica curda, giustiziata, il 9 maggio 2010, insieme a  Farzad Kamangar, Ali Heydarian, Farhad Vakili e Mehdi Eslamian



Sto entrando nel mio terzo anno di carcere, tre anni nelle peggiori condizioni, dietro le sbarre della prigione di Evin.
Ho trascorso i primi due anni senza un avvocato in carcere preventivo.
Tutti gli appelli sulla mia vicenda sono restati senza risposta, finché sono stata, ingiustamente, condannata a morte.
Perché sono stata imprigionata, perché sto per essere giustiziata?
Per quale crimine?
Perché sono curda? 
Se è per questo, io sono nata curda, io parlo curdo, il curdo è la lingua che uso per esprimermi in famiglia, con gli amici e la comunità, è la lingua con la quale sono cresciuta. Ma non ho il diritto di parlarla o di leggerla, non ho il diritto di studiare nella mia lingua e non ho il diritto di scriverla.
Mi chiedono di rinnegare la mia identità curda, ma se io lo facessi, rinnegherei me stessa.
Signor giudice e signor inquirente, quando voi mi interrogavate, io non parlavo la vostra lingua e non la comprendevo.
Ho appreso il persiano, nei due anni che ho passato nella sezione femminile dalle mie compagne di cella. Ma voi mi avete interrogato, giudicato e condannato nella vostra lingua, anche se non comprendevo e non potevo difendermi.
Le torture, cui mi avete sottoposto, sono divenute il mio incubo.
Soffro, costantemente, a causa delle torture subite.
Le percosse al capo, durante gli interrogatori, mi hanno causato seri problemi.
Soffro di forti emicranie, che mi causano perdite di coscienza e sanguinamenti dal naso per il dolore.
Passano ore prima che io riprenda i sensi.
Un altro “regalo” che le vostre torture mi hanno lasciato, è un problema agli occhi che peggiora, di giorno in giorno.
La mia richiesta di occhiali è rimasta inevasa.
Quando sono entrata in prigione, i miei capelli erano neri.
Dopo tre anni di prigione, sono divenuti bianchi.
So cosa mi avete fatto.
Lo avete fatto a tutti gli altri curdi, quali Zeinab Jalalian e Ronak Safarzadeh…
Le madri curde hanno gli occhi gonfi di lacrime, nell’attesa di vedere i propri figli. Sono, costantemente, angosciate e sobbalzano a ogni telefonata che potrebbe annunciare loro l’esecuzione dei propri figli.
Oggi, 2 maggio 2010, mi hanno, di nuovo, portato al blocco 209 della prigione di Evin per l’interrogatorio. Mi hanno chiesto di cooperare in modo da essere perdonata e non giustiziata. Io non comprendo cosa intendano dire con cooperare, poiché non ho altro da dire al di fuori di quello che ho, già, detto.
Vogliono che io ripeta tutto quello che mi suggeriscono, ma io mi rifiuto di farlo.
Gli inquirenti mi hanno detto:
“Noi volevano rilasciarti, lo scorso anno, ma la tua famiglia non ha voluto cooperare e siamo giunti a questo.”
Mi hanno detto che sono un ostaggio e che, fino a quando non raggiungeranno il loro scopo, mi terranno prigioniera o mi giustizieranno, ma mai mi rilasceranno.
Shirin Alam Huli, 3 maggio 2010
Serkeftin (Vittoria, in curdo)


traduzione di Daniela Zini
Copyright © 15 ottobre 2012 ADZ
        
   



domenica 7 ottobre 2012

PEDOFILIA: L'INFANZIA NEGATA E VIOLATA I. CHE COSA SI INTENDE PER PEDOFILIA?



PEDOFILIA:
L’INFANZIA NEGATA E VIOLATA



“Les grandes personnes ne comprennent jamais rien toutes seules, et c’est fatigant, pour les enfants, de toujours et toujours leur donner des explications.”
Antoine de Saint-Exupéry, Le Petit Prince

Pour Toi

Au début j’étais amoureuse
De la splendeur de tes yeux,
De ton sourire,
De ta joie de vivre.

Maintenant j’aime aussi tes larmes
Ta peur de vivre
Et le désarroi
Dans tes yeux.

Mais contre la peur
Je t’aiderai,
Car ma joie de vivre
Est encore la splendeur des tes yeux.

Rome, le 11 août 2011

Cari Ragazzi, 
mentre guardavo questo filmato [http://www.youtube.com/watch?v=zNUxq8rI6lM&feature=player_embedded] ho pensato a Voi Ragazzi, piccoli e grandi dei cinque continenti, Voi, che siete pieni di vita, che studiate, che giocate, che lavorate…
Voi siete gli animatori delle nostre case, delle nostre aule, nel mondo intero…
Sì, ho pensato, subito, a Voi, perché Voi siete sensibili e attenti al dolore e alle sofferenze di quei Ragazzi che, in questo stesso momento, sono, in strada, gli occhi impauriti, pieni di dolore, in cerca della loro famiglia, di un segno di vita e di un senso di tutto ciò che accade loro.
Io mi rivolgo a Voi perché Voi siete generosi, capaci di gesti coraggiosi.
La gatta ama i suoi piccoli. Ma non li distingue più, una volta che sono divenuti adulti. Invece, nel corso del suo cammino, l’uomo è, costantemente, obbligato a scegliere.
Può decidere di far mangiare, prima di lui, la persona che ama.
Mi piace ripetere questa frase:
“L’uomo è l’immagine di Dio.”
Alcuni ci scherzano su, rispondendo:
“Beh, allora Dio non è molto bello!”
Ma io paragono l’uomo a Dio come il sigillo che viene impresso nella cera. Non conosco il timbro, forse, non lo vedrò mai, ma se osservo, con attenzione, me stessa in profondità, scopro l’infinito. L’uomo è immagine di Dio in negativo, perché tutto ciò che grida in lui, tutto ciò che tende a superare la legge naturale, che è soggetta a istinti brutali, rappresenta una scelta.
Non esiste la generosità istintiva.
Se non esistesse nel cosmo quella piccola nullità che è l’uomo, dotato della libertà che gli permette o di raccogliere, da egoista, tutto ciò che trova, anche a scapito degli Altri, o di sforzarsi di aiutare il prossimo a condurre una vita migliore; se non vi fossero gli esseri umani, che non sono altro che polvere infinitesimale del cosmo, l’universo nella sua totalità sarebbe assurdo.
E questo che cosa significa?
Se la libertà non fosse in grado di sprigionarsi in qualche momento cruciale – quel momento che io chiamo attenzione – la vita sarebbe assurda…
 Io Vi domando di trasmettere questo messaggio alle Vostre famiglie, alle persone del Vostro quartiere, alla Vostra scuola, affinché la catena di solidarietà cresca nel mondo intero e divenga un segno di speranza e di amore concreto.
 Io sono sicura che il Vostro cuore Vi suggerirà le parole per fare delle Vostre case, delle Vostre scuole, luoghi di solidarietà.
Restiamo uniti con tutti i Ragazzi del mondo e tra noi: l’unione fa la forza!
Vi ringrazio di cuore.
Crediate in tutto il mio affetto.

Daniela Zini

“È difficile immaginare un ostacolo più grande di quello rappresentato dal commercio sessuale di bambini nel cammino verso la realizzazione dei diritti umani. Eppure la tratta dei bambini è solo un elemento del problema ancora più diffuso e profondamente radicato degli abusi sessuali. Milioni di bambini in tutto il mondo sono sfruttati per il sesso a pagamento. Acquistati e venduti come un qualsiasi bene, fatti oggetto di commercio all’interno e all’esterno dei confini nazionali, gettati in situazioni quali i matrimoni forzati, la prostituzione e la pornografia infantile. Molti di loro subiscono danni profondi e, talvolta, permanenti. Il normale sviluppo fisico ed emotivo viene compromesso, come pure l’autostima e la fiducia. Alla stragrande maggioranza viene, anche, negato il diritto all’istruzione come pure il minimo momento di divertimento e gioco.”
con queste parole il direttore generale dell’UNICEF Carol Bellamy presentava il Rapporto sullo Sfruttamento Sessuale dei Bambini, pochi giorni prima dell’apertura del secondo Congresso Mondiale contro lo Sfruttamento Sessuale dei Bambini (http://www.unicef.org/events/yokohama/index.html), svoltosi a Yokohama tra il 17 e il 20 dicembre 2001.
Ho constatato, nelle mie investigazioni, che la pedofilia è un tema difficile da affrontare, ambiguo e soggetto a polemica. Osare parlarne è darsi la possibilità di trattare e dominare, in profondità, il problema dell’abuso sessuale per meglio combatterlo.
Possano i nostri bambini attraverso l’informazione, la prevenzione, divenire più forti e meglio protetti all’esterno e all’interno dell’ambiente familiare.
La vulnerabilità e l’innocenza dei bambini sono abusate, deliberatamente o no, da aggressori sessuali per saziare desideri devianti compulsivi o da pedosessuali incoscienti.
La mia speranza è di aiutare i bambini, facendomi loro portavoce, per proteggerli come avrei voluto essere protetta, io stessa, da abusi di altro genere, quando ero una bambina.
Parafrasando una frase dell’Esodo, in merito alla schiavitù d’Egitto del popolo di Israele:
“Vidi la sofferenza dei bambini e me ne sono presa cura.”

I. CHE COSA SI INTENDE PER PEDOFILIA?


di
Daniela Zini


Che cosa si intende per pedofilia?
La pedofilia non va confusa con l’attrazione sessuale per gli adolescenti, efebofilia o ninfofilia. Alcuni pedofili sono anche efebofili o ninfofili, ma tutti gli efebofili o ninfofili non sono pedofili. 
Nella classificazione internazionale delle malattie (Organizzazione Mondiale della Sanità), la pedofilia è definita come una preferenza sessuale per i bambini, generalmente di età prepubere (meno di 13 anni) o all’inizio della pubertà. Da parte loro, le autorità legali di diversi Paesi ricorrono a una definizione più ampia per includervi gli adulti che hanno attrazione sessuale per soggetti che la legge considera bambini o giovani adolescenti. Tuttavia, circoscrivere la parola stessa di pedofilo è difficile.
Troppe ambiguità restano a tale proposito: ambiguità ancestrale della reazione sociale e di alcune istituzioni al servizio dell’infanzia; ma anche ambiguità del pedofilo con i suoi alibi pseudo-affettivi, i suoi sotterfugi professionali; ambiguità della sua vittima che può offrire un consenso apparente; e ancora, ambiguità del corpo medico e della giustizia. Infine, la difficoltà di definire la pedofilia risiede nel suo doppio status, al tempo stesso, legale, in quanto infrazione, e medico, in quanto turbativa della preferenza sessuale.     
La grande maggioranza dei pedofili sono uomini, ma la proporzione di donne pedofile resta difficile da valutare, perché la loro pedofilia può esprimersi in modo molto più discreto rispetto agli uomini.
Si trovano pedofili in tutti gli strati della società. 
Alcuni sono attratti unicamente da bambini, altri da bambine, altri da bambini di entrambi i sessi, con o senza una preferenza per l’uno dei due. Certi pedofili sono attratti da bambini appartenenti a fasce di età ben precise, altri sono sensibili a tali o tali altri tratti fisici particolari (capelli, tratti del volto, costituzione fisica, voce).
Esistono pedofili esclusivi (attratti, unicamente, dai bambini), pedofili preferenziali (attratti, soprattutto, dai bambini), pedofili non preferenziali (attratti, soprattutto, dagli adulti o dagli adolescenti, ma anche dai bambini).
Sembrerebbe che le attrazioni pedofile specifiche siano molto più diffuse di quanto si creda. La presenza di queste attrazioni specifiche non implica, tuttavia, che le persone interessate siano pedofile, poiché la pedofilia suppone l’idea fissa e il carattere ricorrente dei fantasmi sessuali che implicano i bambini.
Il fatto che il termine pedofilia designi una attrazione sessuale tende a far dimenticare che questa attrazione sia accompagnata, non sempre, ma frequentemente, da una attrazione affettiva. Esistono, così, molti pedofili innamorati. E, proprio perché amano i bambini,  alcuni fanno la scelta di non passare all’atto. Conviene, in tale caso, fare leva sull’esistenza di questo sentimento per aiutarli nella loro decisione di proteggere i bambini. Per alcuni pedofili, la loro attrazione fa parte integrante della loro personalità e vivono in armonia con questa. Per altri, la presenza di tale attrazione è un elemento perturbatore, fonte di angoscia, di colpevolezza e di vergogna.
Tutti i pedofili non passano, dunque, all’atto.
Per designare gli adulti che hanno relazioni sessuali con i bambini, alcuni utilizzano il termine pedosessuali. Un pedofilo non è, necessariamente, un pedosessuale e tutti i pedosessuali non sono, necessariamente, pedofili.
Gli “scarti”, passaggi all’atto incontrollati, riguardano, spesso, i pedofili passivi.
Ma possono essere atti pienamente volontari.
Si possono distinguere tre grandi tipologie di pedofili, in funzione del modo in cui si pongono rispetto al passaggio all’atto:
-         i pedofili astinenti, che hanno fatto una scelta voluta di non avere relazioni sessuali con i bambini;
-         i pedofili passivi, per i quali l’assenza di passaggio all’atto non è il frutto di una scelta voluta, ma il risultato di fattori indipendenti dalla loro volontà (inibizioni sessuali, paura della prigione o dell’esclusione);
-         i pedofili attivi, che sono pronti a passare all’atto (sia che ne attendano l’opportunità, sia che ne cerchino, attivamente, l’occasione, fornita da un numero più o meno grande di condizioni).
Si possono distinguere, così, tre grandi tipologie di pedosessuali:
-         i pedosessuali violenti, che non esitano a ricorrere a tutte le forme di costrizione: violenza, minacce, ricatto, manipolazioni. Non provano generalmente alcun rimorso né alcun sentimento per il bambino;
-         i pedosessuali non violenti, che preferiscono ricorrere alla astuzia e alla seduzione, ma sono indifferenti alle conseguenze psicologiche per il bambino;
-         i pedosessuali “in buona fede”, che pensano, sinceramente, che i rapporti sessuali, che i bambini accettano di avere con loro, non siano loro imposti e non misurano, dunque, la natura dei rischi che fanno loro correre.
Dati inquietanti ci indicano l’ampiezza del problema degli abusi sessuali commessi sui ragazzi. Come nel caso degli abusi sessuali commessi sulle ragazze, non è esagerato parlare di un flagello. Numerose ricerche recenti stimano che almeno un ragazzo su sei è vittima di abusi sessuali, con contatto fisico tra l’abusatore e la vittima, prima di raggiungere l’età di diciotto anni. Se la definizione dell’abuso sessuale è ampliata a comprendere l’esposizione precoce a giochi sessuali con persone adulte, a materiale pornografico e a esibizionismo, le cifre sono allora più elevate e vanno da uno su quattro a uno su tre.    
Le conseguenze dell’abuso sessuale non sono meno numerose, né meno serie, né meno invasive o ancora meno penose da vivere per l’uomo di quanto non lo siano per la donna. Nel numero degli effetti più frequentemente incontrati, menzioniamo l’ansia e la confusione identitaria e sessuale, l’amnesia della propria infanzia, la difficoltà, perfino, l’incapacità di dare fiducia a se stesso e agli altri, diversi disordini del sonno, la compulsione sessuale, la disfunzione sessuale, l’incapacità di sostenere l’intimità nelle relazioni, l’abuso di sostanze psicotrope, la sur-performance e la sous-performance a livello professionale, ecc. Tenuto conto dell’ampiezza delle conseguenze vissute, saremmo portati a credere che gli uomini ne parlerebbero e si consulterebbero molto di più per arrivare a sentirsi meglio nella loro pelle. In effetti, le componenti del processo di socializzazione dei ragazzi permettono di comprendere, meglio, la difficoltà degli uomini a ricorrere all’aiuto, in particolare, quando si tratta di abusi sessuali. Contribuiscono a fare in modo che gli uomini, nel corso del loro sviluppo, e questo, fino all’età adulta, tendano a negare il fatto che le esperienze sessuali precoci, che hanno vissuto, li abbiano grandemente disturbati. 
I messaggi che l’adolescente riceve, nel corso del suo sviluppo, lasciano, il più sovente, intendere, che l’uomo è, più difficilmente, percepito come vittima di un atto sessuale abusivo che non come autore potenziale di una aggressione. Inoltre, numerosi sono i messaggi che riceve il bambino che lo inducono ad accordare un valore positivo a ogni esperienza precoce della sessualità; tenta, così, di convincersi che fosse il caso, perfino in seguito ad abusi. Apprende, egualmente, che il maschio deve prendere iniziative in fatto di sessualità, pena non essere considerato un vero uomo. Anche qui, una trappola è tesa al bambino e, il più sovente, ne resterà prigioniero nell’età adulta. Non solo potrà interpretare i contatti sessuali dell’infanzia o dell’adolescenza, benché non desiderati, come esperienze che fanno parte di un percorso di vita particolare, perfino privilegiato, ma potrà anche tentare di convincersi di aver, forse, provocato lui stesso i contatti sessuali. Senza contare che, spesso, l’abusatore avrà tentato di rendere la sua vittima responsabile dei propri atti. Il bambino o adolescente abusato uscirà da queste esperienze con un grande senso di responsabilità che si trasformerà rapidamente in un senso di colpa. La vergogna, profondamente ancorata, di chi è e di quello che vive o ha vissuto lo invaderà così rapidamente.
L’impatto di queste esperienze sessuali, per le quali non aveva raggiunto la maturità fisica, affettiva ed emozionale adeguate, si lascia ancora sentire nell’età adulta, perfino avanzata. E la parola “impatto” è qui appropriata, poiché il bambino, che subisce una forma di abuso sessuale, si ritrova in uno stato di choc, che vive, il più sovente, da solo. La conseguenza degli abusi sessuali corrisponde, allora, alle onde che si riverberano, negli anni, nella camera scura e isolata, che diviene la vita della persona.
Il ragazzo apprende, così, che un vero uomo deve essere in grado di regolare i suoi problemi da solo… tutti i malesseri e tutta la confusione che accompagnano il vissuto degli abusi sessuali… deve vedervi chiaro da sé, sbarazzarsene con i propri mezzi, a rischio di non pervenire ad acquisire una percezione positiva da sé. Questa prescrizione sociale si rivela – e a ragione! – troppo pesante da assorbire e ne consegue, a vari gradi, una perdita della stima di sé, di fiducia in sé, un sabotaggio più o meno pernicioso e cronico della propria vita. L’uomo conosce, allora, tutti i tormenti della depressione e delle sue ramificazioni ed espressioni; o ancora, nella speranza di conservare l’immagine dell’uomo forte e controllato, non si dà accesso che all’emozione e al sentimento consentiti ai veri uomini: la collera e l’aggressività, con tutti gli atti delinquenziali e violenti a queste connessi.
Esige grande coraggio da parte degli uomini adulti aprirsi sul soggetto degli abusi sessuali di cui sono stati vittime. Quelli che lo fanno, e sono sempre più numerosi, hanno dovuto, spesso, attendere dieci, venti, trenta e, perfino, quaranta anni o più, prima di affrontare con altri il passato doloroso che hanno conosciuto nell’infanzia. Alcuni hanno tentato di farlo nel momento in cui gli abusi hanno avuto luogo o poco dopo, ma sono molto numerosi quelli che non ne hanno raccolto che biasimo e rimprovero, se non, puramente e semplicemente, rifiuto e incredulità.


Daniela Zini
Copyright © 7 ottobre 2012 ADZ


mercoledì 1 agosto 2012

IRAN IL PAESE DELLE ROSE IX. LA RIVOLUZIONE DIGITALE


“Viaggiare è il più personale dei piaceri. […]”
con questa frase Vita Sackville-West introduce i suoi ricordi di viaggio in Persia.

IRAN
il paese delle rose

“[…]
Hame-ye alam tanast va Iran del
Nist qaviyande zin qiyas khejel
[…]”
Nezami Ganjavi, Haft peykar

IX. La rivoluzione digitale
Tre anni dopo la rielezione contestata di Mahmud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica Islamica, il Jonbesh-e Sabz [Movimento Verde] è, sempre, verde?

di
Daniela Zini


“Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti.”
Shirin Ebadi [1947], La gabbia d’oro [2008]

Taraneh Mousavi [1991-2009]


a Gianmarco Murru, direttore di Mediterranea e mio Amico
“Dio ha dato un fratello alla speranza: si chiama ricordo.”
Michelangelo Buonarroti [1475-1564]
Molti, nel nostro tempo, forse, tutti, vogliono iniziare qualcosa, inventare cose nuove, aprire vie inedite e, talora, inaudite.
La mia ambizione è più modesta: finire, concludere.
Io non cerco di essere colei che ha indicato il cammino.


Primo Paese musulmano a essersi sollevato contro il proprio governo, nel giugno del 2009, l’Iran sembra, oggi, all’abbandono, confrontato ai successi della primavera araba. Tre anni dopo la rielezione contestata di Mahmud Ahmadinejad [1956] alla presidenza del Paese, che ha provocato la più grave crisi che abbia conosciuto la Repubblica Islamica, il movimento verde di contestazione sembra essere scomparso.
Ma non è così!
Lo scontento popolare e la frustrazione che hanno portato gli iraniani in strada, nel 2009 e nel 2010, non sono scomparsi e si sono, perfino, accentuati, ma l’esperienza deludente della rivoluzione del 1979 ha opposto molti iraniani nella prospettiva di un altro cambiamento brusco. Mentre la parola rivoluzione possiede, oggi, nelle strade arabe, anche una connotazione romantica, in persiano, è una parola che rappresenta il passato, non l’avvenire.
Disponendo, nel febbraio del 2011, gli arresti domiciliari per i due ex-candidati riformisti Mir-Hossein Mousavi Khameneh [1942] e Mehdi Karroubi [1937], il regime islamico ha realizzato un colpo da maestro, privando il movimento dei suoi due leaders. Da allora, più nessuna manifestazione ha galvanizzato il Paese. Il popolo iraniano non vuole una guerra civile, non vuole che la gente muoia. Sette anni di cattiva gestione del governo Ahmadinejad, associati alle sanzioni occidentali sul programma nucleare iraniano, hanno, considerevolmente, deteriorato la vita quotidiana degli iraniani, facendo della questione economica la principale preoccupazione della popolazione. Agli inizi di giugno, in seguito all’aumento del prezzo del pane e del latte, il cui costo è deciso dallo Stato, è circolato un sms sui cellulari:
“Sabato, domenica e lunedì [dal 23 al 25 giugno, N.d.T.], non acquisteremo né latte né pane, in segno di protesta contro il rincaro dei prezzi e l’inflazione. Restiamo uniti!”
Il tasso di inflazione, in Iran, ha raggiunto il 21,5%, il marzo scorso, secondo la banca centrale iraniana. E, con l’entrata in vigore, il primo luglio scorso, dell’embargo europeo sul petrolio iraniano, la situazione non potrà, innegabilmente, migliorare. Una situazione disastrosa che dovrebbe favorire la contestazione popolare.
Ma non è così!
Se le classi urbane hanno, particolarmente, sentito gli effetti di questi ultimi anni, l’erogazione di aiuti governativi ha permesso alle classi modeste di superarli.
Dove trova il governo tutti questi fondi?
La grazia salvifica del regime iraniano è il prezzo elevato del costo del petrolio. Il governo Ahmadinejad ha guadagnato, in sei anni, 500 miliardi di dollari grazie all’oro nero, vale a dire la metà delle entrate petrolifere guadagnate in tutta la storia dell’Iran. Se questa manna ha permesso al presidente di evitare la bancarotta, non gli ha impedito di essere, progressivamente, allontanato dal potere in favore dei più intimi della guida suprema. Mahmud Ahmadinejad non è, infatti, sfuggito alla sorte dei suoi predecessori: colui che si presentava come il “figlio” della guida suprema è stato spogliato dei suoi poteri, bloccato nelle sue iniziative, liberato alla muta di deputati ostili. Nel mese di marzo, ha subito il disonore di essere il primo presidente, dalla rivoluzione, a essere stato convocato dal parlamento. Anche lui sarà, dunque, inghiottito da questa rivoluzione che, dal suo inizio, divora i suoi figli l’uno dopo l’altro, i prodigi come i prodighi. Le ultime elezioni legislative hanno, infatti, coronato i conservatori moderati devoti all’ayatollah Seyyed Ali Hosseini Khamenei [1939], che hanno riportato il 54% dei seggi del parlamento rispetto agli ultraconservatori di Ahmadinejad. Nel suo ultimo anno di mandato, lo “spazzino” della Nazione, che non potrà ambire, di nuovo, alla presidenza, nel 2013, dovrà venire a patti con una maggioranza a lui ostile, che accusa, lui e i suoi consiglieri, di aver iniziato una corrente deviazionista, che cerca di limitare il ruolo politico del clero sciita. Quanto ai riformisti, totalmente eliminati, che avevano fatto appello a una astensione massiva, hanno gridato alla frode, apprendendo che il 64% degli elettori si era recato alle urne nelle 33 circoscrizioni iraniane. E, sono rimasti inebetiti, quando hanno appreso che l’ex-presidente e leader riformista, Seyyed Mohammad Khatami [1943], aveva votato in segreto, legittimando, di fatto, lo scrutinio.
“Nessun riformista si è candidato e io non ho votato nessun candidato, ho votato solo per la Repubblica Islamica.”
Il tasso di partecipazione ha raggiunto il livello record dell’80%, nelle elezioni presidenziali del 1997, che avevano dato la vittoria al riformista Mohammad Khatami. Dalla sua parte le donne e i giovani. In un clima di diffusa delusione per le riforme mancate, solo il 60% degli elettori aveva votato, nelle elezioni presidenziali del 2005, che aveva portato Mahmud Ahmadinejad al potere.


Alle mie Sorelle

Sorgete dietro la vostra libertà,
Sorelle mie, perché restate zitte?
Sorgete che dovete bere, d’ora in poi,
Il sangue degli uomini tiranni.

Reclamate i vostri diritti, o mie Sorelle,
Da coloro che vi chiamano deboli,
Da coloro che con cento inganni e artifici
Vi relegano in un angolo della casa.

Fin quando sarete oggetto della voluttà e del piacere
Nell’harem della lascivia dell’uomo?
Fin quando prostrerete la vostra orgogliosa testa
Ai suoi piedi come umili schiave?

Questo lamento di rabbia deve diventare,
Senza dubbio, urlo e grido.
Dovete spezzare queste pesanti catene
Affinché la vita si liberi a voi.

Sorgete ed estirpate la radice dell’oppressione,
Date quiete al cuore pieno di sangue,
Battetevi per garantire
La legge per la vostra libertà.

Forugh Farrokhzad [1935- 1967]
traduzione dal  persiano di Assunta Daniela Zini
Copyright © 2012 ADZ

“Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi a me solo, non alle nozze della figlia o alla notte con l’amante o alle insidie del nemico o al processo o alla casa o al podere o al tesoro; e almeno finché legge, voglio che sia con me.
Se è preoccupato dai suoi affari, differisca la lettura; quando si avvicinerà a essa, getti lontano da sé il peso degli affari e la cura del patrimonio...
Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho scritto.”
Francesco Petrarca [1304-1374], Fam., XIII, 5, 23
Le donne hanno sempre avuto un passato da portare e un silenzio difficile da vivere, un giardino segreto dove nascono i fiori della speranza, quella cantata da Omar Khayyam [1048-1131] “zefiro di primavera sulla fronte delle rose” e da Hafez [1315-1390] “giardino, primavera e dolce commercio”. Ad alcune di loro la vocazione poetica non deve essere stata estranea, come non può mancare dove i sentimenti sono intensi e la coscienza è chiara. Nel filare, tessere, ricamare, cucinare, arredare, educare, favoleggiare, avevano occasione di percepire i segnali estetici che ai loro padri, fratelli, mariti, provenivano dall’armare navi, elevare templi, compiere massacri.
In una creatura che è stata programmata per essere dominata, l’intelligenza è una qualità scomoda da scoraggiare sul nascere, per non darle modo di prendere coscienza di sé. Al contrario, viene celebrata la superiorità dell’intuito femminile perché a chi domina fa molto comodo che i propri desideri siano compresi, ancora prima di essere formulati, e soddisfatti da una creatura condizionata ad anteporre i bisogni altrui ai propri e, spesso, a scapito dei propri.
La parità di diritti con l’uomo, la parità salariale, l’accesso a tutte le carriere sono obiettivi innegabili e, almeno sulla carta, sono, già, stati offerti alle donne nel momento in cui l’uomo lo ha giudicato conveniente. Resteranno, tuttavia, inaccessibili alla maggior parte di loro finché non saranno modificate le strutture psicologiche che impediscono alle donne di desiderare fortemente di farli propri. Sono queste strutture psicologiche che portano la persona di sesso femminile a vivere, con un senso di colpa, ogni suo tentativo di inserirsi nel mondo produttivo, a sentirsi fallita come donna, se vi aderisce, e a sentirsi fallita come individuo, se, invece, sceglie di realizzarsi come donna.
Non mi rammarico, certo, di essere nata donna, al contrario, ne traggo grande soddisfazione. Di solito mi sono sentita bene nella mia pelle e ho avuto fiducia nella mia buona stella. Ho, anche, spinto la mia fiducia nell’avvenire fino alla sventatezza: non avevo creduto alla guerra prima che scoppiasse. Adesso sto più attenta. Mi piace guardare in volto la realtà e parlarne senza abbellirla. Non sopporto l’infelicità e sono poco incline a prevederla; quando la incontro, mi indigna e mi sconvolge e provo il bisogno di comunicare la mia emozione. Per combatterla, bisogna, prima, rivelarla, e, pertanto, dissipare le mistificazioni, dietro le quali si nasconde per evitare di pensarvi. È proprio perché rifiuto le evasioni e le menzogne, che mi si accusa di pessimismo, ma questo rifiuto implica una speranza: che la verità può essere utile. È un atteggiamento più ottimistico che non scegliere l’indifferenza, l’ignoranza, le false apparenze. Dissipare le mistificazioni, dire la verità, è uno dei fini che ho, più ostinatamente, perseguito. Questa ostinazione ha le sue radici nella mia infanzia, non ho mai tollerato la stupidità: un modo per soffocare la vita e le sue gioie sotto i pregiudizi, le abitudini mentali, le false apparenze, le frasi vuote. La mia educazione mi aveva inculcato l’inferiorità intellettuale del mio sesso, inferiorità che molte delle mie coetanee ammettevano rispetto agli studenti maschi e che conferiva maggiore pregio ai miei successi. Mi era sufficiente eguagliarli per sentirmi eccezionale. In realtà, non ne avevo incontrato nessuno che mi avesse sbalordito. L’avvenire mi era aperto in misura eguale a loro. Non avevano alcun vantaggio su di me, né, d’altronde, lo pretendevano. Mi trattavano senza condiscendenza, anzi con una gentilezza particolare, poiché non vedevano in me una rivale. La loro simpatia mi evitò, sempre, di assumere quell’atteggiamento di sfida che trovo così sgradevole nelle donne americane. Gli uomini sono stati per me compagni, non avversari. Lungi dall’invidiarli, la mia posizione, in quanto singolare, mi sembrava privilegiata. Non ho mai rinnegato la mia femminilità. Mi piccavo di riunire in me un cuore di donna e un cervello di uomo.
Ogni parola che scrivo mi allontana un poco di più da quel che volevo esprimere in principio, ciò prova soltanto che il coraggio mi manca.
Per me, la scelta è fatta.
Si tratta di mentire o dimettersi.
Questo breve détour non è, forse, stato che un modo per differire una decisione presa nel 2003.
È nell’intento di ritrovare, a posteriori, una unità e una origine in una sorta di implosione primaria da cui tutto deriverebbe?
Forse.
Si invidia la mia libertà che si esagera, del resto. La vita fa in fretta a creare legami, che prendono il posto di quelli di cui ci credevamo liberati. Che si faccia e ove si vada, muri si levano intorno a noi e grazie a noi, riparo all’inizio e, ben presto, prigione. Che ne dicano o ne pensino Altri, io vado a raggiungere il gruppo, vagamente bieco, dei saltimbanchi e dei bohémiens di ogni genere, come avrebbe, senza dubbio, redarguito mia nonna: io sarò scrittore. Nomade ero, quando da fanciulla sognavo, guardando le strade, nomade resterò, per sempre innamorata di mutevoli orizzonti, di paesaggi ancora inesplorati…
La mia infanzia è trascorsa tra le rovine grigie, tra i ruderi e la polvere di un passato a me completamente ignoto. Estranea, malinconica tra tutte le bambine della mia età, dalla tetra imponenza di quei luoghi ho tratto un eccesso di fatalismo e di sogno.
Il mio padrino mi aveva, profeticamente, dato il diminutivo di Firouzeh.
Scrivo perché mi piace il processo creativo letterario, scrivo come amo, perché questo è il mio destino, la mia sola vera consolazione. Il mio destino letterario è ancorato a ciò che io ho designato, per tutta la mia vita, i miei progetti dei venti anni. A venti anni, avevo previsto circa due o tre dei miei libri e avevo iniziato a imbrattare molta carta. Allora, beninteso, mi ero caricata di un fardello che non potevo portare.
Sono certa che Mediterranea resterà fedele alla sua storia e formulo auspici per la sua indipendenza e prosperità. Lo show dell’attualità continua, anche Mediterranea. Tante ragioni, dunque, per restare collegati sul pianeta con Mediterranea. L’attualità continua e il 2012 promette delle belle bagarres elettorali e, forse, ahimè, altri conflitti.
L’Iran?
L’Iran evoca, oggi come ieri, l’immagine di un mondo molto lontano e misterioso.
Amo l’Iran di un amore oscuro, misterioso, profondo, inspiegabile, ma reale e indistruttibile. Dovrei, invece, trovare la forza di sottrarmi a questa malia…
Ma dove trovare il coraggio di reagire?
È un sentimento particolare... mi sembra di costeggiare un abisso, un mistero di cui non sia stata, ancora, svelata l’ultima… anzi, la prima parola, e che racchiuda tutto il senso della mia vita. Finché non conoscerò la chiave di questo enigma, non saprò chi sono, né la ragione e lo scopo della mia sorte davvero straordinaria.
Vi sono particolari momenti, misteriosamente privilegiati, in cui taluni Paesi ci rivelano, con una intuizione subitanea, la loro anima, in qualche modo, la loro essenza precipua, in cui ne cogliamo una visione esatta, unica, che, mesi e mesi di studio paziente, non potrebbero rendere più completa, né diversa. In questi momenti furtivi, tuttavia, ci sfuggono, necessariamente, dei dettagli, vediamo solo l’insieme delle cose.
Particolare stato d’animo o aspetto speciale dei luoghi, colto al volo e sempre in modo inconscio?
Non lo so…
Vi è stato un tempo in cui ero triste e anche un poco malata, con una inerzia intellettuale che mi faceva rabbia. Avevo avuto una di quelle crisi morali che lasciano l’animo abbattuto, come ripiegato su se stesso, a lungo incapace di percepire le impressioni gradevoli, sensibile solo al dolore…
Mi venne l’idea di scrivere fiabe per i miei Amici.
I miei libri sono nati così.
In civiltà intimamente in contatto con le forze elementari della natura, la fiaba non poteva che avere un grande ruolo: evocare, esorcizzare e fornire una chiave di lettura per quei fenomeni naturali e soprannaturali, che tanta parte avevano nella vita di ognuno. L’arte di raccontare fiabe, dicono alcuni, è morta e appartiene al passato. E le tradizioni orali sono destinate a perdersi per sempre, quando la vena si inaridisce e i tempi mutano, se qualcuno non inizia, con amore e pazienza, a raccogliere le ultime testimonianze disponibili.
Vi chiederete perché mai io, che non sono una orientalista, che mi ritengo, ragionevolmente, onesta, abbia ritenuto di scrivere dell’Iran.
Non ho commesso, forse, una indegnità, chiamando il pubblico a parte di questa mia deliziosa allucinazione che non posso mai rammentare senza commozione e senza rimpianto?
No, perché la percezione degli abissi, che la vita racchiude e che i tre quarti degli uomini ignorano, anzi, neppure sospettano, non può essere considerata follia, come non può esserlo il disinteresse di chi è nato cieco alla bellezza di un tramonto o di una notte stellata.
È facile tranquillizzare l’anima timorosa, turbata dalla vicinanza dell’Ignoto, con una spiegazione banale, attinta dalla falsa esperienza degli uomini e dal senso comune, accozzaglia informe di idee sconclusionate, cognizioni superficiali e ipotesi scambiate per realtà dalla incommensurabile vigliaccheria morale degli uomini!
Se la mia strana vita fosse il risultato dello snobismo, della posa, si potrebbe dire:
“Lo ha voluto lei…”
Invece no!
Mai essere umano ha vissuto più di me alla giornata ed è stato un inesorabile concatenarsi di eventi, non creati da me, a condurmi nel punto in cui mi trovo. Forse, tutta la stranezza della mia natura si riassume in questa caratteristica: cercare, a ogni costo, fatti nuovi, fuggire l’inazione e l’immobilità. Probabilmente non è assente una certa megalomania, una innocua esaltazione da lettrice di libri, il piacere di indulgere in una lussuosa stravaganza. Ma sospetto vi sia un richiamo più cattivante e sottile: il bisogno di sperimentare l’errore, in tutti i sensi di questa ambigua parola, un vagabondaggio mentale, la vocazione della strada sbagliata, della segnaletica infedele, della mappa disorientante. Il mio tentativo ha una scusante: le circostanze che lo hanno determinato. Ogni riflesso che tornava, tutte le sere, allo stesso posto, alla stessa ora, ogni cupola della città e ogni pietra del cimitero, tutti i più umili particolari di questa Patria di elezione, tanto amata, mi sono divenuti familiari e rimangono presenti nel ricordo nostalgico dell’esilio. Tutto l’odore del passato mi saliva alla testa. E ho chiuso gli occhi per respirarlo meglio e per rivedere dentro di me tutto ciò che era scomparso. Ma l’anima del Paese delle Rose mai si è rivelata più profondamente, più misteriosamente di quelle sere, già lontane nel retrocedere dei giorni.
Quelle ore, quelle ebbrezze provate una volta, per un caso straordinario, non le ritroverò più…
E, così, sono condannata a portare con me, per sempre inespressa, la mia infinita tristezza, tutto un mondo di pensieri, attraverso i Paesi e le città della terra, senza mai trovare l’Itaca sognata!
Ho voluto tentare di scrivere ciò che, ieri, mi ha fatto tanto soffrire e mi sembrava chiaro e indiscutibile…
Colei che vi apre le porte del Libro Mirabile, conosce tutto ciò che incontrerete; conosce le risposte agli enigmi; scioglie gli indovinelli; disperde gli incantesimi; riconosce chi si nasconde in un corpo, che una magia ha trasformato; rintraccia le strade dei pellegrini; sa dove approdano i naufraghi e quali segnali svelino e nascondano le severe bizzarrie del Fato.
Vi sono Paesi che muoiono giovani o si arrestano giovani: tutto ciò che segue al loro periodo di vigore riguarda la sopravvivenza o la resurrezione. L’Iran non si è, mai, ripreso dalle estenuanti fatiche delle sue avventure imperiali. E, solo ora, iniziamo a comprendere ciò che in questo Paese commuove e, a volte, sconvolge: in contatto diretto con la realtà, il peso bruto dell’oggetto, l’emozione o la sensazione forte e semplice, antica e sempre nuova, dura o dolce come la scorza o come la polpa di un frutto.
Questo Paese, così celebrato, è, meravigliosamente, immune da artifici letterari; lo stesso preziosismo di certi suoi poeti non la tocca.
Questo Paese, da cui sono scaturiti tanti capolavori, non viene sentito come l’Italia, subito Patria privilegiata delle arti, ma vi pulsa la vita come il sangue in una arteria.
Pochi Paesi sono stati più devastati dal furore delle guerre di religione, di razze e di classi; sopportiamo il ricordo di tanti furori inespiabili solo perché, qui, ci appaiono più nudi, più spontanei e meno ipocriti che altrove, quasi innocenti nel confessare il piacere che prova l’uomo a fare del male all’uomo.
Non vi è Paese più dominato da una religione possente, che favorisce, il più delle volte, la bigotteria e l’intolleranza, ma non vi è neppure Paese, ove si senta di più, sotto il broccato delle devozioni o sotto la pietra dei dogmi, sorgere il fervore umano.
 Non vi è Paese più legato, ma anche nessuno più libero da questa rudimentale e suprema libertà fatta di privazione, di povertà, di indifferenza, del gusto di vivere e del disprezzo di morire.
Aspetti tranquilli di un Paese senza età e senza troppo carattere.
Oggi, so che mai sarò, totalmente, separata, tagliata da questa terra.

Daniela Zini





Shirin Ebadi
Premio Nobel per la Pace 2003

پدر مرا ببخش که قدرت را ندانستم.
پدر مرا ببخش که در سالهای سختی که علیه رژیم ستم شاهی‌ مبارزه می‌‌کردی ترا یاری نکردم زیرا ابلهانه می‌‌پنداشتم، حکومتی که مجهزترین ارتش خاور میانه را دارد با فریاد چند روحانی ساقط نخواهد شد - حتما به یاد می‌‌آوری که حتی تا چند ماه مانده به پیروزی انقلاب، تعداد روحانیونی که مخالف شاه بودند، تا چه حد اندک بود- شاید هم از ترس چنین می‌‌اندیشیدم و می‌‌خواستم بی‌ تفاوتی خود را توجیه کنم.
پدر مرا ببخش، زمانی‌ که پس از تحمل سالها زندان و شکنجه، آزاد شدی برای تبریک به دست بوست نیامدم زیرا که جاهل بودم. نمی‌‌دانستم در زندان تو تنها پناهگاه زندانیان بودی. نمی‌‌دانستم چه نقش مهمی‌ در نزدیک ساختن گروههای مسلمان مبارز و چپ انقلابی‌ داشتی.
پدر مرا ببخش، زمانی‌ که همراه آیت الله خمینی به تهران آمدی و مهمترین مشاور سیاسی رهبر انقلاب بودی، درایت و تیزهوشی ترا نادیده گرفتم و معنای سخنانت را نمی‌‌فهمیدم.
پدر مرا ببخش، هنگامی که در آذر ماه ۱۳۶۴ طبق تصمیم مجلس خبرگان رهبری، به عنوان جانشین امام خمینی و رهبر آینده ایران انتخاب شدی، برای تبریک نزدت نیامدم زیرا می‌‌پنداشتم که دین را به دنیا فروخته ای. بیشتر دوست داشتم ترا مجاهد و مبارز ببینم تا حاکم.
پدر مرا ببخش، در سالهای ۶۶ و ۶۷ که به کشتار زندانیان سیاسی اعتراض کردی و انتقادات خود را به عملکرد غلط حکومت علنا بیان کردی، هر چند سخنانت را شنیدم، اما واکنشی در خور نشان ندادم.
پدر مرا ببخش، سالها در حبس خانگی بودی ولی‌ به علت سکوت مرگباری که ایران را فرا گرفته بود و خفقانی که گلوی ما را می‌‌فشرد، مظلومیت ات را فریاد نزدم و ستمگران را رسوا نکردم.
پدر حلالم کن، که هر گاه از پاسخ در می‌‌ماندم، از خرمن دانش تو توشه بر می‌‌گرفتم، حتی در آخرین روز عمر پر عزتت نیز از تو استفتأ کردم.
ترا پدر می‌‌خوانم، زیرا حمایت از زندانیان سیاسی را از تو فرا گرفتم که بخاطر آنان از کلیه مناصب دولتی و حتی رهبری حکومت جمهوری اسلامی ایران چشم پوشیدی - ترا پدر می‌‌خوانم زیرا از تو آموختم چگونه از مظلوم دفاع کنم بدون آن‌ که علیه ظالم دست به خشونت زنم - از تو یاد گرفتم که سکوت مظلوم یاری رساندن به ظالم است و نباید که ساکت بنشینیم - پدر فراوان از تو آموختم، هر چند که رسم شاگردی و فرزندی را به جا نیاوردم.
تو پدر “حقوق بشر” در ایران هستی‌ و میلیون‌ها چون من فرزند و مرید داری. نیازی هم به قدر دانی‌ و سپاس ما نداری. اما همه ما در حق تو کوتاهی کردیم و مقصریم.
پدر ما را ببخش که تو بزرگواری. پدر کوتاهی فرزندانت را تاریخ جبران خواهد کرد. تاریخ در مورد ستمی که بر تو رفت و آزاده گی تو کتاب‌ها خواهد نوشت. تو در یادها زنده هستی‌ تا عدالت و انسانیت زنده است.
یکی‌ از میلیون‌ها مرید و شاگردت
شیرین عبادی

Padre perdonami, per non aver compreso il tuo valore.
Padre perdonami, per non averti aiutato negli anni difficili in cui tu ti battevi contro il regime dispotico dello shah perché, ingenuamente, credevo che un regime, che disponeva dell’esercito meglio equipaggiato del Medio Oriente, non potesse soccombere ai proclami di un qualche religioso.
Certamente, tu ricordi quanto fosse esiguo, fino all’ultimo mese, prima della vittoria della rivoluzione, il numero dei religiosi che si opponevano allo shah.
Forse, io paventavo questo timore e volevo, egualmente, darmi una giustificazione.
Padre, perdonami, quando, dopo aver sopportato anni di carcere e di tortura, tu sei stato liberato, io non sono venuta a baciare la tua mano per felicitarmi, perché ignoravo.
Io non sapevo che, durante la tua prigionia, tu eri stato il solo conforto per i prigionieri.
Io non sapevo quale ruolo determinante tu avessi avuto nella ricomposizione dei gruppi combattenti musulmani e dei rivoluzionari di sinistra.
Padre perdonami, quando tu sei tornato a Tehran, insieme all’ayatollah Khomeini, ed eri il più importante consigliere politico della guida della rivoluzione, io sottovalutavo la tua intelligenza e il tuo acume e non comprendevo il significato delle tue parole.
Padre perdonami, quando nel mese di azar del 1364 [1985, N.d.T.], per decisione dell’assemblea degli esperti, tu fosti designato quale successore dell’imam Khomeini e futura guida dell’Iran, io non sono venuta da te per felicitarmi perché pensavo che tu avessi venduto la religione al mondo.
Preferivo vederti campione e paladino della fede piuttosto che capo di Stato.
Padre perdonami, negli anni 1366 e 1367, in cui tu condannavi il massacro dei prigionieri politici e criticavi, apertamente, il malevolo operato del governo, nonostante avessi udito le tue parole, io non ho reagito come era dovuto.
Padre perdonami, tu sei stato, per anni, agli arresti domiciliari, ma, a causa del silenzio di morte, che percorreva l’Iran, e la stretta che serrava le nostre gole, io non ho levato la mia voce contro la tua condizione di oppresso e non ho coperto di vergogna gli oppressori.
Padre assolvimi, perché, ogni volta, che ho avuto bisogno di risposte, dalla summa del tuo sapere io ho tratto insegnamento, fino all’ultimo giorno della tua vita gloriosa, io cercavo in te risposte.
Io ti chiamo Padre, perché da te io ho appreso a proteggere i prigionieri politici, per i quali tu rinunciasti a tutte le cariche governative e, perfino, alla guida del governo della Repubblica Islamica dell’Iran.
Io ti chiamo Padre, perché da te io ho appreso come difendere gli oppressi, senza mai ricorrere, tuttavia, alla violenza contro l’oppressore.
Da te io ho appreso che dal silenzio dell’oppresso l’oppressore trae vantaggio e che non dobbiamo restare in silenzio.
Padre, da te io ho appreso molto, anche se io non ho assolto il dovere di una allieva né di una figlia.
Tu sei il Padre dei Diritti Umani e hai milioni di figli e di discepoli come me.
Tu non hai bisogno del nostro incensamento né del nostro ringraziamento. Ma tutti noi abbiamo fallito e siamo colpevoli nei tuoi confronti.
Padre perdonaci, perché tu sei grande.
Padre, la Storia compenserà il fallimento dei tuoi figli.
La Storia scriverà libri sull’oppressione che tu hai subito e sulla tua libertà.
Tu vivrai nella memoria, finché giustizia e umanità vivranno.
Una dei tuoi milioni di fedeli e discepoli.

Shirin Ebadi

Shirin Ebadi, Lettera al grande ayatollah Hossein Ali Montazeri, 20 dicembre 2009.
traduzione dal persiano di Assunta Daniela Zini
Copyright © 2012 ADZ


Hossein Ali Montazeri [1922-2009]


“Il web restituisce all’Iran l’immagine che merita nel mondo. Ve ne è bisogno, perché, mentre i giovani di Tehran si adoperano contro la censura del regime, a Parigi o a Londra, mi accade ancora di sentirmi chiedere se sono l’unica avvocata del mio Paese.”
Shirin Ebadi
La relazione tra internet e dissidenza non data dai blogs. Già, alla fine degli anni 1990, è, in gran parte, grazie a una astuta campagna su internet che i ribelli zapatisti del Sud del Messico poterono attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla loro situazione disperata.
Dopo le elezioni presidenziali del 2009, la stampa internazionale si era interessata ai bloggers iraniani, che utilizzavano questo mezzo per far sentire la voce della contestazione. Numerosi erano gli internauti che facevano circolare l’informazione, nonostante la censura, in particolare attraverso Donbaleh e Balatarin, piattaforme in persiano di condivisione di links verso siti o blogs.
Partigiani di Mir-Hossein Mousavi Khameneh come sostenitori di Mahmud Ahmadinejad, tutti avevano aperto blogs sul web.      








Con più di 36 milioni di internauti per 75 milioni di abitanti, l’Iran è il quarto Paese al mondo per numero di bloggers. Internet è, tuttavia, un’arma a doppio taglio: se offre agli oppositori iraniani la possibilità di farsi sentire e mobilitarsi, dà, egualmente, al governo il mezzo per sorvegliarli, braccarli e arrestarli. Durante l’ondata di repressione che ha seguito le elezioni, i computers personali degli attivisti erano stati confiscati. I tribunali rivoluzionari si erano, poi, serviti delle “prove”, così raccolte, per condannare a lunghe pene detentive gli “istigatori di una guerra contro Dio”. 
Per il generale Mohammad Ali Jafari, capo delle guardie della rivoluzione islamica [sepah-e pasdaran-e enqelab-e eslami, meglio note con l’espressione guardiani della rivoluzione o, dal persiano, pasdaran], l’Iran conosce “uno stato di guerra virtuale” più pericoloso di un confronto militare. Quanto alla guida suprema, l’ayatollah Seyyed Ali Hosseini Khamenei, chiama i “giovani soldati” a combattere coloro che “diffondono voci e menzogne e seminano il dubbio e la divisione in seno alla Nazione”. Un numero crescente di agenzie di stampa, perfettamente equipaggiate e generosamente finanziate, ripetono, fino alla noia, la visione di una Nazione potente, vittima di complotti, fomentati da implacabili nemici dell’Iran. Il regime rigetta la colpa di tutti i problemi domestici sull’estero, in particolare sugli Stati Uniti e il Regno Unito e sui nemici interni al servizio di interessi stranieri.


La lotta contro questa cybercospirazione si gioca, anche, sul terreno della vita reale.
Il regime iraniano accusa gli occidentali di utilizzare il web per condurre una “guerra non dichiarata”, che mira a destabilizzarlo e prepara un’internet completamente controllata e nazionalizzata, decisamente ristretta, che tagli fuori del mondo il popolo iraniano e si sostituisca ai servers e ai motori di ricerca stranieri.
Il 10 giugno scorso, il capo della polizia per le tecnologie dell’informazione, Kamal Hadianfar, annunciava che l’Iran avrebbe bloccato l’accesso attraverso il protocollo VPN [Virtual Private Network]. Secondo lo stesso Hadianfar, “tra il 20 e il 30% degli internauti iraniani usa una connessione VPN”, che permette l’accesso a social networks, quali Facebook, Youtube o Twitter, e a migliaia di siti stranieri bloccati dalle autorità, di cui numerosi siti di opposizione iraniani o di media occidentali. “Una commissione è stata costituita [in seno alla polizia per le tecnologie dell’informazione] per bloccare tutte le VPN illegali”, soggiungeva, precisando che “alcuni utilizzatori come le banche, i ministeri, gli organismi statali o le compagnie aeree” avrebbero potuto continuare a usare la connessione VPN per le loro attività.
Le autorità impediscono, regolarmente, l’accesso a internet, riducendo o tagliando la banda passante disponibile, particolarmente, in periodi di tensioni politiche. Il regime può contare sulle tecnologie occidentali. La società Nokia-Siemens Networks e l’impresa irlandese Adaptive Mobile Security Limited, figurano tra i gruppi che hanno fornito, alla fine del 2008, alla compagnia telefonica monopolistica iraniana la tecnologia che permette l’uso di Deep Packet Inspection per leggere o addirittura modificare il contenuto di ogni cosa, dalle “mails e le telefonate su internet alle immagini e ai messaggi sui siti di social networks, quali Facebook o Twitter”. In effetti, la percezione che la finlandese Nokia avesse fornito tecnologia, che permettesse “alle autorità non solo di bloccare la comunicazione, ma anche di monitorarla per ottenere informazioni sui cittadini e alterare i vari messaggi, perseguendo l’obiettivo della disinformazione” era abbastanza diffusa tra gli iraniani, nel periodo immediatamente successivo alle elezioni, tanto da tradursi in un vero e proprio boicottaggio dei prodotti con il marchio di Espoo. Nella risoluzione del 10 febbraio 2010, il parlamento europeo aveva criticato “fermamente le imprese internazionali, segnatamente la Nokia-Siemens, che forniscono alle autorità iraniane la tecnologia necessaria per le operazioni di censura e di sorveglianza e assecondano, così, le persecuzioni e gli arresti di dissidenti iraniani” [http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P7-TA-2010-0016+0+DOC+XML+V0//IT].

 


Più recentemente, una società israeliana, la Allot Communications Limited, con sede a Hod-Hasharon, avrebbe inviato, per cinque anni, un sistema di monitoraggio del traffico su internet, chiamato NetEnforcer, alla compagnia danese RanTek A/S che, una volta, rimosse le etichette originali, lo avrebbe spedito in Iran [http://www.bloomberg.com/news/2011-12-24/iran-sales-sink-allot-as-lawmaker-seeks-probe-israel-overnight.html]. Le società israeliane non possono realizzare alcun tipo di transazione finanziaria con il regime iraniano, ma la Allot Communications Limited, sarebbe riuscita ad aggirare i divieti tramite il distributore danese. Il sistema sarebbe stato usato per bloccare il traffico in rete, intercettare mails e sms e, perfino, cambiarne i contenuti, per identificare gli utenti di internet e consentire alle autorità di arrestarli. Il direttore esecutivo della Allot Communications Limited, Rami Hadar, sostiene, in un comunicato, che il sistema non sarebbe designato per scopi di sorveglianza intrusiva”, ma solo per “l’ottimizzazione del traffico su internet”. Inoltre, prosegue, sempre, nel comunicato, il sistema sarebbe “stato venduto al distributore danese come viene venduto a migliaia di distributori e a decine di migliaia di clienti in tutto il mondo” e non vi sarebbe “alcun modo di sapere dove giunga”. Le autorità di Copenaghen invece, secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, sarebbero in possesso dei registri delle transazioni con l’Iran.
Il caso Allot Communications Limited ricorda quello della società californiana Blue Coat Systems Incorporated, che ha venduto alla Siria dispositivi, che consentono di filtrare il traffico di internet e, quindi, di censurare i contenuti in rete. Il governo americano vieta di fornire tali soluzioni alla Siria, dove, nel frattempo, oltre 17mila persone [11.815 i civili] sono state uccise, dall’inizio della rivolta contro il regime, come riferisce l’osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo le dichiarazioni della compagnia, la destinazione finale dei quattordici dispositivi di Blue Coat Systems ProxySG 9000, imbarcati dal porto di Rotterdam, in Olanda, verso Dubai, alla fine del 2010, sarebbe stata il ministero delle comunicazioni iracheno. Una volta approvato l’ordine e imbarcato il carico per Dubai, la Blue Coat Systems Incorporated avrebbe smesso di seguire il destino dei dispositivi. Una svista non trascurabile, giacché violare, deliberatamente, l’embargo, rende passibili di una multa fino a un milione di dollari. In seguito, le apparecchiature erano state rivendute al regime siriano, che non può, ufficialmente, procurarsele, in ragione di un embargo, imposto, dal 2004, dal governo degli Stati Uniti, noto come Syrian Accountability Act. Erano stati rinvenuti i segnali di tredici dispositivi in uso del regime siriano, mentre si erano perse le tracce del quattordicesimo. Nell’agosto del 2011, il sito francese Reflets.info  [http://reflets.info/bluecoats-role-in-syrian-censorship-and-nationwide-monitoring-system/, http://reflets.info/bluecoats-presence-in-syria-finally-uncovered/] aveva denunciato l’accaduto e pubblicato una serie di documenti, ottenuti in collaborazione con il gruppo Telecomix, composto per lo più da hackers, che amano definirsi hacktivisti, che dimostravano l’utilizzo da parte del regime siriano di prodotti della Blue Coat Systems Incorporated. Inizialmente, la società aveva negato di aver venduto la propria tecnologia alla Siria, ma, di fronte alle prove, aveva dovuto ammettere che tredici Blue Coat Systems ProxySG 9000 risultavano in uso in Siria. La compagnia non è nuova ad affari con governi autoritari: secondo Ron Deibert, direttore del Citizen Lab, centro di ricerca sul web dell’Università di Toronto, la Blue Coat Systems Incorporated avrebbe venduto dispositivi simili anche al governo birmano.
In entrambi i casi, Nokia-Siemens Networks e Allot Communications Limited, i divieti di vendita hanno fallito, rimettendo in questione la efficacia delle regolamentazioni vigenti.
Lo scorso febbraio, Le Canard Enchaîné rivelava che il gruppo francese Bull, di cui fa parte la società francese Amesys, possiede una succursale, in Iran, da alcuni anni. Amesys è ben conosciuta per vendere a governi non molto democratici soluzioni per censurare il web.
Le società esportatrici di software hanno, a lungo, giocato la carta di non conoscere i propri clienti. Ciò non è più accettabile. Le società debbono conoscere i propri clienti e debbono essere tenute responsabili dei propri atti. È l’allarme lanciato dalla Electronic Frontier Foundation, associazione americana per i diritti digitali, che chiede alle imprese di assumersi la piena responsabilità degli usi che i governi fanno dei loro prodotti.
Il 27 settembre scorso, il parlamento europeo, ha approvato una risoluzione che impone alle società europee autorizzazioni più severe per esportare in India, Russia, Cina e Turchia “tecnologie di telecomunicazioni che possono essere utilizzate in relazione a una violazione dei diritti umani, dei principi democratici o della libertà di espressione”.
Numerosi Paesi del Nord dell’Africa e del Medio Oriente, quali la Tunisia e l’Egitto, che hanno, recentemente, conosciuto delle rivolte, sfruttano la tecnologia occidentale per individuare e bloccare l’opposizione su internet. Le società tecnologiche occidentali, quali Amesys e Narus, rispettivamente filiali della francese Bull e dell’americana Boeing, avrebbero aiutato, nel 2011, il regime caduto di Muammar Gheddafi [1942-2011], fornendogli tecnologia che consentiva di spiare e censurare la popolazione libica.
Cosa dedurre da tutto ciò?
In primis, gli spazi in cui si discute dell’avvenire dell’Iran, sono armi a doppio taglio.
In secundis, l’Iran è il solo Paese del Medio Oriente dove, di fronte alla corruzione, alla tirannia e al cattivo governo, gli abitanti non hanno il lusso di poter accusare il loro regime di essere sostenuto dagli Stati Uniti – contrariamente all’Arabia Saudita, all’Egitto, ecc. –.
Spenti i riflettori sulla violenta repressione delle manifestazioni contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, l’Iran non è più evocato sulla scena internazionale che per il suo programma nucleare. È vero che le rivoluzioni arabe, come la tragedia che si svolge, attualmente, in Siria o dell’imbroglio militaro-islamo-politico, che tiene l’Egitto e il mondo con il fiato sospeso, hanno eclissato il resto dell’attualità nelle regioni del Nord dell’Africa e del Medio Oriente. È, tuttavia, difficile credere che le potenze occidentali e i loro alleati nella regione, che hanno, apertamente, appoggiato l’opposizione durante le manifestazioni, abbiano rinunciato alle loro velleità di rovesciare il regime dei mollah. La caduta del regime iraniano con un sollevamento interno, che è fallito tre anni fa, resta l’approccio meno costoso e più politicamente corretto per le grandi capitali e i grandi capitali occidentali. Un tale scenario permetterebbe di regolare il problema del programma nucleare militare iraniano, di evitare una grande minaccia all’alleato israeliano e di far piacere all’amico saudita, che non vedrebbe di buon occhio una ascesa di potere del secolare nemico persiano. 

Maryam Rajavi [1953]

Ora, un tale scenario è dei più probabili.
Si tratterebbe, in qualche modo, di uno straripamento geografico delle primavere arabe, di cui uno dei più sanguinosi si svolge al momento in Siria, alle frontiere dell’Iran. Esistono indizi che corroborano una tale tesi, anche se sono passati inosservati. Il primo giugno scorso, la United States court of appeals for the district of Columbia circuit [http://www.ncr-iran.org/fr/images/stories/200/iranliberation3/4/il398.pdf] ha ordinato al segretario di Stato Hillary Rodham Clinton [1947] di decidere, entro quattro mesi, sulla rimozione del sazman-e mojahedin-e khalq-e iran, la più importante componente dell’opposizione iraniana dal 1997, conosciuta con l’acronimo MEK, dalla lista americana delle organizzazioni terroriste.
Inutile dire che, prima della fine di settembre, questa organizzazione laica, che ha svolto un ruolo essenziale nella caduta dello shah, prima che i religiosi si accaparrassero la rivoluzione, potrà essere considerata da Washington non più un nemico da combattere, ma un alleato da sostenere.
Se esiste una grande verità politica, oggi, in Iran, è che, con la loro lotta pacifica, i figli della rivoluzione del 1979 chiedono ai loro fratelli più anziani di assumersi la responsabilità dei loro errori come dei loro successi.  

“Duo sunt bene instituti animi solatia: litterarum otium, et fidelis amicitia.”
Francesco Petrarca, Var. 44
Io non conto molto in questa storia del mondo.
Curiosa del futuro, fedele al passato, resto la testimone, una specie di vedetta che guarda ciò che accade.
Molto spesso lo spettacolo non ha nulla di divertente.
Ma mi diletta e mi piace.
Tra le cose e gli uomini, con tenerezza e con ironia, sono, cerco di essere, sotto le raffiche del vento della Storia, la sentinella del piacere di Dio.
E, allora, a Dio...


Daniela Zini
Copyright © 11 luglio 2012 ADZ