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venerdì 16 novembre 2012

L'OCCIDENTE DISORIENTATO DI FRONTE AL DRAMMA SIRIANO


 L’OCCIDENTE DISORIENTATO
DI FRONTE AL DRAMMA SIRIANO

In un’epoca, in cui tutto si accelera e gli istanti si succedono nel caos di una accozzaglia di informazioni, sempre più densa; in un’era, governata da quella che Gilles Finchelstein [1963] definisce la dittatura dell’urgenza [Gilles Finchelstein, La dictature de l’urgence, http://www.youtube.com/watch?v=pIN5R_mIMng], i numeri perdono il loro significato e i drammi passano, talvolta, come banalità annegate nel gorgo dello scoop e del sensazionale. La morte si banalizza, gli enjeux si oscurano.
L’informazione non ha più, sembra, che la gravità della sua freschezza.
Culte de l’instant et culte de la vitesse,”, 
ci dice Finchelstein,
ici, instant du scoop qu’on oublie dès le lendemain, vitesse d’une information qui ne se hiérarchise plus dans l’esprit de spectateurs qu’elle étouffe. ” 
La nuova vittima di questo piccolo dramma delle nostre società moderne, è, senza dubbio, la Siria. L’interesse portato al massacro di innocenti, perfino di bambini, capaci solo di protestare contro un regime tirannico, è derisorio.
La tragedia siriana rivela un’altra tragedia, ben anteriore, ma che ravviva di una luce cruda: quella della banalizzazione dell’orrore nei nostri animi, banalizzazione che taglia corto a ogni indignazione e fa, così, correre il rischio di uno scivolamento verso il “coperto” dai silenzi.
Il Medio Oriente, diaframma tra il mondo occidentale e il mondo asiatico, ha, sempre, avuto nella Siria il suo centro di equilibrio. Confinante a Nord con la Turchia, a Est con l’Iraq, a Sud con la Giordania, a Ovest con Israele e il Libano, questo Paese di oltre 22 milioni di abitanti, sparsi su una superficie di 185.180 chilometri quadrati, pari a oltre la metà dell’Italia, è stata terra di conquista fino dall’Antichità.
Vediamone, in breve, le tappe.
Duemila anni prima di Cristo la Siria è spartita tra gli ittiti a Nord e gli egizi a Sud.
Mille anni dopo è provincia assira, fino a quando, nel 509 a.C., i principi siriani si ribellano agli assiri.
La libertà dura poco.
Dopo la battaglia di Isso [333 a.C.] cade sotto il dominio di Alessandro Magno [356 a.C-323 a.C.] e, quindi, del suo satrapo Seleuco [358-281], che inaugura una dinastia di sei re, i Seleucidi.
Sotto i romani, la Siria è abbellita da Adriano[76 d.C.-138 d.C.], vede nascere le glorie di Palmira e di Bosra. Ma raggiunge il suo maggiore splendore con gli arabi, calati, nel 635 d.C., e la dinastia degli Omayyadi, che trasferiscono a Damasco la capitale dell’impero.
Con l’anno 1000 arrivano i crociati, quindi, i mamelucchi, poi, i mongoli.
Nel 1400, le orde di Tamerlano [1336-1405] mettono a ferro e fuoco Aleppo e Damasco, finché nel Cinquecento cala sulla Siria la lunga notte dell’impero ottomano.
Il giogo turco dura cinque secoli.
Bisogna attendere la sconfitta della Turchia, alleata agli imperi centrali, nella prima guerra mondiale, perché la Società delle Nazioni assegni alla Francia, nel 1922, il protettorato sulla Siria.
I movimenti nazionalisti siriani hanno, ora, un altro bersaglio. La rivolta antifrancese parte dal Gebel Druso, ma è subito spenta. In cambio, la Francia si impegna a concedere l’indipendenza, entro il 1940.
La Siria ottiene l’indipendenza, nel 1941, ma le truppe francesi e britanniche non lasciano il Paese che, dopo la guerra, nel 1946.
Il nuovo Stato viene alla luce in condizioni difficili. Priva di una adeguata classe dirigente, senza industrie, con una economia arretrata e un popolo di pastori musulmani ancora divisi in sette religiose, la Siria assiste a una serie di colpi di Stato, orditi da militari di carriera, gli unici che detengono un effettivo potere.
Incrollabile resta, però, la sua diffidenza verso l’Europa e la simpatia verso l’Unione Sovietica, che non tarda a inviare aiuti, armi e tecnici al nuovo Stato.
Il primo febbraio del 1958, la Siria proclama la sua fusione con l’Egitto. Presidente della Repubblica Araba Unita [R.A.U.] è Gamal ‘Abd al-Nasser [1918-1970], il quale, sfruttando il comune odio per Israele e il sincero anelito popolare alla unità del mondo islamico, spera di attrarre a sé gli altri Stati arabi. Il sogno di Nasser è di breve durata. Il basso livello di vita dell’Egitto, che veniva a gravare sulle migliori condizioni dei siriani, e una continua sopraffazione amministrativa sulla Siria, scavano il solco tra le repubbliche sorelle. Nel settembre del 1961, la Siria esce, clamorosamente dalla R.A.U. Tuttavia, il nasserismo ha fatto proseliti anche tra gli stessi generali, un tempo gelosi custodi dell’autonomia nazionale.
Dal 1970, la vita politica siriana è dominata dal presidente Hafiz al-Assad [1930-2000] e dal Fronte Nazionale Progressista [Jabha al-Taqaddumi al-Watani], una coalizione di partiti, guidata dal partito Ba’th.
L’intervento in Libano, che inizia, intorno alla metà degli anni 1970, e la repressione degli estremisti musulmani segnano i mandati di al-Assad. Misure liberali sul piano economico e un avvicinamento all’Occidente si attuano, anche, sotto la sua presidenza.
La morte di Hafiz al-Assad, nel 2000, è seguita dall’ascesa al potere di suo figlio Bashar al-Assad [1965]. Culto della personalità, supersorveglianza della società, divieto di ogni opposizione: la Siria, che gli lascia suo padre, ha tutto di una dittatura, lo testimonia il massacro di Hama, nel 1982, che vede la morte di decine di migliaia di siriani e la distruzione di un terzo della città dagli innumerevoli capolavori architettonici. Per conservare il potere, Hafiz al-Assad ha saputo dissipare il proprio patrimonio e uccidere il suo stesso popolo, in un silenzio colpevole, già allora, dei media occidentali. 

In ogni poesia vedrò una dimora per me

Io non sono Gilgamesh e neppure Ulisse,
Non dall’Oriente, dove il tempo è una miniera di polvere,
Né dall’Occidente dove il tempo è ferro arrugginito.
Ma dove vado? E cosa farei se dicessi:
“La Poesia è il mio Paese e l’Amore il mio cammino.”
Così risiedo viaggiando,
Scolpendo la mia geografia con lo scalpello dello smarrimento.
Ed ecco la luce!
Non corre più sui passi dei bambini,
Allora perché il Sole ripete il suo volto?
Non scenderai tu pioggia
Per lavare questa volta l’utero della Terra?
La notte.
Lampi, i tessuti del tempo
Bruciano.
La verità si vela.
La Terra.
Sognami e dì:
“Ovunque io vada, vedrò una poesia abbracciarmi.”
Sognami.
Veramente.
E dì allora:
“In ogni poesia vedrò una dimora per me.”

Adonis
[pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, 1930]

Adonis [pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, 1930]
Considerato uno dei maggiori poeti arabi viventi, Adonis, pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, nasce a Qassabin, nel Nord della Siria, il primo gennaio del 1930. Attivissimo nel dibattito politico-culturale, estetico e filosofico, è tra i fondatori, insieme al poeta iracheno Badr Shakir al-Sayyab [1926-1964] e al palestinese Jabra Ibrahim Jabra [1919-1994], del gruppo Tammuzi. Più volte candidato al premio Nobel per la Letteratura, vince, nel 1995, il Prix Méditerranée per Soleils seconds. In Italia, gli è assegnato, nel 1999, il Premio Nonino per la Poesia e, nel 2000, il Premio LericiPea per l’Opera Poetica. Nel 2011, gli è conferito il prestigioso Premio Goethe.

Daniela Zini


Cola sangue che non si arresta


Inchiostro della Genesi,
Inaugurato da Caino.
Come ha ben visto Caino,
Non ha percorso lo smarrimento,
Non ha vissuto l’esilio.

Ed ecco il tempo
Trascinato dal sole, suo padre, cinto di catene,
Di ruote che solcano la terra,
Mentre lo spazio è una lanterna spenta.

Non avete, forse, parlato, voi,  cose silenziose?
Succhiando al seno della passione.
Mistero guidato dal fuoco.
Fuoco alimentato dal mistero.
Mentre la luce non cessa di piangere,
Piange la ragione del globo,
Dolendosi per le stirpi dell’esilio.

In esilio nascono le profezie.
Ma com’è facile mettere il copricapo di un profeta
Sulla testa di un impostore,
Com’è facile mettere il copricapo di un impostore
Sulla testa della storia.

Tempo,
Immenso crepuscolo di teste umane.


Adonis [pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id Esber, 1930]

Una delle ironie più crudeli che costellano la storia tumultuosa del mondo arabo è che l’ideologia ba’thista, che si proponeva di unificare la “nazione araba”, ha fallito nel mantenere la sicurezza e l’unità dei due Paesi guidati, per lungo tempo, dai due rami rivali del partito Ba’th, l’Iraq e la Siria. I susseguenti errori colossali [la guerra contro l’Iran, dal 1980 al 1988, e, in particolare, l’invasione del Kuwait, nel 1990], commessi dal capo supremo del partito Ba’th iracheno, Saddam Hussein [1937-2006], hanno condotto non solo alla distruzione del partito al potere e all’eliminazione fisica e politica dei suoi leaders, ma anche alla distruzione del Paese. Ancora oggi, l’Iraq paga l’ingente costo del confronto di due anomalie politiche, il regime di Saddam Hussein, a Baghdad, e quello di George W. Bush, a Washington.
Il ramo siriano del Ba’th si è rivelato più capace a fronteggiare i pericoli esterni e interni, grazie al suo leader, Hafiz al-Assad, fine politico e grande stratega, qualità che mancavano, ahimé!, al suo vicino e rivale dell’altro lato della frontiera Est, Saddam Hussein.   
La società irachena è divisa tra sciiti e sunniti, certo, ma è omogenea, paragonata alla società siriana multiconfessionale, dove convivono alawiti, sunniti, ismaeliti, drusi, curdi e cristiani. Tutto questo Salad Bowl, mosaico etnico, è “messo a punto” dagli alawiti, che non costituiscono più del 12% della popolazione.
Come questa minoranza controlla il Paese dal 1970, vale a dire da più di 42 anni?
Il regime, instaurato, all’indomani del colpo di Stato del 1970, è una dittatura militare, dominata dalla minoranza alawita, che ha saputo cattivarsi il sostegno di tutte le altre minoranze confessionali, che temono una dominazione politica sunnita. Questa paura è esacerbata da un evento sanguinoso, che ha terrorizzato le minoranze siriane: nel giugno del 1979, un commando dei Fratelli Musulmani aveva fatto irruzione nell’accademia militare di Aleppo, i cui studenti provenivano, in maggioranza, – 260 su 320 cadetti – dalla comunità alawita. I terroristi massacrarono, a sangue freddo, 83 cadetti, tutti alawiti. Alcuni analisti hanno stabilito un legame diretto tra questo massacro e la fatwa di Taqi ad-Din Ahmad ibn Taymiyyah [1263-1328], l’antenato del wahabismo salafita, che, nel XIV secolo, aveva chiamato alla persecuzione degli alawiti, che considerava apostati.
Due anni dopo, la rivincita del regime era stata terribile. Nel febbraio del 1982, infatti, i carri armati e l’artiglieria di Hafiz al-Assad avevano raso al suolo la città di Hama, sotterrandone i difensori nelle macerie. Ancora oggi, nessuno sa, esattamente, quanti siano i morti a Hama. Giornalisti e analisti stimano il bilancio dei morti tra i 10mila e i 20mila. Il corrispondente del New York Times, Thomas Lauren Friedman [1953], che andò a Hama, due mesi dopo il violento scontro, trovò una città nella quale interi quartieri erano stati spianati con i bulldozers e i rulli compressori. Il prezzo pagato dagli uomini era stato, ancora, più terribile.
“In pratica l’intera dirigenza musulmana di Hama – shaykh, maestri, personale delle moschee – che era sopravvissuta alla battaglia per la città venne liquidata successivamente in un modo o nell’altro; la maggior parte dei capi sindacali antigovernativi subì la stessa sorte.”,
racconta Friedman.
Ciò che accade, oggi, in Siria è, in un certo senso, il prolungamento degli eventi sanguinosi dal 1979 al 1982, con un sovrappiù, l’entrata in scena di potenze regionali e internazionali: l’Arabia Saudita e la sua appendice, il Qatar, con l’appoggio della Turchia e degli Stati Uniti, da una parte, e dall’altra parte, l’Iran e la sua appendice, il movimento sciita libanese hezbollah, con l’appoggio della Russia e della Cina.
Un anno e dieci mesi dopo l’inizio delle violenze in Siria, la situazione sembra bloccata. Il regime di Bashar al-Assad non dà alcun segno di un prossimo crollo. Domina i centri nevralgici del Paese e non è neppure impopolare come la stampa occidentale sembra dipingerlo.
Visibilmente, beneficia non solo dell’appoggio delle minoranze confessionali, terrorizzate dalla prospettiva di un potere sunnita dominato dai Fratelli Musulmani e dagli jihadisti sunniti, ma egualmente di una larga frangia di cittadini sunniti, inquieti per l’anarchia e il caos che ingenererebbe, forzosamente, il crollo del regime ba’thista. Queste forti inquietudini, sentite da larghi settori della società siriana, spiegano, al tempo stesso, la resistenza del regime di Bashar al-Assad e l’incapacità dell’opposizione armata nel realizzare i suoi obiettivi, a dispetto delle centinaia di milioni di dollari, che le provengono dall’Arabia Saudita e dal Qatar e della profondità strategica di cui beneficia nel territorio turco.


Ma l’impasse, nella quale si trova il conflitto, in Siria, non sembra proprio aiutare la riduzione dell’intensità dei combattimenti, al contrario. Nessuna parte nel conflitto è pronta a fare concessioni e il dialogo tra governo e opposizione armata è inimmaginabile. La tregua in occasione dell’Eid al-Adha, Festa del Sacrifico, laboriosamente raggiunta dall’inviato dell’ONU e della Lega Araba, l’algerino Lakhdar Brahimi [1934], non è durata che un solo giorno.

 
 
Di fronte agli sviluppi pericolosi della guerra civile in Siria, i Paesi occidentali, che erano, all’inizio, ferventi difensori dell’opposizione ed esigevano la destituzione di Bashar al-Assad e del suo regime, sono, ora, in grande imbarazzo e non sanno a quale santo votarsi. Da Washington a Parigi passando per Londra, non si sente più la stessa determinazione a “farla finita” con il regime ba’thista, in Siria, né lo stesso entusiasmo a sostenere l’opposizione come un anno fa, a esempio. Più il tempo passa, più il conflitto sprofonda nell’impasse e più l’Occidente si pone interrogativi.



Innanzitutto e anche se non lo riconoscono apertamente, i leaders politici, che si trovano alla Casa Bianca, al numero 10 di Downing Street o all’Eliseo, non possono ignorare un dato sempre più evidente: il regime di Bashar al-Assad, contrariamente a quello di Hosni Mubarak [1928], di Mu’ammar Gheddafi [1942-2011] o di Zine al-Abidine Ben Ali [1936], non è affatto sprovvisto di una base popolare. È giocoforza riconoscere che, se Bashar al-Assad è, sempre, presidente, non lo è solo perché è sostenuto dall’esercito, ma anche e soprattutto, perché è sostenuto da larghe frange della popolazione siriana. Altrimenti avrebbe conosciuto la stessa sorte dei suoi pari, egiziano, libico e tunisino, dalle prime settimane o, tutt’al più, dai primi mesi dell’insurrezione. Poi, il conflitto non è più limitato alle frontiere siriane. La violenza ha, già, “strabordato” in Turchia, in Libano e in Giordania, minacciando di trasformarsi in un conflitto regionale, di cui nessuno può prevedere né l’ampiezza né le conseguenze. E questa prospettiva ha, veramente, di che inquietare Washington, Londra e Parigi. Infine, e cosa più inquietante ancora, i guerriglieri dell’opposizione siriana non sono solo disertori dell’esercito e cittadini impegnati nella lotta per “farla finita” con la dittatura e stabilire una democrazia “all’occidentale”. Questa opposizione è, sempre più, infiltrata da jihadisti di al-Qaida con una agenda e un programma politico che non hanno niente a che vedere con gli obiettivi che avevano in mente i primi manifestanti del marzo del 2011. Per questi jihadisti, l’obiettivo immediato è eliminare la dittatura laica di Bashar al-Assad e l’obiettivo ultimo è instaurare una dittatura teocratica.
La tattica delle autobomba, che, qualche tempo fa, ha fatto la sua comparsa in Siria, è un marchio depositato di al-Qaida e un segno della sua presenza, sempre più dominante, in seno all’opposizione siriana.


 Che cosa fare in Siria?
Una domanda estremamente spinosa per gli strateghi occidentali, che, fino a oggi, non hanno alcuna idea della risposta appropriata da dare, né della strategia da attuare per fare fronte all’imbroglio siriano, prossimo a divenire un dramma corneliano.


Daniela Zini
Copyright © 15 novembre 2012 ADZ