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mercoledì 26 gennaio 2011

CINA: SANGUE E SPLENDORI DELLE PRIME DINASTIE

“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO

“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux


Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.

La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia  senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.


CINA
SANGUE E SPLENDORI DELLE PRIME DINASTIE


Gli imperatori del 2000 a.C. vestono abiti di seta e promuovono la lavorazione del bronzo. Al cruento periodo dei regni combattenti subentra l’età delle scuole di pensiero. Con la Grande Muraglia la Cina si difende dai barbari. La rivolta dei Turbanti Gialli: il mondo cinese si fraziona.




Quattrocentomila anni fa in Cina vivevano, già, i cinesi: i resti del Sinanthropus Pekinensis, scoperti, nel 1927, nella grotta di Chu-ku-tien, vicino a Pechino, presentano caratteristiche morfologiche tali da stabilire la discendenza del gruppo etnico mongolo e, in particolare, cinese, da quel lontano progenitore. Ma il Sinanthropus si reggeva a stento in posizione eretta e non parlava. Dovevano passare centinaia di migliaia di anni prima che l’uomo raccontasse la sua storia, cercasse di dare un senso al proprio vivere civile.
Gli inizi dell’epoca storica si delineano frammentari e confusi intorno al III millennio a.C.: l’uomo parla, racconta di sé e il mito è il primo documento che rifletta le fasi, i problemi e gli orientamenti della civiltà arcaica.
Yao, Shun e Yu sono i tre imperatori della leggenda, infaticabili organizzatori del lavoro umano e impegnati a sottomettere la natura al controllo dell’uomo.
Il figlio dell’ultimo mitico imperatore, Yu il Grande, colui che imbrigliò le acque dei fiumi, è il fondatore della dinastia Xia che, secondo le date convenzionali, va dal XXI al VI secolo a.C.
La Xia è una dinastia non storicamente accertata, ma l’arco di tempo che abbraccia corrisponde, senza dubbio, a un periodo di assestamento e consolidamento: l’insediamento si fa stabile, agricoltura e artigianato si sviluppano lentamente mentre cultura dei cereali e allevamento hanno ancora un ruolo secondario. Ma già gli appartenenti alle grandi famiglie vestono abiti di seta, perché in Cina la sericoltura è nota dal II millennio a.C.
Intorno a questo stesso periodo, nelle piane della Cina centrale, si verifica un fenomeno di importanza capitale, vale a dire appare e si impone la tecnica per la lavorazione del bronzo; sull’introduzione di questa tecnica non sono da escludersi influenze esterne, dell’Asia centrale, ma è provato che questa si perfeziona gradualmente proprio in Cina, raggiungendo un livello eccezionalmente alto rispetto alle altre civiltà primitive. Nel contempo, si estende e consolida, sempre più, la proprietà privata della terra, emerge una aristocrazia dedita alla caccia e alla guerra, la quale avoca a sé anche le funzioni religiose, sacrificando agli antenati e alle divinità del suolo.
È l’epoca della dinastia Shang, la prima storicamente accertabile (1766-1112 a.C.), che ebbe trenta sovrani, i cui nomi ci sono stati tramandati dagli Annali dinastici. I nobili riconobbero l’autorità di questi sovrani che erano più capi religiosi, in quanto garanti dell’ordine cosmico, che capi politici. Intorno al nucleo, già, organizzato dello spazio cinese corrispondente, a grandi linee, alle odierne province di Hopeh e di Honan, vivevano popolazioni che i cinesi consideravano barbare. Contro queste popolazioni, la dinastia degli Shang si estenuò in guerre continue fino a quando l’ultimo sovrano degli Shang venne sconfitto in battaglia dal capo dei Chou, Wu Wan.
La gente di Chou, stabilita nella regione dell’odierno Shaanxi, differiva etnicamente e culturalmente dagli Shang. Il successore di Wu Wan, il famoso Duca Chou, diede allo Stato strutture assai simili a quelle del feudalesimo europeo del medioevo: ai suoi parenti e ai suoi alleati il Duca Chou assegnò i feudi principali, ma ebbe la scaltrezza di assegnarne uno anche all’erede dell’ultimo sovrano degli Shang, in modo da ingraziarselo e impedire che intorno alla sua persona si formasse una coalizione legittimista.
I feudatari dovevano pagare un tributo al sovrano e impegnarsi a difenderlo militarmente, ma nel loro feudo godevano di poteri assoluti: i contadini, in posizione simile a quella dei servi della gleba, erano obbligati a prestare corvées a beneficio diretto del loro signore, ma spesso anche a beneficio di tutta la comunità, come l’immane opera di controllo dello Huang Ho e dei suoi affluenti, che richiedeva assiduo impegno di manodopera ingente. Nelle comunità di villaggio le famiglie contadine coltivavano, a turno, gli appezzamenti migliori di terra che rimaneva, tuttavia proprietà del feudatario dal quale la ricevevano in uso. Un campo, generalmente il più fertile, era, poi, coltivato comunemente da tutti i contadini e il raccolto ottenuto doveva essere consegnato interamente al signore.
I Chou stabilirono la loro capitale prima a Hsian poi, verso il 750 a.C., sentendosi minacciati dalle popolazioni barbare limitrofe, specie i jung, la trasferirono più a est, a Loyang, dando, così, inizio a quella che è chiamata dinastia dei Chou orientali. Alla periferia, intanto, si erano formati vari principati autonomi e per i Chou iniziò un lungo periodo di decadenza, durante il quale la loro sovranità fu riconosciuta soltanto formalmente.
Il periodo che va dal 722 al 481 a.C. – durante il quale la, già, affermata unità del mondo cinese entrava in crisi – è noto come Periodo Primavera Autunno, dal titolo di una raccolta di Annali che a esso si riferiscono. Tre grandi principati, Qi nello Shantung, Qin nello Shaanxi e Qiu a sud dello Yangtze, si contesero il primato e si dilaniarono in guerre sanguinose. Le vicende di questo periodo sono estremamente complesse; assetto economico e organizzazione della società subirono profonde trasformazioni. L’evoluzione già in atto si precisò con l’introduzione della tecnica per la fusione del ferro che veniva usato per scopi sia militari sia civili. Solidi attrezzi agricoli permettevano di dissodare terre sempre più vaste e i principati maggiori divennero grandi Stati in cui la produzione agricola assunse un’importanza fondamentale. La terra, prima proprietà inalienabile del signore feudale, divenne oggetto di compra-vendita e venne imposto un sistema di tassazione in base all’area posseduta. La nomina dei funzionari direttamente da parte del principe divenne uso comune, mirante a distruggere i resti dell’aristocrazia feudale e a centralizzare di conseguenza il potere.
Il periodo seguente, che va dal 475 al 221 a.C., è conosciuto come Epoca dei Regni Combattenti, perché le guerre si susseguirono ininterrotte tra i vari Stati di recente e più vecchia formazione: Yen nella provincia di Hopeh, Qi e Lu nello Shantung, Qiu nella media valle dello Yangtze, Shu nello Sichuan. Le città si ingrandirono, il commercio si sviluppò, apparve la figura del mercante e, con il mercante, la moneta.
A queste trasformazioni economiche e sociali si accompagnò una intensa vita intellettuale fiorente presso le corti dei vari principati: è l’epoca delle cento scuole di pensiero, delle dispute tra filosofi impegnati non in speculazioni metafisiche, ma in problemi concretamente politici. È l’epoca di Confucio (551-479 a.C.) cittadino dello Stato di Lu. 
Uno Stato, tuttavia, quello di Qin, situato nell’estremo ovest, era, già, decisamente uscito dal feudalesimo e stava fortificandosi grazie alla radicale eliminazione del sistema di proprietà feudale, alla costituzione di una burocrazia centralizzata, all’introduzione del principio della responsabilità collettiva, penale e fiscale, nei villaggi e alla costruzione di opere idrauliche.
Al principe di Qin, ricordato con il nome di Qin Shi Huang Ti  (Qin Primo Augusto Imperatore), sarebbe toccata la missione storica di unificare la Cina: dal 230 al 221 a.C., sconfisse tutti i suoi rivali ed estese i confini del mondo cinese fino alla regione dove oggi sorge Canton; dal 221 al 210 a.C., consolidò le sue conquiste, generalizzando le riforme già attuate nel suo Stato. Coadiuvato dal grande statista Li Su, divise l’impero in province e distretti, organizzò una vasta rete stradale che si diramava a raggera dalla capitale. Hsien Yang, unificò pesi, misure, monete e caratteri di scrittura, distrusse tutte le fortificazioni che dividevano un regno dall’altro, ma alla frontiera settentrionale iniziò la costruzione della Grande Muraglia per proteggere la Cina dalle incursioni dei barbari.
In realtà, questa opera gigantesca non ha mai protetto la Cina dalla minaccia delle popolazioni del nord, ma è, sempre, stata orgogliosa testimonianza dell’unità dell’impero cinese, portatore di un ordine e di un sistema di valori al quale i barbari dovevano conformarsi: altrimenti, prima o poi, sarebbero stati ricacciati al di là della Grande Muraglia e più che una difesa un simbolo. 
Qin Shi Huang Ti abolì anche tutti i diritti feudali, scatenò la repressione contro i confuciani, impose ai contadini pesanti tributi in natura e lavoro forzato, ordinò la distruzione di tutti i libri che gli suonavano sgraditi perché desiderava che tra passato e presente non vi fosse più nessun ponte. Insomma, Qin Shi Huang Ti era un despota dalla mano pesante, ma in undici anni creò l’impero che ebbe vita più lunga in tutta la storia del mondo.
La dinastia da lui fondata ebbe, tuttavia, durata brevissima: un anno dopo la sua morte si scatenò la prima grande rivolta contadina della storia della Cina, risorsero i particolarismi, si ricostituirono i principati feudali. Il figlio di Qin Shi Huang Ti fu detronizzato, nel 206 a.C., da Liu Pang, rappresentante della nuova classe di latifondisti il quale, sedata la rivolta contadina, concedendo ai poveri di coltivare le terre reali, fondò la dinastia Han che tanta importanza ebbe nella storia della Cina, perché plasmò definitivamente la struttura morale, economica e politica della nazione cinese, al punto che, ancora oggi, i cinesi si definiscono Figli di Han. Liu Pang affidò il controllo dello Stato a una burocrazia di funzionari reclutati per esami e ricalcò, in parte, le leggi dei Qin, riducendo però l’onere che gravava sui contadini.
Sotto il regno dell’imperatore Wu Ti (140-87 a.C.), il confucianesimo divenne l’ideologia ufficiale della classe dominante e lo Stato accentrò ogni funzione imprenditoriale, istituendo monopoli per il sale, il ferro e la zecca. La campagna contro gli unni, intrapresa sotto questo imperatore, ebbe esito vittorioso e la Cina entrò, per la prima volta, in contatto con l’Asia centrale, fino alla Partia, grazie a un’ambasceria guidata da Chang Ch’ien, che aprì quello che, per secoli, fu l’unico e precario canale di comunicazione tra oriente e occidente, la famosa Via della Seta. Ma le campagne militari costavano care, il tesoro pubblico si dissanguava e i proprietari terrieri, sempre più strettamente legati alla burocrazia, sottraevano terre ai contadini, ridotti, per la maggioranza, al ruolo di braccianti agricoli.
Agli inizi del I secolo a.C., scoppiarono rivolte che misero a repentaglio l’esistenza stessa dello Stato.
Nell’8 d.C., Wang Mang, alto dignitario imperiale, rovesciò la dinastia Han, fondò la dinastia Hsin (la Nuova) e varò una serie di drastiche riforme per controbilanciare il potere dei latifondisti: vietò la compra-vendita della terra dichiarata di possesso demaniale e la distribuì ai coltivatori, istituì un sistema di prestiti e consolidò i monopoli statali. Ma tutte queste misure non ebbero effetti immediati e il malcontento popolare sfociò nella rivolta dei Sopraccigli Rossi.
Nel 22, un principe della deposta dinastia Han riuscì a ristabilire il potere del suo casato e trasferì la capitale a est, a Loyang. Per questo gli Han, dal 22 al 186, furono definiti Han orientali mentre gli Han del periodo precedente, che avevano per capitale Hsian, erano noti come Han occidentali. Fu un breve periodo di ripresa economica, di relativa prosperità e di scoperte tecniche, presto minato dalle guerre ai confini contro gli unni, sconfitti, tuttavia, nel 91. Gli imperatori Han non riuscirono a contrastare efficacemente il potere dei latifondisti e la loro corte, dominata dagli eunuchi e dalle concubine, era luogo di intrighi e di corruzione, che dilagavano dal centro nelle province, coinvolgendo tutta la classe dei funzionari.
Nel 184, scoppiò un’altra grande rivolta contadina detta dei Turbanti Gialli, i cui capi si ispiravano al taoismo. Il mondo cinese fu destinato a frazionarsi nuovamente: nel 220, la dinastia Han, il cui potere da anni era soltanto nominale, venne, definitivamente, spodestata dal famoso Ts’ao Ts’ao, condottiero militare e uomo di lettere, che a Loyang fondò la dinastia Wei e colonizzò la valle del Fiume Giallo, distribuendo le terre ai suoi soldati e obbligandoli, in cambio, a pagare un piccolo tributo e a garantire l’efficienza dell’apparato militare.
Ma altri Stati sorsero in concorrenza a Wei, Shu nel Sichuan, Wu nel sud. Iniziava il periodo detto dei Tre Regni, che durò fino al 280, quando una nuova dinastia, la Qin, riuscì a riunificare il Paese, fino al 313. All’epoca dei Tre Regni lo spazio cinese si era frazionato, seguendo frontiere che corrispondevano a nuove autonomie economiche: medio Fiume Giallo, basso Yangtze e bacino rosso del Sichuan. Nel bacino del medio Fiume Giallo si insediarono popoli nomadi delle steppe settentrionali di origine etnica diversa (tungusi, turchi, tibetani) che fondarono Stati propri, adottando i principi, la lingua e gli usi e costumi cinesi.
I seguito a queste invasioni si verificò un flusso di migrazione cinese verso il sud, verso le zone ancora poco popolate del basso Yangtze. Nord e sud, differenziati etnicamente e politicamente, subirono vicende diverse per tutta l’epoca seguente, detta, appunto, dei Regni Settentrionali e Meridionali.
Al sud si alternarono, successivamente, cinque dinastie cinesi, mentre tutta la regione del basso Yangtze conobbe uno sviluppo spettacolare nel campo dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Era l’epoca in cui il buddismo, introdotto in Cina fin dall’epoca Han, godeva del favore delle corti e si diffondeva tra il popolo assumendo, in certi periodi, caratteristiche di religione privilegiata di Stato. Al nord si susseguirono varie dinastie barbare, ma la più importante fu quella dei Wei, fondata dalla tribù dei Toba che, nel 386, unificò il nord e riuscì a mantenersi, pur con alterne vicende, fino al 557, quando l’ultimo imperatore Toba fu spodestato da un dignitario di sangue misto, Wendi Yang Jian, il quale mosse alla conquista vittoriosa del sud e, nel 581, fondò la dinastia Sui.
La Cina riunificata del VI secolo aveva dimensioni territoriali, etniche, economiche e sociali diverse rispetto alla Cina degli Han. I barbari invasori erano stati, completamente, assimilati e la regione economicamente determinante non era più la valle del Fiume Giallo, ma quella dello Yangtze, prima arretrata e dipendente. Per convogliare alla capitale Loyang, a quell’epoca una città di più di un milione di abitanti, e a tutte le altre regioni consumatrici, i milioni di quintali di cereali prodotti nella zona del basso Yangtze, Yang-ti, primo imperatore della dinastia Sui, iniziò i lavori di scavo del Grande Canale Imperiale, che, per un millennio, fu la più rapida via di comunicazione tra nord e sud. A questo scopo ricorse al lavoro coatto in misura, insopportabilmente, gravosa per le masse contadine: dei sei milioni di uomini reclutati per lo scavo del canale, tre ne morirono di fatica e di stenti. Eguale sorte toccò a coloro che vennero da Yang-ti reclutati per restaurare la Grande Muraglia.
Per potenziare l’apparato burocratico centralizzato, Yang-ti sostenne il confucianesimo, a scapito del buddismo e perfezionò il sistema degli esami imperiali per il reclutamento dei funzionari. Inoltre lanciò imponenti campagne militari, che portarono gli eserciti cinesi fino al Vietnam, al Siam e alla Corea. Ma queste guerre costarono care, la situazione economica generale risentì di cattive annate agricole e bande armate di contadini si sollevarono ovunque.
Nel 618, la dinastia Sui crollò: come i Qin, i Sui avevano avuto la missione storica di preparare il terreno ai loro successori. Gli Han prima e, poi, i Tang non fecero che continuare e perfezionare l’opera unificatrice e centralizzatrice, già, avviata da queste dinastie di transizione. La dinastia Tang, fondata da Li Yuan, un comandante militare dei Sui, portò la Cina all’apogeo della sua grandezza e ne fece uno degli Stati più potenti e civili, non soltanto dell’Asia, ma del mondo intero di allora.
Proprio mentre l’Europa piombava nel Medioevo, arti e lettere raggiungevano sotto i Tang la massima fioritura e basti qui ricordare i nomi di grandi poeti come Li Po, Tu Fu e Pai Chu-yi.

A Tan Chiu

L’amico mio dimora in alto sui monti dell’Est;
Gli è cara la bellezza delle valli e dei monti.
Nella stagione verde giace nei boschi vuoti;
E dorme ancora quando il sole alto rispende.
Un vento di pineta gl’impolvera maniche e manto;
Un ruscello ghiaioso gli terge il cuore e l’udito.
T’invidio! Tu che lontano da discorsi e discordie
Hai la testa appoggiata a un guanciale di nuvole azzurre.

Li Po (701-762)

Sotto i Tang la classe mercantile conobbe un vigoroso sviluppo, la stessa estensione dell’impero favorì l’espandersi dei traffici e l’uso della moneta si impose al punto che anche le tasse vennero prelevate in contanti e non più in natura. Cardine della vita economica rimase, ovviamente, l’agricoltura che, grazie a un editto per la ridistribuzione delle terre emanato, nel 624, ed effettivamente applicato, si sviluppò a livelli mai prima raggiunti, favorendo l’incremento demografico. La Cina dei Tang con i suoi 100 milioni di abitanti, era, in effetti, il Paese più popoloso della terra. L’influenza non soltanto politica, ma culturale e civile cinese si estese a molti Stati limitrofi, ai quali i Tang imposero rapporti di vassallaggio, lasciando loro, tuttavia, un largo margine di autonomia. Sotto la diretta influenza cinese entrarono il Tibet, la Corea e parte dell’Afghanistan.   
La spinta espansionistica cinese si bloccò, tuttavia, nel 751, con la sconfitta inflitta dagli arabi alle armate imperiali presso il Fiume Tala (vicino al Fiume Ili), che aprì l’Asia centrale all’influenza dell’Islam.
Il primo secolo della dinastia Tang fu dominato da quattro grandi figure di imperatori che contribuirono con le loro doti personali alla potenza della dinastia e alla prosperità del Paese.
Il primo è T’ai Tsung, figlio del fondatore della dinastia Li Yuan, che, nel 627, costrinse il padre ad abdicare e soppresse tutti i suoi fratelli per rimanere unico padrone.
Nel 649, gli successe Kao Tsung, che proseguì l’espansione verso occidente, estendendo il potere cinese alla regione del Lago d’Aral.
Dal 684 al 710, il potere cadde nelle mani dell’imperatrice Wu Tse-tien, donna crudele e di estrema intelligenza che, dapprima, governò in nome del figlio, poi, fondò una propria dinastia, la Chu, e trasferì la capitale da Hsian a Loyang e a Lung-men, i cui resti si ammirano ancora oggi.
Ripristinato il potere dei Tang, grazie a una congiura di palazzo, salì sul trono Hsuan Tsung, un esteta raffinato e un generoso mecenate che, nel periodo del suo lungo regno, dal 712 al 756, portò la dinastia al massimo splendore, ma ne assistette  anche alla decadenza. Nel 755, un generale di origine turca, An Lu-shan, comandante della regione oggi nota come Manciuria, marciò con le sue truppe contro la capitale. L’imperatore fuggì, accompagnato dalla sua concubina preferita, la bella Yang Kuei-fei. I soldati della scorta costrinsero la donna al suicidio, convinti che la sua influenza nefasta sull’imperatore avesse provocato la catastrofe. Con il cuore spezzato Hsuan Tsung fu costretto a subire questa morte e, nei secoli a venire, la storia di questi due infelici amanti fu il tema preferito di poeti e drammaturghi (http://www.youtube.com/watch?v=d70OuQbd-tg&feature=related).
La rivolta di An Lu-shan, sedata nel 763, segnò, tuttavia, una svolta nella storia dei Tang perché, nonostante vari tentativi di riforme, le tendenze centrifughe si fecero sempre più forti e quasi tutti i generali delle zone di frontiera si sottrassero al controllo centrale. La Cina dei Tang entrò, decisamente, in un periodo di decadenza, la situazione nelle campagne era disastrosa.  
Nell’873, scoppiò una rivolta contadina che presto dilagò nelle altre province: centinaia di migliaia di insorti, guidati da Huang Chao, invasero la capitale. Ma i comandanti militari che, da tempo, godevano di larga autonomia, coalizzandosi, pervennero a sconfiggere i ribelli e uno di loro, Chu Wen, nel 907, dichiarò deposti i Tang e fondò la propria dinastia detta dei Liang Posteriori.
Per circa cinquanta anni, l’impero fu nuovamente diviso.
Al nord si susseguirono cinque effimere dinastie, mentre al sud si alternarono dieci regni diversi. Di questa crisi approfittarono a nord-est i barbari kitan, che, passata la Grande Muraglia, stabilirono la loro capitale, dove sorge, oggi, Pechino e, nel 937, fondarono la dinastia Liao, destinata a durare fino al 1125, nonostante il resto della Cina venisse riunificato, nel 960, da Chao Kuang-yin, fondatore della dinastia Sung. La minaccia barbara al nord pesò, come una ipoteca, sul pur florido assetto, che i Sung riuscirono a dare al Paese.
L’epoca Sung è una delle epoche più contraddittorie della storia cinese, in quanto sia l’arte sia le scienze giunsero a un estremo grado di raffinatezza ma, dal punto di vista politico e militare, fu un’epoca di decadenza. I Sung furono costretti a “comperare la pace” dai barbari, che continuavano a infiltrarsi in terra cinese dalle frontiere settentrionali, ma, il versamento di cospicui tributi non fu sempre misura sufficiente a frenarli.
Il principale problema di politica interna Sung era eliminare i fenomeni di separatismo che avevano causato la rovina della dinastia Tang e, a questo scopo, venne perfezionata la macchina burocratica altamente centralizzata, nella quale prestavano servizio circa due milioni di funzionari tra civili e militari. Agricoltura e artigianato erano quanto mai prosperi, ma nelle campagne persistevano gli squilibri e la pesante macchina statale provocò un costante disavanzo del bilancio. Le intelligenti e lungimiranti riforme proposte da Wang An-shi, capo del partito degli innovatori e, dal 1069, primo ministro, vennero osteggiate dai conservatori e non servirono a fermare l’incipiente inflazione.
Intanto nel nord, nel 1125, altri barbari, i juchen, si erano sostituiti ai kitan e avevano fondato una loro dinastia con il nome di dinastia Qin. Nel 1126, invasero la capitale dei Sung, Kaifeng, e fecero prigioniero lo stesso imperatore. La corte si trasferì al sud, a Hang-chou, e il nome della dinastia, da questo momento, nota con il nome di Sung Meridionali, passò a un ramo cadetto. Ma, nel nord, i Qin vittoriosi erano, a loro volta, minacciati da altri barbari, le tribù mongole, unificate da Gengis Khan, e quando, nel 1235, i Qin furono sopraffatti, la sorte dei Sung Meridionali, nonostante l’eroica resistenza opposta ai mongoli, fu segnata.
Nel 1279, l’ultimo imperatore Sung, la cui flotta era stata sconfitta nei pressi di Canton, si uccise gettandosi in mare, e lo spazio cinese fu, per la prima volta, nella sua lunga storia, interamente sottoposto al dominio di un popolo straniero. I mongoli, alla cui testa si trovava il grande Kublai Khan, diedero alla loro dinastia il nome cinese di Yuan, ma si opposero alla fusione con la civiltà cinese, imponendo il privilegio razziale e sottoponendo i cinesi al rigore del loro codice di vincitori. I cinesi erano esclusi dall’amministrazione e dal potere politico ed economico, le loro terre vennero confiscate, a beneficio dei padroni mongoli.
Gli storici cinesi non sono molto benevoli nei confronti della dinastia Yuan, ma sarebbe errato mettere completamente al passivo questi ottanta anni: infatti, artigianato e commercio continuarono a fiorire, le città conobbero un forte sviluppo – Marco Polo nel suo Milione ce ne ha lasciato entusiastiche descrizioni – e si riaprirono le vie di comunicazione con l’Asia centrale, fatto che, appunto, rese possibile il memorabile viaggio del mercante veneziano, il quale, in Cina, entrò al servizio dei mongoli e fece carriera, perché i mongoli non si fidavano dei cinesi e preferivano servirsi di elementi stranieri.
L’atmosfera cosmopolita dell’epoca mongola contrasta con le precedenti epoche di chiusura dello spazio cinese alle influenze e agli scambi con l’estero. In Cina giunsero le prime missioni francescane e si insediarono numerosi mercanti musulmani; alcune scoperte cinesi, quali la polvere da sparo e la stampa, si diffusero in Europa e nel mondo arabo.
Ancora una volta, tuttavia, la scintilla della rivolta scoppiò tra le masse contadine, come mai vessate e, in certe zone, private addirittura della terra, che i mongoli, nella valle del Fiume Giallo, avevano voluto lasciare incoltivata per farne dei pascoli.
Nel 1350, scoppiò, nella provincia di Honan, la rivolta contadina dei Turbanti Rossi, che dilagò presto in tutto il Paese fino a quando, nel 1368, Pechino, la Cambaluc di Marco Polo, cadde nelle mani degli insorti, alla cui testa era un contadino, Chu Yuan-chang, fondatore della nuova grande dinastia Ming.
I mongoli, fallito il loro tentativo di edificare un grande impero continentale, vennero ricacciati nel nord della Grande Muraglia, che i Ming si premurarono di restaurare, come a voler sottolineare la ritrovata unità dell’universo cinese ben distinto rispetto ai barbari. Invano!
Alla fine del XVI secolo l’autorità dei Ming declinò, nonostante i successi ottenuti precedentemente: altri barbari erano alle porte, le tribù manciù, che si impadronirono del vasto territorio, che da loro prese il nome di Manciuria, terra dei manciù, e, quando, nel 1628, scoppiò la grande rivolta contadina, guidata da Li Tzu-cheng, vennero chiamati, in soccorso della dinastia, dalla stessa classe dirigente cinese, terrorizzata dalla eventualità di una riforma agraria.
I mancesi ne approfittarono immediatamente, varcarono la Grande Muraglia, occuparono Pechino e proclamarono la fondazione della loro dinastia, la Qing. Nonostante la tenace resistenza opposta dai legittimisti Ming, particolarmente nel mezzogiorno e a Formosa (Isola di Taiwan), dove si era rifugiato il leggendario Cheng Cheng-kung, noto anche con il nome di Koxinga, il quale tenne testa anche alla penetrazione olandese e portoghese, nel 1683, i Qing riuscirono a stabilire saldamente il loro potere.
Sotto i Qing, nonostante certe somiglianze apparenti come la posizione privilegiata dei mancesi rispetto ai cinesi nell’apparato burocratico, la situazione fu diversa da quella dell’epoca mongola. I Qing, infatti, specie nella seconda fase del loro regno, si lasciarono assimilare dalla civiltà cinese al punto da diventare più cinesi dei cinesi e si ersero a paladini dei valori del popolo che avevano vinto e sottomesso. Chiave di volta del loro successo fu la immediata alleanza che riuscirono a stabilire con la classe dirigente cinese, favorendo la conservazione e lo sviluppo della grande proprietà agraria. Sotto il regno di due grandi imperatori mancesi, K’ang Hsi (1662-1723) e Chen Lung (1736-1796) sia l’industria, che dalla fase artigianale era, già, passata a quella manifatturiera, sia l’agricoltura, che si giovava dell’introduzione di nuove colture, conobbero un grande sviluppo e la Cina attraversò uno dei periodi più prosperi della sua storia. Conseguenza prima di questa grande prosperità fu il boom demografico: si calcola che i cinesi fossero 150 milioni intorno al 1600, 300 milioni, un secolo dopo, e, intorno alla metà del XIX secolo, avessero già raggiunto la cifra ragguardevole di 450 milioni.
Ma a questo aumento della popolazione non corrispondeva una eguale crescita della produzione agricola e l’equilibrio si spezzò. L’autorità dei mancesi, nonostante i successi militari ottenuti in Tibet, nel Sinkiang, in Nepal e in Birmania, si affievolì e la resistenza al loro dominio trovò espressione in varie società segrete, il cui programma era “Restaurare i Ming, cacciare i Qing”.
Scoppiarono numerose rivolte contadine, come quella guidata dalla società segreta del Loto Bianco, ma i Qing riuscirono a domarle.
Furono, tuttavia, vittorie effimere perché l’impero agricolo cinese con tutte le sue contraddizioni, risultanti dalla sperequazione nella distribuzione della terra, dalla pressione fiscale e dall’organizzazione burocratico-feudale, che frenava il sorgere di nuovi rapporti sociali, stava per affrontare la crisi più lacerante della sua storia. I barbari, che premevano alle sue frontiere, non erano più tribù provenienti dal nord: venivano dal mare, erano partiti dal lontano occidente, e avrebbero messo in crisi non soltanto la stabilità economica della Cina, ma anche quella ideologica. Infatti, per la prima volta, la Cina ebbe a che fare con barbari che barbari non erano, in quanto portatori di una civiltà altamente sviluppata e padroni di una tecnica superiore a quella cinese.
Lo splendido isolamento era finito, la Cina avrebbe dovuto rinnovarsi o perire.
Il processo sarebbe stato doloroso e gravido di conseguenze sia per gli aggressori sia per gli aggrediti.     




Daniela Zini
Copyright © 26 gennaio  2011 ADZ

martedì 25 gennaio 2011

BEN ALI IN FUGA DALLA CRAXI AVENUE

Tunisia un avvertimento per altri Paesi

“E quando l'ombra dilegua e se ne va, la luce che si accende diventa ombra per altra luce, e così la vostra libertà, quando spezza le sue catene, diventa essa stessa catena di una grande libertà.”
Khalil Gibran



Cosa passa nella testa dei dittatori?
È una domanda che si saranno, forse, poste e riposte le milioni di vittime delle dittature.
E molti tunisini si saranno, sicuramente, posti la domanda su cosa passasse nella testa del loro dittatore, che aveva iniziato così bene ed è finito così male.
Troppo male!
Anche i più forti, hanno il loro momento di défaillance, quando l’ora suona, è difficile cambiare il corso del destino!
Zine al-Abidine Ben Ali (1936) lo ha compreso a sue spese.
È così che le manifestazioni contro la disoccupazione e la vita dura nelle regioni interne, che erano state pacifiche prima di degenerare, hanno trionfato su ventitre anni di regno. Quelli che l’ex-capo di Stato aveva qualificato “éléments hostiles à la solde de l’étranger, qui ont vendu leur âme à l’extrémisme et au terrorisme, manipulés depuis l’extérieur du pays par des parties qui ne veulent pas le bien à un pays déterminé à persévérer et à travailler”, lo hanno costretto a lasciare il potere e all’esilio.
A tre anni dalla fine del suo mandato, che doveva spirare nel 2014, Ben Ali, che ha beneficiato della riconoscenza di una nazione per aver concorso alla rinascita nel Paese, se ne è andato dalla porta di servizio.
Il nemico non dorme mai!
Quanto è accaduto al presidente tunisino Ben Ali non è frutto del caso. È la rivincita degli integralisti e dei fedelissimi di Habib Bourguiba (1903-2000), che non gli hanno mai perdonato, quel 7 novembre 1987.
Quando, quel sabato mattina del 7 novembre, Ben Ali, allora primo ministro, faceva valere l’articolo 57 della costituzione (1) – che faceva di lui il successore automatico e legale del presidente, in caso di vacatio del potere – e deponeva il “padre della nazione”, il molto malato Habib Bourguiba (1903-2000),  la Tunisia era in ginocchio economicamente – una inflazione del 10% e un debito estero che raggiungeva il 46% del PIL – e sull’orlo di un’implosione violenta.
Gli integralisti islamici, che si erano infiltrati in tutti gli ingranaggi del regime Bourguiba, durante la sua agonia, erano a due passi dal prendere il potere, uno scenario temuto dalla maggioranza dei tunisini di espressione laica. Il colpo di Stato contro Bourguiba era progettato per il 9 novembre 1987.
Per Mezri Haddad fu semplicemente “un atto di salubrità pubblica”.

“Officiellement âgé de 84 ans, Bourguiba s’endort quand il reçoit un hôte étranger; sous l'influence de ceux qui guignent la présidence, il chasse le lendemain le ministre qu’il a nommé la veille, il admet le remaniement ministériel proposé par son Premier ministre pour se rétracter quelques heures après… Pire que tout, il exige la révision du procès de l’intégriste Rached Ghannouchi (et la condamnation à mort de ce dernier):
“ Je veux cinquante têtes (…) Je veux trente têtes (…) Je veux Ghannouchi.”
Mezri Haddad, Non Delenda Carthago, Carthage ne sera pas détruite. Autopsie de la campagne antitunisienne

Tuttavia, nel loro libro Notre ami Ben Ali, i giornalisti Nicolas Beau e Jean-Pierre Tuquoi danno un’altra versione degli eventi:

“Sept médecins dont deux militaires, sont convoqués en pleine nuit, non pas au chevet du malade (Bourguiba) mais, là encore, au ministère de l’ntérieur. Parmi eux se trouve l’actuel médecin du président, le cardiologue et général Mohamed Gueddiche. Ben Ali somme les représentants de la faculté d’établir un avis médical d’incapacité du président. “Je n’ai pas vu Bourguiba depuis deux ans.” proteste un des médecins.
“Cela ne fait rien! Signe!” tranche le général (Ben Ali).”

Quello stesso 7 novembre, nel suo primo discorso programmatico alla radio nazionale, Ben Ali aveva annunciato:

L’époque que nous vivons ne peut plus souffrir ni présidence à vie ni succession automatique à la tête de l’État desquels le peuple se trouve exclu. Notre peuple est digne d’une vie politique évoluée et institutionnalisée, fondée réellement sur le multipartisme et la pluralité des organisations de masse. 

Il discorso era piaciuto alla stragrande maggioranza dei tunisini che si erano stretti attorno all’“uomo del cambiamento”.
La stampa mondiale aveva salutato “la rivoluzione del gelsomino”. Difficile accusare gli opinionisti occidentali di eccesso di zelo, sapendo che i più feroci oppositori al sistema dello Stato-Partito avevano, quasi unanimemente, applaudito l’avvento del nuovo potere a Cartagine.
Ciò detto, le promesse di democratizzazione della vita pubblica, una crescita continua del PIL, un tasso di natalità controllato e una condizione invidiata delle donne non sono una garanzia assoluta di successo. Dopo una schiarita democratica di due anni (1987-1989), che aveva visto sbocciare una stampa libera, il regime di Ben Ali si mostrò nel suo vero volto.
Verso la metà degli anni 1990, il potere tunisino si attaccò a ciò che restava della sinistra politica. Dopo aver messo i sindacati e la stampa al passo, il potere scivolò, a poco a poco, verso il dispotismo. Anche il limite legale di tre mandati presidenziali finì per saltare con il referendum del 2002, che modificava la costituzione. Dal 1987, Ben Ali e il suo partito hanno raccolto, regolarmente, più del 90% dei voti, alle diverse scadenze elettorali. Forte di un controllo stretto della società, avrebbe potuto, teoricamente, continuare a governare fino al 2014.
Il paesaggio mediatico tunisino è uno dei più arretrati del mondo arabo e musulmano. La maggior parte dei giornali, sia pubblici sia privati, cantavano le lodi del beneamato presidente e del suo partito. La televisione e la radio pubbliche abbeveravano l’uditorio di litanie per la gloria di questo capo che riceveva, spiegava, ordinava, disponeva, tutto il giorno.
Sul fronte politico, i partiti dell’opposizione reale – escludo dalla analisi “l’opposizione cosmetica” che serviva, essenzialmente, a far apparire democratico il regime – erano sotto stretta sorveglianza e i loro rappresentanti oggetto di una repressione costante. Le organizzazioni indipendenti, quali la Ligue Tunisienne de Défense des Droits de l’Homme, hanno vissuto saghe politico-giudiziarie e sono state regolarmente minacciate di chiusura. L’università e il principale sindacato del Paese, culle della contestazione, negli anni 1970 e 1980, erano più o meno rientrati nei ranghi.
Una delle rare armi, di cui disponevano gli oppositori al regime, era lo sciopero della fame.
Quanto alla giustizia, era, totalmente, infeudata al potere esecutivo.
Il modello tunisino, tanto vantato dai politici occidentali come un bastione contro l’integralismo, non era che un bluff.
Creando un vuoto politico e culturale intorno a sé, il potere non poteva che fare il gioco di tutti gli estremismi. La reislamizzazione della società tunisina, non molto tempo fa una delle più laiche del mondo musulmano, ne è una illustrazione.
Vi è un elemento psicologico importante nella rapida trasformazione di Ben Ali in dittatore. I tunisini erano stati sorpresi del cambiamento alla guida dello Stato, il 7 novembre 1987. Non avevano partecipato a questo processo. Questa non-partecipazione popolare al cambiamento, aveva portato Ben Ali a sentirsi il salvatore del Paese e a trasformarsi in decisore unico per tutto ciò che atteneva alla vita politica, economica, sociale e culturale di 10 milioni di persone. Abbracciando la carriera di dittatore, Ben Ali, si metteva in una disposizione psicologica molto particolare: in quanto presidente, non era lui al servizio del popolo, ma il popolo a porsi al suo servizio, senza protestare per quanto fosse deciso per lui al Palais de Carthage. Ma Ben Ali non ha, neppure, avuto l’intelligenza di perseverare nella sua carriera di dittatore, attenendosi a una applicazione minimale della legge e consentendo una preservazione, altrettanto minimale, degli interessi dello Stato. L’assenza o piuttosto lo spregio per questa preoccupazione fondamentale nell’esercizio del potere ha fatto in modo che Ben Ali precipitasse dallo status di dittatore a quello di padrino, attento più al benessere del suo entourage che alle dure condizioni di vita delle centinaia di migliaia di disoccupati.
È molto corrente, in dittatura come in democrazia, che un uomo di potere faccia beneficiare il proprio entourage di alcuni vantaggi.
È una debolezza umana, si sa!
Ben Ali non avrebbe focalizzato su di sé tutto questo odio, se si fosse limitato a seguire questa regola banale, vale a dire se si fosse limitato ad avvantaggiare il suo entourage nei limiti “ragionevoli”, impedendo di utilizzare i legami parentali per abusare dei beni pubblici e privati.
Lasciando la briglia sul collo ai membri della propria famiglia e della famiglia della propria moglie, Ben Ali li incoraggiava, volontariamente o involontariamente, a trasformarsi in veri predatori che, più hanno possibilità di fare razzia, più hanno voglia di affondare i denti.   
In una parola, come direbbe il popolo, più mangiano, più hanno fame.
Il silenzio imposto dal vertice dello Stato alle istituzioni pubbliche e ai singoli privati, vittime delle depredazioni della propria famiglia e della famiglia della propria moglie, ha reso Ben Ali agli occhi del popolo sempre meno presidente e sempre più padrino, al centro di un vasto traffico di influenza che ha trasformato, di anno in anno, dei poveruomini in miliardari.
Questo per quanto attiene alla sfera pubblica.
Quanto a ciò che accade dietro le quinte, solo Dio e alcuni sanno.
L’indifferenza o l’incapacità di Ben Ali a rispondere ai bisogni dei disoccupati, sempre più numerosi, senza dimenticare il dilagare della corruzione tra i molti funzionari dello Stato, hanno finito per avere ragione della pazienza del popolo.
Alla sua prima fronda seria, la dittatura mafiosa è crollata come un castello di carte.
Il cambiamento non è offerto al popolo tunisino.
Il popolo tunisino lo ha reso possibile, pagando un prezzo altissimo: il sangue di decine di suoi figli nel fiore dell’età.
I tunisini sono, oggi, a un crocevia, con una occasione d’oro tra le mani.
Sono, perfettamente, in grado di utilizzare questa buona occasione per imporre alla propria classe politica piccolissime cose, molto semplici, il treppiede della democrazia:
-         la libertà di stampa
-         l’indipendenza della giustizia
-         l’alternanza al potere.
Ma possono anche, a Dio piacendo, far fallire questa occasione unica e affondare, di nuovo, in un altro mezzo secolo di dittatura.
La scelta è tra la luce e l’oscurità, tra la dignità e l’ossequiosità.
Personalmente, sono ottimista.
Il mio ottimismo mi deriva dalla storia di questo Paese.
La Tunisia ha avuto la prima Costituzione del mondo arabo, nel 1861.
È stato il primo Paese del mondo arabo e molto prima di molti paesi occidentali a garantire i diritti fondamentali alla donna.
Può essere il primo Paese arabo a dotarsi di un reale sistema democratico, vale a dire a gettare nuove basi costituzionali, attraverso l’elezione di una assemblea costituente, che dia al Paese una nuova costituzione. Una nuova costituzione che dia meno potere al presidente della Repubblica e rafforzi quello del parlamento e dell’autorità giudiziaria, unico modo per sbarrare, definitivamente, la strada al culto della persona e all’abuso del potere.
Una tale prospettiva richiede tempo.
Richiede stabilire una scala di priorità.
E la priorità delle priorità, oggi, è ristabilire l’ordine civile, conditio sine qua non per il passaggio all’ordine democratico.
Habib Bourguiba si era cucito addosso una costituzione su misura, come ci si confeziona un abito dal sarto, che assicurava poteri esorbitanti all’esecutivo, vale a dire al presidente della Repubblica, a discapito del parlamento e dell’autorità giudiziaria, che, dall’indipendenza fino al 14 gennaio 2011, non hanno mai né criticato e neppure solo discusso una decisione presidenziale.
Per più di un secolo, i poteri legislativo e giudiziario si sono visti esautorare ogni potere reale, accettando, passivamente, di svolgere il ruolo di cinghie di trasmissione della volontà dell’esecutivo, obbedendo, senza discutere, agli ordini e contentandosi di recitare il ruolo di figuranti sulla scena pubblica. 
È confortante vedere la vitalità dei tunisini che scendono, quotidianamente, in strada, per gridare la loro collera e reclamare le dimissioni del governo di transizione. 
È rassicurante vedere la determinazione dei tunisini che scendono, quotidianamente, in strada, per non lasciarsi scippare il rovesciamento pacifico della dittatura.
Questi uomini e queste donne che manifestano hanno figli, fratelli e sorelle che studiano, hanno parenti che hanno bisogno di lavorare, hanno loro stessi un lavoro che li attende o sono alla ricerca di un lavoro – e né studi né lavoro sono pienamente possibili senza il ritorno alla vita normale – ma avvertono il rischio di veder vanificati la loro conquista e il loro sacrificio da parte di apprendisti-dittatori.
La differenza con il cambiamento del 7 novembre 1987 è sostanziale.
L’occasione è storica e potrebbe non presentarsi più, se fallisse.
La Tunisia non la fallirà.




Note:
(1) Article 57 - En cas de vacance de la Présidence de la République pour cause de décès, démission ou empêchement absolu, le président de la Chambre des Députés est immédiatement investi des fonctions de Président de la République par intérim pour une période variant entre 45 jours au moins et 60 jours au plus.
Il prête le serment constitutionnel devant la Chambre des Députés ou, le cas échéant, devant le bureau de la Chambre des Députés.
Le Président de la République par intérim exerce les attributions dévolues au Président de la République sans, toutefois, pouvoir recourir au référendum, démettre le gouvernement, dissoudre la Chambre des Députés ou prendre les mesures exceptionnelles prévues par l’article 46. Durant cette période, il ne peut être présenté de motion de censure contre le gouvernement.
Durant cette même période des élections présidentielles sont organisées pour élire un nouveau Président de la République pour un mandat de cinq ans.
Le nouveau Président de la République peut dissoudre la Chambre des Députés et organiser des élections législatives anticipées conformément aux dispositions du deuxième alinéa de l’article 63.
Constitution de la République tunisienne du 1er juin 1959




Daniela Zini
Copyright © 25 gennaio 2011

lunedì 17 gennaio 2011

CINQUANTA ANNI FA IL MONITO DI EISENHOWER

“Ogni cannone costruito, ogni nave da guerra varata, ogni missile sparato rappresenta, infine, un furto verso coloro che hanno fame e non sono sfamati, verso coloro che hanno freddo e non hanno di che coprirsi. Questo mondo non spende per le armi solo denaro, ma spende il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. (...)

Questo non è un modo di vivere nel vero senso della parola. Sotto le nubi della guerra vi è l’umanità appesa a una croce di ferro.”
Dwight David Eisenhower (1890-1969), discorso del 16 aprile 1953 (1)



Tre giorni prima di lasciare la Casa Bianca, dopo due mandati, Dwight David Eisenhower (2), trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti, ammoniva la popolazione del suo paese di fare attenzione al complesso industriale–militare, che non era affatto interessato alla pace e avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese nuovamente in guerra.
Accadeva cinquanta anni fa, più precisamente, il 17 gennaio 1961.
Ripropongo qui uno dei passaggi più significativi del discorso di commiato (3) alla nazione:

 “(…) Ora questa combinazione tra un grande apparato militare e una vasta industria bellica è un fatto nuovo nell'esperienza americana. La totale influenza – economica, politica, perfino spirituale – viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno ineluttabile di questo sviluppo, ma non dobbiamo esimerci dal comprendere le sue gravi implicazioni. Ne sono, inevitabilmente, coinvolti il nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro stile di vita. La stessa struttura portante della nostra società.
Nei consigli di governo, dobbiamo vigilare per impedire il conseguimento di un’influenza ingiustificata, più o meno ricercata, da parte del complesso industriale-militare. L’eventualità dell'ascesa disastrosa di un potere mal riposto esiste e persisterà.
Non dobbiamo mai permettere che la pressione di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e accorta è in grado di esigere una corretta integrazione della gigantesca macchina industriale-militare di difesa con i nostri metodi e obiettivi pacifici in modo tale che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme. (…)”

Prima di divenire presidente e di fare il suo ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1953, Eisenhower aveva condotto una brillante carriera militare, che aveva fatto di lui il soldato di più alto grado nella gerarchia militare americana (generale a cinque stelle). La posizione centrale, che occupava in questa gerarchia, faceva di lui un osservatore privilegiato delle pratiche poco ortodosse del complesso industriale-militare. E gli otto anni passati alla Casa Bianca avevano finito per convincerlo della pericolosità di questa potente lobby, che, senza la presenza di una “cittadinanza vigile e accorta”, rischiava di fare man bassa dei meccanismi decisionali della strategia militare e della politica estera degli Stati Uniti.
Il monito di Eisenhower è stato ignorato, perché non vi è stata negli Stati Uniti questa “cittadinanza vigile e accorta” a impedire le derive militari e politiche che, da decenni, non cessano di minare lo statuto, la reputazione e le finanze della superpotenza americana.
Trattandosi di grandi scelte di strategia militare e di politica estera del paese, la cittadinanza americana, nella sua maggioranza, non è né “vigile”“accorta” nel senso auspicato da Eisenhower, vale a dire nel senso di una forza capace di controllare, strettamente, le decisioni governative e di opporvisi, eventualmente, se queste vadano contro l’interesse generale. La sua assoluta indifferenza a quanto accade fuori delle sue frontiere la predispone a fare affidamento nei propri leaders e a prendere per oro colato tutto quello che questi dicono.
L’esempio più sbalorditivo è la convergenza della maggioranza degli americani con l’ex-presidente George W. Bush. Non è un segreto per nessuno che questi sia stato la marionetta comune del complesso industriale-militare e della lobby petrolifera, che lo hanno utilizzato e manipolato a volontà. Per servire gli interessi dei fabbricanti di armi e delle compagnie petrolifere, Bush e il suo staff hanno manipolato, a loro volta, il popolo americano, facendogli ingoiare la menzogna delle armi di distruzione di massa e del pericolo rappresentato da Saddam Hussein per il mondo, in generale, e per gli Stati Uniti, in particolare.
E nonostante la menzogna di Bush venisse alla luce, nonostante la sua invasione dell’Iraq volgesse al disastro, i cittadini americani lo rieleggevano, nel novembre del 2004, per un secondo mandato.
Una così grande mancanza di vigilanza e di coscienza farebbe rivoltare Eisenhower nella tomba!
Il popolo americano, che conta 300 milioni di individui e rappresenta meno del 5% della popolazione mondiale, non si è mai posto la domanda perché si spenda per il suo esercito e per la sua sicurezza quanto se non di più del resto del mondo. Ironia della storia, il cinquantesimo anniversario del celebre monito di Eisenhower coincide con l’adozione da parte dei rappresentanti del popolo americano di un budget militare record: 735 miliardi di dollari, il cui principale beneficiario non è altri che il complesso industriale-militare. Se si aggiungono a questo budget del Pentagono quelli dei dipartimenti della sicurezza interna, dell’energia e quello dei veterani delle guerre americane, il budget totale per la difesa e la sicurezza sale a 861 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2011, superando di gran lunga quello che spende il resto dell’umanità in questi settori.
Il popolo americano, che conta 300 milioni di individui e rappresenta meno del 5% della popolazione mondiale,  non si è neppure mai posto la domanda perché occorrano 800 basi militari, disseminate in una quarantina di paesi, dal momento che l’America è il paese meglio protetto del mondo, e non solo da un potente esercito e da una competitiva difesa antiaerea, ma soprattutto da due immensi oceani, capaci di scoraggiare, da soli, qualsiasi nemico tentasse di attraversarli per invaderlo. Anche in questo caso, il principale beneficiario della disseminazione e della moltiplicazione delle basi americane attraverso il mondo è il complesso industriale-militare, da cui aveva messo in guardia Eisenhower, mezzo secolo fa.
La corsa all’armamento nucleare e convenzionale, imposto dagli Stati Uniti ai loro rivali della Guerra Fredda, le politiche aggressive condotte da Washington in Vietnam e in diversi paesi del Medio Oriente e in America Latina e la “guerra globale contro il terrorismo” possono essere comprese solo attraverso l’“influenza ingiustificata” del complesso industriale-militare, il cui unico interesse si limita al numero di contratti ottenuti e al calcolo della percentuale relativa all’incremento annuale del numero di affari.
Fino a quando continuerà?
Fino all’emersione di quella “cittadinanza vigile e accorta”.
Se mai emergerà un giorno!




Note:
(1) President Bryan, distinguished guests of this Association, and ladies and gentlemen: I am happy to be here. I say this and I mean it very sincerely for a number of reasons. Not the least of these is the number of friends I am honored to count among you. Over the years we have seen, tanked, agreed, and argued with one another on a vast variety of subjects, under circumstances no less varied. We have met at home and in distant lands. We have been together at times when war seemed endless, at times when peace seemed near, at times when peace seemed to have eluded us again. We have met in times of battle, both military and electoral, and all these occasions mean to me memories of enduring friendships.
I am happy to be here for another reason. This occasion calls for my first formal address to the American people since assuming the office of the presidency just twelve weeks ago. It is fitting, I think, that I speak to you the editors of America. You are, in such a vital way, both representatives of and responsible to the people of our country. In great part upon you -- upon your intelligence, your integrity, your devotion to the ideals of freedom and justice themselves -- depend the understanding and the knowledge with which our people must meet the facts of twentieth-century life. Without such understanding and knowledge our people would be incapable of promoting justice; without them, they would be incapable of defending freedom.
Finally, I am happy to be here at this time before this audience because I must speak of that issue that comes first of all in the hearts and minds of all of us -- that issue which most urgently challenges and summons the wisdom and the courage of our whole people. This issue is peace.
In this spring of 1953 the free world weighs one question above all others: the chances for a just peace for all peoples. To weigh this chance is to summon instantly to mind another recent moment of great decision. It came with that yet more hopeful spring of 1945, bright with the promise of victory and of freedom. The hopes of all just men in that moment too was a just and lasting peace.
The 8 years that have passed have seen that hope waver, grow dim, and almost die. And the shadow of fear again has darkly lengthened across the world. Today the hope of free men remains stubborn and brave, but it is sternly disciplined by experience. It shuns not only all crude counsel of despair but also the self-deceit of easy illusion. It weighs the chances for peace with sure, clear knowledge of what happened to the vain hopes of 1945.
In that spring of victory the soldiers of the Western Allies met the soldiers of Russia in the center of Europe. They were triumphant comrades in arms. Their peoples shared the joyous prospect of building, in honor of their dead, the only fitting monument -- an age of just peace. All these war-weary peoples shared too this concrete, decent purpose: to guard vigilantly against the domination ever again of any part of the world by a single, unbridled aggressive power.
This common purpose lasted an instant and perished. The nations of the world divided to follow two distinct roads.
> The leaders of the Soviet Union chose another.
The way chosen by the United States was plainly marked by a few clear precepts, which govern its conduct in world affairs. First: No people on earth can be held, as a people, to be an enemy, for all humanity shares the common hunger for peace and fellowship and justice.
Second: No nation's security and well-being can be lastingly achieved in isolation but only in effective cooperation with fellow-nations.
Third: Every nation's right to a form of government and an economic system of its own choosing is inalienable.
Fourth: Any nation's attempt to dictate to other nations their form of government is indefensible.
And fifth: A nation's hope of lasting peace cannot be firmly based upon any race in armaments but rather upon just relations and honest understanding with all other nations.
In the light of these principles the citizens of the United States defined the way they proposed to follow, through the aftermath of war, toward true peace.
This way was faithful to the spirit that inspired the United Nations: to prohibit strife, to relieve tensions, to banish fears. This way was to control and to reduce armaments. This way was to allow all nations to devote their energies and resources to the great and good tasks of healing the war's wounds, of clothing and feeding and housing the needy, of perfecting a just political life, of enjoying the fruits of their own toil.
The Soviet government held a vastly different vision of the future. In the world of its design, security was to be found, not in mutual trust and mutual aid but in force: huge armies, subversion, rule of neighbor nations. The goal was power superiority at all cost. Security was to be sought by denying it to all others.
The result has been tragic for the world and, for the Soviet Union, it has also been ironic.
The amassing of Soviet power alerted free nations to a new danger of aggression. It compelled them in self-defense to spend unprecedented money and energy for armaments. It forced them to develop weapons of war now capable of inflicting instant and terrible punishment upon any aggressor.
It instilled in the free nations -- and let none doubt this -- the unshakable conviction that, as long as there persists a threat to freedom, they must, at any cost, remain armed, strong, and ready for the risk of war.
It inspired them -- and let none doubt this -- to attain a unity of purpose and will beyond the power of propaganda or pressure to break, now or ever.
There remained, however, one thing essentially unchanged and unaffected by Soviet conduct. This unchanged thing was the readiness of the free world to welcome sincerely any genuine evidence of peaceful purpose enabling all peoples again to resume their common quest of just peace. And the free world still holds to that purpose.
The free nations, most solemnly and repeatedly, have assured the Soviet Union that their firm association has never had any aggressive purpose whatsoever. Soviet leaders, however, have seemed to persuade themselves, or tried to persuade their people, otherwise.
And so it has come to pass that the Soviet Union itself has shared and suffered the very fears it has fostered in the rest of the world.
This has been the way of life forged by 8 years of fear and force.
What can the world, or any nation in it, hope for if no turning is found on this dread road?
The worst to be feared and the best to be expected can be simply stated.
The worst is atomic war.
The best would be this: a life of perpetual fear and tension; a burden of arms draining the wealth and the labor of all peoples; a wasting of strength that defies the American system or the Soviet system or any system to achieve true abundance and happiness for the peoples of this earth.
Every gun that is made, every warship launched, every rocket fired signifies, in the final sense, a theft from those who hunger and are not fed, those who are cold and are not clothed.
This world in arms is not spending money alone.
It is spending the sweat of its laborers, the genius of its scientists, the hopes of its children.
The cost of one modern heavy bomber is this: a modern brick school in more than 30 cities.
It is two electric power plants, each serving a town of 60,000 population. It is two fine, fully equipped hospitals.
It is some fifty miles of concrete pavement.
We pay for a single fighter plane with a half million bushels of wheat.
We pay for a single destroyer with new homes that could have housed more than 8,000 people.
This is, I repeat, the best way of life to be found on the road the world has been taking.
This is not a way of life at all, in any true sense. Under the cloud of threatening war, it is humanity hanging from a cross of iron. These plain and cruel truths define the peril and point the hope that come with this spring of 1953.
This is one of those times in the affairs of nations when the gravest choices must be made, if there is to be a turning toward a just and lasting peace.
It is a moment that calls upon the governments of the world to speak their intentions with simplicity and with honesty.
It calls upon them to answer the question that stirs the hearts of all sane men: is there no other way the world may live?
The world knows that an era ended with the death of Joseph Stalin. The extraordinary 30-year span of his rule saw the Soviet Empire expand to reach from the Baltic Sea to the Sea of Japan, finally to dominate 800 million souls.
The Soviet system shaped by Stalin and his predecessors was born of one World War. It survived with stubborn and often amazing courage a second World War. It has lived to threaten a third.
Now a new leadership has assumed power in the Soviet Union. Its links to the past, however strong, cannot bind it completely. Its future is, in great part, its own to make.
This new leadership confronts a free world aroused, as rarely in its history, by the will to stay free.
The free world knows, out of the bitter wisdom of experience, that vigilance and sacrifice are the price of liberty.
It knows that the peace and defense of Western Europe imperatively demands the unity of purpose and action made possible by the North Atlantic Treaty Organization, embracing a European Defense Community.
It knows that Western Germany deserves to be a free and equal partner in this community and that this, for Germany, is the only safe way to full, final unity.
It knows that aggression in Korea and in southeast Asia are threats to the whole free community to be met only through united action.
This is the kind of free world which the new Soviet leadership confronts. It is a world that demands and expects the fullest respect of its rights and interests. It is a world that will always accord the same respect to all others. So the new Soviet leadership now has a precious opportunity to awaken, with the rest of the world, to the point of peril reached and to help turn the tide of history.
Will it do this?
We do not yet know. Recent statements and gestures of Soviet leaders give some evidence that they may recognize this critical moment.
We welcome every honest act of peace.
We care nothing for mere rhetoric.
We care only for sincerity of peaceful purpose attested by deeds. The opportunities for such deeds are many. The performance of a great number of them waits upon no complex protocol but only upon the simple will to do them. Even a few such clear and specific acts, such as Soviet Union's signature upon an Austrian treaty or its release of thousands of prisoners still held from World War II, would be impressive signs of sincere intent. They would carry a power of persuasion not to be matched by any amount of oratory.
This we do know: a world that begins to witness the rebirth of trust among nations can find its way to a peace that is neither partial nor punitive.
With all who will work in good faith toward such a peace, we are ready, with renewed resolve, to strive to redeem the near-lost hopes of our day.
The first great step along this way must be the conclusion of an honorable armistice in Korea.
This means the immediate cessation of hostilities and the prompt initiation of political discussions leading to the holding of free elections in a united Korea.
It should mean, no less importantly, an end to the direct and indirect attacks upon the security of Indochina and Malaya. For any armistice in Korea that merely released aggressive armies to attack elsewhere would be a fraud. We seek, throughout Asia as throughout the world, a peace that is true and total.
Out of this can grow a still wider task -- the achieving of just political settlements for the other serious and specific issues between the free world and the Soviet Union.
None of these issues, great or small, is insoluble -- given only the will to respect the rights of all nations. Again we say: the United States is ready to assume its just part.
We have already done all within our power to speed conclusion of a treaty with Austria, which will free that country from economic exploitation and from occupation by foreign troops.
We are ready not only to press forward with the present plans for closer unity of the nations of Western Europe but also, upon that foundation, to strive to foster a broader European community, conducive to the free movement of persons, of trade, and of ideas.
This community would include a free and united Germany, with a government based upon free and secret ballot. This free community and the full independence of the East European nations could mean the end of the present unnatural division of Europe.
As progress in all these areas strengthens world trust, we could proceed concurrently with the next great work -- the reduction of the burden of armaments now weighing upon the world. To this end we would welcome and enter into the most solemn agreements. These could properly include:
1. The limitation, by absolute numbers or by an agreed international ratio, of the sizes of the military and security forces of all nations.
2. A commitment by all nations to set an agreed limit upon that proportion of total production of certain strategic materials to be devoted to military purposes.
3. International control of atomic energy to promote its use for peaceful purposes only and to insure the prohibition of atomic weapons.
4. A limitation or prohibition of other categories of weapons of great destructiveness.
5. The enforcement of all these agreed limitations and prohibitions by adequate safeguards, including a practical system of inspection under the United Nations.
The details of such disarmament programs are manifestly critical and complex.
Neither the United States nor any other nation can properly claim to possess a perfect, immutable formula. But the formula matters less than the faith -- the good faith without which no formula can work justly and effectively.
The fruit of success in all these tasks would present the world with the greatest task, and the greatest opportunity, of all. It is this: the dedication of the energies, the resources, and the imaginations of all peaceful nations to a new kind of war. This would be a declared total war, not upon any human enemy but upon the brute forces of poverty and need.
The peace we seek, founded upon decent trust and cooperative effort among nations, can be fortified, not by weapons of war but by wheat and by cotton, by milk and by wool, by meat and timber and rice. These are words that translate into every language on earth. These are the needs that challenge this world in arms.
This idea of a just and peaceful world is not new or strange to us. It inspired the people of the United States to initiate the European Recovery Program in 1947. That program was prepared to treat, with equal concern, the needs of Eastern and Western Europe.
We are prepared to reaffirm, with the most concrete evidence, our readiness to help build a world in which all peoples can be productive and prosperous.
This Government is ready to ask its people to join with all nations in devoting a substantial percentage of any savings achieved by real disarmament to a fund for world aid and reconstruction. The purposes of this great work would be to help other peoples to develop the undeveloped areas of the world, to stimulate profitable and fair world trade, to assist all peoples to know the blessings of productive freedom.
The monuments to this new war would be roads and schools, hospitals and homes, food and health.
We are ready, in short, to dedicate our strength to serving the needs, rather than the fears, of the world.
I know of nothing I can add to make plainer the sincere purposes of the United States.
I know of no course, other than that marked by these and similar actions, that can be called the highway of peace.
I know of only one question upon which progress waits. It is this: What is the Soviet Union ready to do?
Whatever the answer is, let it be plainly spoken.
Again we say: the hunger for peace is too great, the hour in history too late, for any government to mock men's hopes with mere words and promises and gestures.
Is the new leadership of the Soviet Union prepared to use its decisive influence in the Communist world, including control of the flow of arms, to bring not merely an expedient truce in Korea but genuine peace in Asia?
Is it prepared to allow other nations, including those in Eastern Europe, the free choice of their own form of government?
Is it prepared to act in concert with others upon serious disarmament proposals?
If not, where then is the concrete evidence of the Soviet Union's concern for peace?
There is, before all peoples, a precarious chance to turn the black tide of events.
If we failed to strive to seize this chance, the judgment of future ages will be harsh and just.
If we strive but fail and the world remains armed against itself, it at least would need be divided no longer in its clear knowledge of who has condemned humankind to this fate.
The purpose of the United States, in stating these proposals, is simple. These proposals spring, without ulterior motive or political passion, from our calm conviction that the hunger for peace is in the hearts of all people -- those of Russia and of China no less than of our own country.
They conform to our firm faith that God created man to enjoy, not destroy, the fruits of the earth and of their own toil.
They aspire to this: the lifting, from the backs and from the hearts of men, of their burden of arms and of fears, so that they may find before them a golden age of freedom and of peace.
Thank you.
The Chance for Peace
by Dwight D. Eisenhower
April 16, 1953
Washington, D.C.
(2) Comandante in capo delle Forze Alleate in Europa, durante la Seconda Guerra Mondiale, con il grado di tenente generale e promosso, il 20 dicembre 1944, a General of the Army, Dwight David “Ike” Eisenhower (Denison, 14 ottobre 1890 – Washington, 28 marzo 1969) è stato, dal 1953 al 1961, il trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti d'America.
(3) Good evening, my fellow Americans.
First, I should like to express my gratitude to the radio and television networks for the opportunities they have given me over the years to bring reports and messages to our nation. My special thanks go to them for the opportunity of addressing you this evening.
Three days from now, after half century in the service of our country, I shall lay down the responsibilities of office as, in traditional and solemn ceremony, the authority of the Presidency is vested in my successor. This evening, I come to you with a message of leave-taking and farewell, and to share a few final thoughts with you, my countrymen.
Like every other -- Like every other citizen, I wish the new President, and all who will labor with him, Godspeed. I pray that the coming years will be blessed with peace and prosperity for all.
Our people expect their President and the Congress to find essential agreement on issues of great moment, the wise resolution of which will better shape the future of the nation. My own relations with the Congress, which began on a remote and tenuous basis when, long ago, a member of the Senate appointed me to West Point, have since ranged to the intimate during the war and immediate post-war period, and finally to the mutually interdependent during these past eight years. In this final relationship, the Congress and the Administration have, on most vital issues, cooperated well, to serve the nation good, rather than mere partisanship, and so have assured that the business of the nation should go forward. So, my official relationship with the Congress ends in a feeling -- on my part -- of gratitude that we have been able to do so much together.
We now stand ten years past the midpoint of a century that has witnessed four major wars among great nations. Three of these involved our own country. Despite these holocausts, America is today the strongest, the most influential, and most productive nation in the world. Understandably proud of this pre-eminence, we yet realize that America's leadership and prestige depend, not merely upon our unmatched material progress, riches, and military strength, but on how we use our power in the interests of world peace and human betterment.
Throughout America's adventure in free government, our basic purposes have been to keep the peace, to foster progress in human achievement, and to enhance liberty, dignity, and integrity among peoples and among nations. To strive for less would be unworthy of a free and religious people. Any failure traceable to arrogance, or our lack of comprehension, or readiness to sacrifice would inflict upon us grievous hurt, both at home and abroad.
Progress toward these noble goals is persistently threatened by the conflict now engulfing the world. It commands our whole attention, absorbs our very beings. We face a hostile ideology global in scope, atheistic in character, ruthless in purpose, and insiduous [insidious] in method. Unhappily, the danger it poses promises to be of indefinite duration. To meet it successfully, there is called for, not so much the emotional and transitory sacrifices of crisis, but rather those which enable us to carry forward steadily, surely, and without complaint the burdens of a prolonged and complex struggle with liberty the stake. Only thus shall we remain, despite every provocation, on our charted course toward permanent peace and human betterment.
Crises there will continue to be. In meeting them, whether foreign or domestic, great or small, there is a recurring temptation to feel that some spectacular and costly action could become the miraculous solution to all current difficulties. A huge increase in newer elements of our defenses; development of unrealistic programs to cure every ill in agriculture; a dramatic expansion in basic and applied research -- these and many other possibilities, each possibly promising in itself, may be suggested as the only way to the road we wish to travel.
But each proposal must be weighed in the light of a broader consideration: the need to maintain balance in and among national programs, balance between the private and the public economy, balance between the cost and hoped for advantages, balance between the clearly necessary and the comfortably desirable, balance between our essential requirements as a nation and the duties imposed by the nation upon the individual, balance between actions of the moment and the national welfare of the future. Good judgment seeks balance and progress. Lack of it eventually finds imbalance and frustration. The record of many decades stands as proof that our people and their Government have, in the main, understood these truths and have responded to them well, in the face of threat and stress.
But threats, new in kind or degree, constantly arise. Of these, I mention two only.
A vital element in keeping the peace is our military establishment. Our arms must be mighty, ready for instant action, so that no potential aggressor may be tempted to risk his own destruction. Our military organization today bears little relation to that known of any of my predecessors in peacetime, or, indeed, by the fighting men of World War II or Korea.
Until the latest of our world conflicts, the United States had no armaments industry. American makers of plowshares could, with time and as required, make swords as well. But we can no longer risk emergency improvisation of national defense. We have been compelled to create a permanent armaments industry of vast proportions. Added to this, three and a half million men and women are directly engaged in the defense establishment. We annually spend on military security alone more than the net income of all United States cooperations -- corporations.
Now this conjunction of an immense military establishment and a large arms industry is new in the American experience. The total influence -- economic, political, even spiritual -- is felt in every city, every Statehouse, every office of the Federal government. We recognize the imperative need for this development. Yet, we must not fail to comprehend its grave implications. Our toil, resources, and livelihood are all involved. So is the very structure of our society.
In the councils of government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex. The potential for the disastrous rise of misplaced power exists and will persist. We must never let the weight of this combination endanger our liberties or democratic processes. We should take nothing for granted. Only an alert and knowledgeable citizenry can compel the proper meshing of the huge industrial and military machinery of defense with our peaceful methods and goals, so that security and liberty may prosper together.
Akin to, and largely responsible for the sweeping changes in our industrial-military posture, has been the technological revolution during recent decades. In this revolution, research has become central; it also becomes more formalized, complex, and costly. A steadily increasing share is conducted for, by, or at the direction of, the Federal government.
Today, the solitary inventor, tinkering in his shop, has been overshadowed by task forces of scientists in laboratories and testing fields. In the same fashion, the free university, historically the fountainhead of free ideas and scientific discovery, has experienced a revolution in the conduct of research. Partly because of the huge costs involved, a government contract becomes virtually a substitute for intellectual curiosity. For every old blackboard there are now hundreds of new electronic computers. The prospect of domination of the nation's scholars by Federal employment, project allocations, and the power of money is ever present -- and is gravely to be regarded.
Yet, in holding scientific research and discovery in respect, as we should, we must also be alert to the equal and opposite danger that public policy could itself become the captive of a scientific-technological elite.
It is the task of statesmanship to mold, to balance, and to integrate these and other forces, new and old, within the principles of our democratic system -- ever aiming toward the supreme goals of our free society.
Another factor in maintaining balance involves the element of time. As we peer into society's future, we -- you and I, and our government -- must avoid the impulse to live only for today, plundering for our own ease and convenience the precious resources of tomorrow. We cannot mortgage the material assets of our grandchildren without risking the loss also of their political and spiritual heritage. We want democracy to survive for all generations to come, not to become the insolvent phantom of tomorrow.
During the long lane of the history yet to be written, America knows that this world of ours, ever growing smaller, must avoid becoming a community of dreadful fear and hate, and be, instead, a proud confederation of mutual trust and respect. Such a confederation must be one of equals. The weakest must come to the conference table with the same confidence as do we, protected as we are by our moral, economic, and military strength. That table, though scarred by many fast frustrations -- past frustrations, cannot be abandoned for the certain agony of disarmament -- of the battlefield.
Disarmament, with mutual honor and confidence, is a continuing imperative. Together we must learn how to compose differences, not with arms, but with intellect and decent purpose. Because this need is so sharp and apparent, I confess that I lay down my official responsibilities in this field with a definite sense of disappointment. As one who has witnessed the horror and the lingering sadness of war, as one who knows that another war could utterly destroy this civilization which has been so slowly and painfully built over thousands of years, I wish I could say tonight that a lasting peace is in sight.
Happily, I can say that war has been avoided. Steady progress toward our ultimate goal has been made. But so much remains to be done. As a private citizen, I shall never cease to do what little I can to help the world advance along that road.
So, in this, my last good night to you as your President, I thank you for the many opportunities you have given me for public service in war and in peace. I trust in that -- in that -- in that service you find some things worthy. As for the rest of it, I know you will find ways to improve performance in the future.
You and I, my fellow citizens, need to be strong in our faith that all nations, under God, will reach the goal of peace with justice. May we be ever unswerving in devotion to principle, confident but humble with power, diligent in pursuit of the Nations' great goals.
To all the peoples of the world, I once more give expression to America's prayerful and continuing aspiration: We pray that peoples of all faiths, all races, all nations, may have their great human needs satisfied; that those now denied opportunity shall come to enjoy it to the full; that all who yearn for freedom may experience its few spiritual blessings. Those who have freedom will understand, also, its heavy responsibility; that all who are insensitive to the needs of others will learn charity; and that the sources -- scourges of poverty, disease, and ignorance will be made [to] disappear from the earth; and that in the goodness of time, all peoples will come to live together in a peace guaranteed by the binding force of mutual respect and love.
Now, on Friday noon, I am to become a private citizen. I am proud to do so. I look forward to it.
Thank you, and good night.
Eisenhower's Farewell Address Jan 17, 1961
http://www.youtube.com/watch?v=KCRDp4OF5Ig&feature=related



Daniela Zini
Copyright © 17 gennaio 2011