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domenica 12 giugno 2011

IRAN DUE ANNI DOPO LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA 12 giugno 2009 - 12 giugno 2011

La lingua ci aiuta a mentire, come sosteneva Charles-Maurice deTalleyrand-Périgord o, invece, oppone resistenza alla menzogna, come auspicava Sant’Agostino?

IRAN DUE ANNI DOPO LA RIVOLUZIONE INCOMPIUTA
12 giugno 2009 – 12 giugno 2011


a E., G., A. ed A.
che possiate vedere un mondo migliore di quello che vi abbiamo consegnato. 

“Ogni rivoluzione che possa dirsi tale ha tre componenti principali: un atteggiamento specifico verso il mondo, un programma per trasformarlo in modo essenziale e una fiducia incrollabile che questo programma si possa realizzare: una visione del mondo, un programma e una fede.”
Donald Fleming


di
Daniela Zini




V
i sono particolari momenti, misteriosamente privilegiati, in cui taluni Paesi ci rivelano, con un’intuizione subitanea, la loro anima, in qualche modo, la loro essenza precipua, in cui ne cogliamo una visione esatta, unica, che, mesi e mesi di studio paziente, non potrebbero rendere più completa, né diversa. In questi momenti furtivi, tuttavia, ci sfuggono necessariamente dei dettagli, vediamo solo l’insieme delle cose.
Particolare stato d’animo o aspetto speciale dei luoghi, colto al volo e sempre in modo inconscio?
Non lo so…
Amo l’Iran di un amore oscuro, misterioso, profondo, inspiegabile, ma reale e indistruttibile.
Dovrei, invece, trovare la forza di sottrarmi a questa malia… ma dove trovare il coraggio di reagire?
È un sentimento particolare: mi sembra di costeggiare un abisso, un mistero di cui non sia stata ancora svelata l’ultima… anzi, la prima parola, e che racchiuda tutto il senso della mia vita. Finché non conoscerò la chiave di questo enigma, non saprò chi sono, né la ragione e lo scopo della mia sorte davvero straordinaria.
Mi sembra, tuttavia, di non essere destinata a scomparire senza avere avuto la rivelazione di tutto il profondo mistero che ha circondato la mia vita, dai primi giorni a oggi.
Cos’è una patria?
Un luogo per vivere, un luogo per essere.
Io vivo nelle mie poesie, nelle parole che cercano di respingere le frontiere fino alla temerità.
Ho la polvere sotto la lingua.
Oggi, so che mai sarò, totalmente, separata, tagliata da questa terra.
Follia, diranno gli increduli!



1.                     Iran 1979-2011: gli orfani della rivoluzione
Se, da due anni, le donne e gli uomini dei Paesi, cosiddetti liberi, trattengono il respiro e ammirano il coraggio delle donne e degli uomini in Iran, di contro, in questi stessi Paesi, i poteri e la maggior parte dei partiti politici restano testimoni indifferenti delle lotte in Iran.
Alcuni osservatori suggeriscono che le repressioni violente dello Stato, gli arresti in massa, le torture e, soprattutto, le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici, falsamente accusati di terrorismo, abbiano avuto ragione del movimento dei diritti civili e segnalano la normalizzazione della situazione politica in Iran.
La calma è stata, dunque, ristabilita in Iran?
Niente affatto.
La lotta per la democrazia è, dunque, cessata in Iran?
Niente affatto.
L’Iran è in preda a una crisi generale che tocca tutte le sfere della società, dalle fabbriche alle università.
Il rovesciamento del regime è fallito.
Il Paese ha sempre il volto schiacciato sotto lo stivale del dittatore.
Il quotidiano triste e severo ha ripreso il suo corso.
L’Iran vive nella paura.
L’Iran sta morendo.
L’Iran sta morendo in nome di una causa.
L’Iran pretende essere una teocrazia, un governo basato sulla religione.
Ma, in Iran, Dio esiste?
Su certi biglietti di banca con l’effigie dell’ayatollah Ruhollah Khomeini (1902-1989) si può leggere:

“Giugno è il mese della lotta.”,

o ancora:

“Morte a Khamenei.” 

Per lungo tempo i media ci hanno mostrato un Iran totalitario e oscurantista. Poi, questa immagine semplicistica, che discende dal postulato che le società islamiche siano forzatamente segnate dall’arretratezza, è, a poco a poco, divenuta più complessa. La diffusione di film realizzati da una nouvelle vague di cineasti iraniani, quali Abbas Kiarostami (1940), Mohsem Makhmalbaf (1957), Majid Majidi (1959) e Jafar Panahi (1960), che descrivono la realtà della società iraniana, ha permesso di scoprirne una ben diversa. Queste testimonianze su un altro Iran restano, tuttavia, ancora molto insufficienti per dare a un largo pubblico una immagine completa della realtà iraniana.
Einstein diceva:

“È più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio.”

Dietro la tragica maschera mediatica dell’Iran degli ayatollah si trova, infatti, una società che è ancora sotto lo choc della rivoluzione del 1979 e delle sue molteplici conseguenze.
Trentadue anni fa, l’ascesa al potere di un regime islamico dà all’islam un impulso ideologico sconosciuto prima. Ma, per mantenersi al potere, il regime deve darsi un’immagine militante antiamericana: la sua esistenza si lega alla sua sedicente facciata antimperialista. Ricorrere alla nota tattica di creare un nemico esterno per unificare le masse dietro di sé salvaguarda il regime, in Iran, e sviluppa la sua immagine di forza antimperialista su scala regionale e internazionale. Il Paese conosce, allora, un vasto movimento di epurazione e di repressione, ma anche una profonda rivoluzione sociale. In seno al nuovo governo e tra i sostenitori di Ruhollah Khomeini, le personalità che prendono posizione contro le esecuzioni si contano sulle dita di una mano.
Nel 1981, sono 406 le persone giustiziate, legate al regime Pahlavi. E solo nella città di Tehran.
Ma si tratta di una epurazione che fa seguito a un cambio di potere…
È violenta, come era, facilmente, prevedibile.
La banalizzazione dell’eliminazione, spesso fisica, come strumento di lotta in campo politico e come mezzo di protezione di un entre-soi sempre più stretto, ci può aiutare a comprendere la situazione attuale.
Dopo l’occupazione dell’ambasciata degli Stati Uniti, a Tehran, il 4 novembre 1979, il primo ministro dell’epoca, Mehdi Bazargan (1907-1995) , sostenuto dai mojahedin-e khalq e degno rappresentante del bazar, il movimento socialmente conservatore che incentiva la liberalizzazione degli scambi, deve dimettersi. Discreditato, lascia il potere nel momento della “seconda rivoluzione”, iniziata dall’imam Khomeini, il cui obiettivo è di mettere fine all’ingerenza straniera, principalmente statunitense, nel Paese. Ma la definitiva estromissione del suo partito non si compie che con l’esilio del primo presidente della repubblica islamica, Abol Hassan Banisadr (1933), nel luglio del 1981.
Il nuovo regime ha solo due anni quando si sbarazza degli ultimi laici.
Sulla base di alcuni documenti, recuperati negli archivi segreti dell’ambasciata americana a Tehran, numerosi uomini politici reputati filo-occidentali dal potere iraniano erano nella lista nera, Abbas Amir Entezam (1933), ex-ambasciatore in Svezia ed ex-vice-primo ministro del governo Bazargan, Hassan Nazih (1918) (http://www.youtube.com/watch?v=weJkGXw5rDg), ex-direttore della National Iranian Oil Company, Rahmatollah Moghadam-Maraghi, capo del partito radicale  e il grande ayatollah Mohammad Kazem Shariatmadari, (1905-1986) (http://www.youtube.com/watch?v=Gt79IudNI18), considerato un liberale di destra.
Nel corso degli anni 1980, la guerra contro l’Iraq è, sistematicamente, evocata per ridurre ulteriormente il numero degli oppositori. Nel 1983, è il grande ayatollah Mohammad Kazem Shariatmadari, potenziale avversario di Ruhollah Khomeini, in termini di popolarità, a dover “confessare i propri errori” e, nel 1988, è il grande ayatollah Ali Montazeri (http://www.youtube.com/watch?v=bzoV7PhX4ns&NR=1&feature=fvwp), che subisce una emarginazione politica per aver protestato contro l’ennesimo bagno di sangue di migliaia di mojahedin-e khalq.

Il diniego dei diritti del popolo, l’ingiustizia e il disconoscere i veri valori della rivoluzione hanno portato i più severi colpi alla rivoluzione. Prima di ogni ricostruzione, vi deve essere una ricostruzione politica e ideologica. (…)
 È quello che si aspetta il popolo da un leader.”
Ali Montazeri, Keyhan, 1989

La macchina per eliminare gli avversari politici non si arresta, né rallenta con la morte di Khomeini, il 3 giugno 1989. Da quel momento, l’epurazione colpisce gli ex-fedelissimi dell’imam, compresi i sostenitori della linea dura. È il caso di Behzad Nabavi (1941), che, qualche annno prima, si era rallegrato della caduta del governo Bazargan, di Said Hajjarian (1954), padre fondatore dei servizi segreti, e di Sheikh Sadeq Khalkhali (1926-2003) (http://www.youtube.com/watch?v=1RKf-ZVqnSU55), che, un anno dopo la rivoluzione, poteva vantare l’esecuzione di 55 monarchici, tra i quali Amir Abbas Hoveyda, ex-primo ministro dello shah Mohammad Reza Pahlavi (1919-1980) e Nematollah Nassiri (1911-1979) (http://www.youtube.com/watch?v=fM-aU3P3VmI), ex-capo della SAVAK. Ma l’epurazione dei “figli della rivoluzione” raggiunge il suo apice, nel 1995, con l’eliminazione di Ahmad Khomeini (1945-1995) (http://www.youtube.com/watch?v=pqD6CugE8LY&feature=fvst), scomparso nel quadro degli assassini in serie che segnano tutto il decennio. Ahmad, figlio più giovane nonché braccio destro di Khomeini, doveva, dunque, conoscere, a sua volta, contro ogni attesa, la stessa sorte delle altre vittime del sistema epurativo di suo padre. Lui stesso affermava che “per raggiungere gli obiettivi del padre, (non aveva) pietà per nessuno”.    
Più tardi, il presidente Mohammad Khatami (1943) denuncerà questa “pratica”. 
Con gli eventi pre e post-elettorali del giugno del 2009, l’eliminazione degli avversari di un establishment sempre più ridotto, entra in una nuova fase. Gli insiders di ieri sono divenuti i nuovi outsiders, i nuovi “traditori”.
Nel 1979, uno dei protagonisti del colpo di Stato (http://www.youtube.com/watch?v=urAjTX51ebc&feature=related) che, nell’agosto del 1953, aveva fatto cadere il primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq (1882-1967) (http://www.youtube.com/watch?v=LdoPln7BEL8), prima di essere giustiziato, ammoniva il suo giudice:

“Conti di imprigionarmi? Vedrai, anche tu ti farai imprigionare! Conti di farmi giustiziare? Vedrai, anche tu ti farai giustiziare!”

Dieci anni dopo, quel giudice era, a sua volta, giustiziato.
Se nessuno può dire come evolverà la configurazione del potere in Iran, abbiamo, tuttavia, una delle ragioni della debole leggibilità del suo funzionamento, che trova la sua origine in questa “pratica” di emarginazione e di eliminazione fisica degli oppositori politici. Una “pratica” che rinsalda sempre più l’entre-soi, poiché ogni amico può divenire, un giorno, un nemico da abbattere.
Dopo venti anni di potere assoluto e arbitrario sul popolo iraniano, la guida suprema Ali Khamenei (1939) segue le tracce dello shah Mohammad Reza Pahlavi. Che lo riconosca o no, ha scelto la via della tirannia, che i popoli d’Iran e del mondo intero hanno rigettato, a più riprese, nelle pattumiere della Storia. Reprimendo, violentemente, la manifestazione del 20 giugno 2009, Ali Khamenei ha commesso lo stesso fatale errore dello shah, quando, l’8 settembre 1978, ordinò all’esercito di sparare sulla folla. I pasdaran non fanno che sostituire i soldati dello shah e i bassiji gli uomini armati di bastone al soldo del regime imperiale. Hanno lo stesso obiettivo: soffocare nel sangue le rivendicazioni del popolo.
Ali Khamenei ha dimenticato cosa ha permesso la vittoria del popolo contro lo shah.
Non è stata né la guerra armata, né le violente manifestazioni.
Il popolo iraniano ha vinto sotto le stesse insegne dell’imam Hossein di fronte alle truppe del califfo Yazid:

“Il sangue vince sulle armi.

Khamenei ha dimenticato che lo shah decretava la sua fine, inviando l’esercito nelle strade.
Nel 1979, la vittoria impressionante degli iraniani era, in parte, determinata da slogans quali:

“Mio fratello armato, perche uccidere il tuo stesso fratello?”

e gesti storici quali mettere fiori nelle canne dei fucili.
Khamenei ha dimenticato che ha di fronte quella generazione eroica e i suoi figli. E sono questi figli e queste figlie, che, dopo aver sopportato, in silenzio, il giogo, per anni, seguono il cammino tracciato dai genitori, riprendendone slogans e metodi. 
Gridano:

“Allah akbar!”,  

la notte, e

“Morte al dittatore!”,

il giorno.

Nel secondo anniversario della rielezione contestata di Mahmud Ahmadinejad (1956) è d’obbligo fare il punto sul faccia a faccia Stato-società civile che si è protratto con scaramucce irregolari fino a oggi, ma di cui non si sente più parlare nella stampa internazionale da mesi.
In questi due anni, il regime è riuscito a tenere schiacciato il Paese sotto una cappa di piombo. Le forze di sicurezza sono onnipresenti e gli iraniani sanno che “big ayatollah” può ascoltare le loro conversazioni telefoniche e leggere la loro posta elettronica.
La forte aspirazione a una più grande libertà individuale e a uno spazio pubblico liberato dall’influenza dello Stato è naturalmente accompagnata da una altrettanto forte aspirazione a uno Stato di diritto. La società chiede di essere autonoma, di avere uno spazio ove esercitare questa autonomia e beneficiare di un sistema che la protegga dall’azione arbitraria dello Stato. L’Iran soffre di uno Stato onnipotente rispetto alla popolazione che esercita il suo potere in modo completamente imprevedibile. Dal XIX secolo, questa assenza dello Stato di diritto è stata identificata da Amir Kabir (1807-1852), uno dei grandi uomini di Stato iraniani, come uno dei principali ostacoli all’accesso dell’Iran alla modernità.
La lotta, per riuscire, ha bisogno del sostegno delle forze democratiche di tutto il mondo.
È tempo che tutti i Paesi, gli europei in primis, cessino di occultare, per ragioni di ordine economico, il carattere “fascisteggiante” del regime e agiscano per la difesa della democrazia in Iran.
Preserverebbero meglio i propri interessi e la pace dei propri popoli.
L’Europa è il principale partner commerciale dell’Iran: circa il 40% del mercato.
Le grandi imprese europee dei settori dell’auto, dell’energia e delle telecomunicazioni beneficiano di una concorrenza meno rude su questo mercato, per il fatto dell’assenza delle compagnie americane, almeno ufficialmente.
Vi è un’opposizione vitale e durevole in Iran.
Ma, questa opposizione ha i difetti delle sue qualità.
Coesione accidentale di persone di ogni colore politico non ha una chiara strategia.
E, certamente, nessun grande leader.
E, tuttavia, affronta un regime politicamente indebolito, che ha commesso un errore colossale, secondo il sociologo americano Ali Akbar Mahdi:

“Ha ignorato le attese di un largo segmento della popolazione e ha perduto la capacità di interpretare il popolo.”

Risultato: si stima che circa il 70% degli iraniani auspichino la caduta del regime.
Il suo declino è talmente evidente che la sua leadership pensa di non avere, ormai, più nulla da perdere.
Gli slogans di Ahmadinejad ricalcano gli stessi concetti che hanno animato, trentatrè anni fa, il discorso di Ruhollah Khomeini: lotta contro la corruzione per la difesa dei diseredati e per il ritorno della dignità perduta del popolo musulmano di fronte alla dominazione dell’Occidente. La sola differenza è che il discorso di Khomeini, all’epoca, aveva la valenza di essere coerente, poiché promuoveva un futuro in rottura con il passato, vale a dire in rottura con il potere dello “shah alleato del diavolo”. Mentre gli slogans di Mahmud Ahmadinejad, fedele alla linea dell’imam, non vantano alcuna rottura, ma si iscrivono, al contrario, nella continuità di una visione politica, responsabile dell’anomia sociale che, attualmente, regna in Iran. Il potere politico, i mezzi istituzionali e la fortuna nazionale sono stati nelle mani degli islamici ed è il loro governo che ha prodotto la povertà e la corruzione, che ha portato al crescente divario tra ricchi e diseredati, che ha rafforzato e sostenuto le discriminazioni per religione, sesso e grado di obbedienza alle istanze ideologiche dominanti tra stessi iraniani. I suoi sforzi per proteggere l’Iran dalla contaminazione culturale del “Grande Satana” americano hanno ingenerato patologie sociali ben peggiori di quelle che si possono trovare in un qualunque Paese occidentale. 
In seno allo Stato, fondato sull’ideologizzazione dell’islam, l’elezione non è che un mezzo per praticare la fusione sacra della volontà di Dio e del popolo musulmano. Per fare ciò, la repubblica islamica ha creato i meccanismi di un potere che articola il diritto di voto del popolo e il diritto di veto dell’istanza religiosa. Gli otto anni di presidenza di Mohammad Khatami hanno messo in piena luce il vero potere di queste istanze e portato al fallimento dei riformisti. Le loro minime offensive e la progressione costante dei ruoli sociali avevano portato a una perversione delle tematiche della democrazia e della libertà, trasformandole in rivendicazioni di lusso, tagliate dalla realtà sociale, marcata da una vita quotidiana sempre più difficile, soprattutto per gli strati sfavoriti. La propaganda di Ahmadinejad aveva potuto sedurre una parte di questi ultimi. Le frodi avevano compiuto il resto.

“Chi controlla il passato controlla l’avvenire; chi controlla il presente controlla il passato.”,

scriveva George Orwell (1903-1950), analizzando le tecniche della manipolazione e spiegando come la menzogna passi alla storia. Come ammonisce Sant’Agostino (354-430), scrivendo a Crescenzio, la menzogna non è una semplice mancanza della verità, è il contrario della verità. È una falsificazione e non solo una privazione della verità. Esiste nella menzogna un elemento di attivismo e di aggressività, poiché mentire non induce semplicemente a percepire la realtà in modo errato, ma ad affermare l’esistenza di ciò che non è e a negare l’esistenza di ciò che è.
Sempre più tagliato dal suo popolo, sempre più isolato sulla scena internazionale, il regime iraniano sopravvive grazie alla repressione.
Quanto tempo può durare?
A lungo, ci insegna la Storia.
Ma non indefinitamente.
Non si tratta di un movimento insurrezionale, ma di un processo politico che agisce in profondità e guadagna terreno.
È un movimento di flusso e riflusso sul lungo termine.
Ma, infine, sarà la società a uscirne vittoriosa.
Di più, alcuni leaders religiosi divengono sempre più critici riguardo al potere. Iniziano a voler dissociare la religione dalla politica. Si sono resi conto che la “pratica” del potere usa la religione e la sua autorità morale. In Iraq, il grande ayatollah Ali al-Sistani, di origine iraniana, rifiuta di avere mandati politici e chiede ai suoi discepoli di fare altrettanto. Preferisce una influenza al potere e, così, riprende la grande tradizione sciita.
Nel primo periodo della repubblica islamica, vi erano sollevamenti, approssimativamente, ogni otto anni.
Oggi, i cambiamenti hanno tempi rapidi.
Penso che la crisi politica si risolverà tra due o tre anni.



2.                 Iran 2009: la terza rivoluzione
La prima rivoluzione, nel febbraio del 1979, aveva rovesciato lo shah.
La seconda, secondo Ruhollah Khomeini, era consistita nell’occupazione dell’ambasciata americana.
Sarebbe la terza?
All’indomani delle elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, che, grazie a una campagna vigorosa, avevano visto affluire alle urne un numero senza precedenti di elettori, la frode elettorale mobilitava più di 3 milioni di iraniani, che si erano sentiti gabbati e rivendicavano, pacificamente, il loro diritto a elezioni libere.
Un boccone ghiotto cadeva “bello e pronto” nel becco dei media occidentali. 
Quale che fosse, in effetti, la realtà delle cifre di questo scrutinio ufficiale che, con più del 63% dei voti, dava al presidente uscente, Mahmud Ahmadinejad, le mani libere per un secondo mandato, quello che traspariva, dalla violenza della repressione, dal disturbo delle comunicazioni e dagli arresti, era che l’Iran potesse, forse, lanciare la sua “terza rivoluzione”.
Sotto gli occhi del mondo intero, l’Iran era di fronte alla sua più grande crisi dalla rivoluzione del 1979.
Questa storia sembra scriversi da sola.  
Il principale candidato dell’opposizione ed ex-primo ministro Mir Hossein Musavi (1941), che aveva condotto tutta la sua campagna elettorale nel segno della sua buona fede di riformista, aveva, subito, rivestito il ruolo di leader dei difensori dei diritti civici e aveva esortato i suoi sostenitori a non cedere. Le manifestazioni erano proseguite per mesi, come le misure di repressione. Per resistere, infatti, al maremoto, il regime aveva dovuto dispiegare una macchina repressiva di una brutalità senza precedenti nella storia recente del Paese.
E la giustizia iraniana non scherza con i prigionieri politici.
Questi sono sistematicamente torturati.
Gli arresti arbitrari, le torture, i processi e le confessioni televisive delle vittime, avevano messo in evidenza la natura totalitaria di un regime spesso qualificato “semidemocratico” e messo in causa quello che ci era stato raccontato sulla società iraniana e sulle sue strutture socio-politiche e culturali. In modo ripetuto, ci era stato detto che l’Iran era una società islamica, che il popolo non era né contro la repubblica islamica né contro le regole e i costumi islamici. Che non voleva che minimi cambiamenti.
Come se gli iraniani fossero una sorta di masochisti cui piacesse essere torturati per praticare la propria cultura e le proprie credenze!
Gli eventi non facevano cadere solo il sistema politico, ma rivoluzionavano anche la visione del mondo di fronte all’islam e del ruolo dell’islam nelle società sotto la sua influenza. Questo processo era facilitato da un fattore importante: grazie alla moderna tecnologia e alla conoscenza tecnologica della giovane generazione iraniana, questa insurrezione si svolgeva davanti agli occhi del mondo intero. Il mondo vedeva una società civile scendere nelle strade, sfidare i manganelli, i gas lacrimogeni, le armi da fuoco, le torture brutali e gli stupri collettivi, per tenere testa allo Stato totalitario. Non è un caso se Neda, la giovane donna, la cui tragica morte, filmata da un cellulare e diffusa ovunque, sia divenuta l’icona del sollevamento popolare in Iran, l’icona di una rivoluzione femminile contro un regime che considera le donne individui a metà.
Questi supposti individui a metà, che affrontano non solo un sistema misogino, ma l’islam.
Questi supposti individui a metà, che sono spinti da una grande aspirazione di libertà.
E, mentre il regime si evolve a suo ritmo verso un’apertura controllata alla cinese, la società ha una dinamica propria ed evoluta, indipendente dalla facciata islamica del regime e delle sue querelles interne. È sufficiente camminare per le strade di Tehran per rendersi conto che la città somiglia più a Bangkok o a Seul che a Kabul o a Riyad.
Il problema di fondo è che l’Iran, contrariamente alle apparenze, è un Paese in piena evoluzione, che la rivoluzione non ha ingessato. Questa mutazione fa scontrarsi  modernità e tradizione, visione teocratica e separazione della religione dallo Stato, rivendicazioni democratiche e ondate dittatoriali, relativa libertà di parola e attentati brutali ai diritti dell’uomo, rivendicazioni libertarie e ordine morale, volontà di normalizzazione nelle relazioni internazionali e difficoltà a voltare la pagina dell’eredità rivoluzionaria.
Ciò significa che è, sempre, facile dare un’immagine estremamente negativa di questo Paese. È sufficiente mettere avanti un problema reale, poi, generalizzare, facendo affidamento sulla molto debole conoscenza che si ha dell’Iran. Vi è, forse, una forma di disprezzo nel voler ridurre una civiltà e una cultura così antiche e così complesse a visioni semplicistiche. Si può citare, a proposito dell’Iran, ciò che è stato detto giustamente del film di Oliver Stone, Alexander:

“È l’eterna questione dei rapporti con l’Oriente che è posta afferma (Oliver Stone), ma un Oriente ridotto all’immagine fantasma che l’Occidente trionfante ha costruito da secoli, vale a dire dei deserti e delle popolazioni che, per la potenza delle sue armi e per la forza di convinzione del suo modello politico, il paladino del mondo occidentale riuscirà a elevare a uno stadio di civiltà da cui saranno bandite la differenza e la diversità.”

L’Occidente – anche quando si crede aperto e liberale – e l’Oriente non possono che attrarsi violentemente e perdersi.
La popolazione iraniana è giovane.
E la rottura dei giovani con l’ordine patriarcale li ha portati a una relazione più diretta e individuale con il potere. Per loro la tirannia dello shah, la rivoluzione del 1979 e, perfino, la guerra contro l’Iraq, sono passato.



3.                 Iran 2010: la spirale discendente
Mahmud Ahmadinejad non ha alcun potere, è una marionetta.
E Ali Khamenei non è stato mai tanto isolato.
Perdendo i suoi appoggi religiosi, la guida suprema si è chiusa in un cerchio militare e securitario, tenuto dai comandanti dei guardiani della rivoluzione. Questi ultimi profittano del vuoto politico per rafforzare la propria influenza. Per il momento, l’attivismo della società civile impedisce l’instaurazione di una dittatura militare, ma, se il Paese precipitasse in una fase di grande violenza e di anarchia totale, i guardiani della rivoluzione sarebbero, allora, i soli a poter ristabilire l’ordine. Dunque, tutto dipende dal movimento di opposizione e dalla sua capacità a restare un movimento pacifico. 
Bisogna dire che il regime, come tutti gli animali braccati, non può contare che su una repressione feroce per domare un movimento pacifico che tocca tutti gli strati della società iraniana.
Un evento passato sotto i radar dei media internazionali la dice lunga sul clima politico in Iran. Il 4 giugno 2010, nel XXI anniversario della morte di suo nonno, Hassan Khomeini era stato fischiato (http://www.youtube.com/watch?v=lu7pD3Q_-fk&feature=related). Da due decenni, la famiglia di colui che si considera il padre della rivoluzione iraniana, è al centro di questa commemorazione annuale, e, più in particolare, suo nipote Hassan, che, nel 2009, aveva, implicitamente, appoggiato il principale candidato dell’opposizione alle presidenziali, Mir Hossein Musavi. L’incidente ha avuto grande eco a Tehran. Che a un membro della famiglia di Khomeini fosse impedito di esprimersi in pubblico, era un fatto senza precedenti in Iran.
L’ultima grande manifestazione, a Tehran,  risaliva al mese di dicembre. La violenza con la quale i guardiani della rivoluzione e le milizie dei bassiji avevano attaccato i manifestanti aveva finito per scoraggiare gli oppositori.
Alla vigilia del primo anniversario, volevano manifestare legalmente.
Il potere aveva rigettato la loro richiesta.  
Mir Hossein Musavi e Mehdi Karubi avevano fatto appello a non sfidare il potere e a non scendere nelle strade.
In un comunicato congiunto, pubblicato il 10 giugno scorso, i due principali candidati dell’opposizione, avevanno salutato le “grandi e indimenticabili” manifestazioni che avevano seguito le elezioni del 12 giugno. Ma avevano, anche, spiegato di non voler mettere le persone in pericolo.

“Il bilancio dello scorso anno è stato il peggiore degli ultimi venti anni circa il numero di vittime della violenza, che sono state uccise durante o dopo le manifestazioni pacifiche. Tutti sono stati, grazie a tutti i mezzi di comunicazione moderna, testimoni che si è trattato di manifestazioni pacifiche, represse in modo sanguinoso e violento dalle forze dell’ordine e, soprattutto, dalle squadre in civile. Malauguratamente, decine di persone sono state uccise, quattro picchiate e seviziate a morte in un centro di detenzione, a Kahrizak. Migliaia di persone sono state arrestate. Una buona parte è stata liberata dietro pagamento di una pesante cauzione.
In considerazione della repressione che ha colpito, lo scorso anno, persone il cui solo crimine era di reclamare il proprio voto in modo pacifico e tenuto conto delle informazioni sulla mobilitazione di estremisti e di forze repressive, chiediamo alla popolazione di portare avanti le proprie rivendicazioni con altri metodi meno costosi e più efficaci.” 

Un’ammissione di impotenza?
Solo in parte, perché, nel mese di dicembre del 2009, le mobilitazioni avevano fatto tra i manifestanti otto morti, di cui un nipote di Musavi.
La gente, giustamente, non ha voglia di farsi ammazzare!
Ma la resistenza non è morta.
Prende altre forme, più dispersive.
Gli studenti boicottano gli esami nelle università.
Le donne si riuniscono nel parco Laleh di Tehran, ogni sabato pomeriggio, o davanti alla sinistra prigione di Evin.

“Il governo iraniano non ha mai accettato di rivelare il numero dei prigionieri politici. Minaccia le famiglie dei detenuti perché non parlino ai media. Quello che è certo, oggi, è che il numero dei prigionieri politici supera le 800 persone.”

dichiarava Shirin Ebadi, il 12 giugno 2010, a France 24.

“Le carceri sono affollate. Hanno arrestato così tante persone da non poterle più trattenere, dunque, le liberano dietro cauzioni proibitive, proprio per fare posto.”

aveva spiegato.
Shirin Ebadi si era detta, anche, d’accordo con la quarta ondata di sanzioni economiche imposte all’Iran, nella misura in cui queste non avessero colpito la popolazione.

“Le sanzioni economiche che riguardassero la popolazione sarebbero molto nefaste e noi ci opporremmo. Ma quanto a quella quarta serie di sanzioni, ha unicamente un intento militare, noi siamo d’accordo contro queste sanzioni militari.”

La risoluzione 1929, adottata a larga maggioranza, il 9 giugno 2010, dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, vietava, in particolare, la vendita all’Iran di otto nuovi tipi di armamenti pesanti e portava nuove limitazioni agli investimenti iraniani all’estero.



4.                 Iran 2011: la crepa al vertice
In Iran, i giornalisti sono sempre stati soggetti a censura, ma la morsa si è, ulteriormente, stretta dopo le contestazioni delle elezioni presidenziali.
Molti giornali sono stati chiusi e i giornalisti stranieri e binazionali sono stati confrontati a restrizioni crescenti. Molti di loro hanno visto il loro visto revocato, non rinnovato. Alcuni sono stati intimati a lasciare il Paese o sono stati arrestati.
La guida suprema vuole impedire la copertura degli eventi.
Cosa impossibile perché tutti hanno un cellulare per dare o ricevere informazioni.
Dei 120 giornalisti gettati in carcere, molti sono stati liberati.
Circa 4mila sono rimasti senza impiego. Sono stati licenziati, i loro giornali sono stati chiusi e il ministero della cultura e della guida islamica ha vigilato affinché nessuna redazione li riassumesse.
Non hanno più alcuna possibilità di trovare lavoro nella stampa.
Non vi sono più giornalisti indipendenti in Iran.
Non vi sono più giornalisti per evocare la povertà e la disoccupazione, la crescente presenza di bidonvilles che divorano le periferie delle grandi città.
Silenzio totale sui prigionieri politici.
In una dittatura il solo diritto è quello di tacere.
La censura e la repressione politica continuano sotto diverse forme e prendono a bersaglio gli intellettuali e gli artisti che trasgrediscono le linee rosse definite dal quadro ideologico del regime.
Il movimento studentesco subisce una repressione continua.
Nessun partito politico, sindacato o associazione può costituirsi al di fuori del quadro ideologico dominante.
I laici non hanno il diritto di esprimersi liberamente, ma l’espressione laica fiorisce in mille e un modi attraverso gli scritti, le traduzioni, internet e i media iraniani all’estero.
Il regime tende a strangolare queste voci con la censura e l’arresto dei bloggers.
E di fronte alla censura e alla tortura in prigione, le donne sono uguali agli uomini.
Mentre il mondo intero portava la sua attenzione sull’onda di protesta nel mondo arabo, la repubblica islamica ha giustiziato, in tutta discrezione, un intollerabile numero di prigionieri accusati di cospirare contro il regime.
Tra il 20 dicembre 2010 e il 30 gennaio 2011, sono state giustiziate 118 persone, più del totale delle persone giustiziate nel corso dei precedenti dodici mesi.
Non vi è stata primavera iraniana.
In due anni, il movimento verde è stato metodicamente indebolito.
I suoi leaders Mir Hossein Musavi e Mehdi Karubi sono, dal 14 febbraio, agli arresti domiciliari.
Tagliati dal mondo, secondo la ormai collaudata “pratica” della repubblica islamica.
Nessun atto di accusa, nessun arresto per quelli che il regime chiama “sediziosi”.
Musavi e Karubi sono stati semplicemente occultati, neutralizzati.
Non arrestandoli ufficialmente, il regime spera di evitare di farne dei martiri.
Gli arresti, le pressioni esercitate sulle famiglie degli oppositori, le torture in prigione, l’onnipresenza della sorveglianza dei servizi di informazione hanno condannato il movimento verde a divenire sotterraneo.
Un regime, che sa di essere detestato dalla maggioranza della popolazione, non abbassa mai la guardia e non cade perché colto di sorpresa.
Noi applaudiamo le rivoluzioni arabe, che il regime ha la sfacciataggine di salutare come manifestazioni di un “risveglio islamico”, ma non dimentichiamo che, nel giugno del 2009, è stata la gioventù verde, con i suoi cellulari, a fare di ogni manifestante un potenziale reporter.
Oggi, dopo aver schiacciato ogni forma di opposizione, il regime iraniano si offre il lusso di una crisi politica al vertice.
Tutto è iniziato con il licenziamento del ministro dell’informazione, Heidar Moslehi (1956), un religioso molto vicino alla guida suprema, da parte di Mahmud Ahmadinejad. Moslehi era sospettato da Ahmadinejad di spiare il proprio capo di gabinetto nonché consuocero, Esfandiar Rahim Mashai (1960), bestia nera dei sostenitori della guida suprema e guru del presidente. Subito, Khamenei è intervenuto per imporre il mantenimento del ministro al suo posto, scoffessando così pubblicamente Ahmadinejad.
Per una decina di giorni Ahmadinejad ha disertato il consiglio dei ministri, quasi una sfida diretta a Khamenei. La stampa e i deputati khameneisti si sono scatenati con una rara violenza contro Ahmadinejad, finché questi non è stato costretto a cedere.
Il primo maggio, dopo aver presieduto il consiglio, dichiarava:

Dico a coloro che in questi ultimi giorni hanno cercato di insinuare divergenze tra le massime autorità dell'Iran: nessuno può negare le diversità di opinioni, ma quando si tratta di salvaguardare i traguardi della rivoluzione islamica e gli interessi nazionali siamo tutti uniti. “

Ma l'atto di sottomissione di Ahmadinejad non è bastato a scongiurare il successivo regolamento di conti. Esfandiar Rahim Mashai veniva arrestato insieme a una ventina di fedeli del presidente, tra i quali Abbas Amirifar e Abbas Ghaffari, definito l’“uomo con poteri metafisici speciali e connesso con mondi sconosciuti”, con l’accusa di aver invocato i jinn, spiriti maligni della tradizione preislamica, per far valere la politica di Ahmadinejad rispetto a quella del numero uno del regime.
Questo scontro fratricida tra la guida suprema e il presidente è il segno della tensione che regna al vertice dello Stato.
La lotta per il potere è portata al cuore stesso della repubblica islamica.
Per ora, i capi dei guardiani della rivoluzione sembrano sostenere la guida.
Ma, per quanto tempo ancora?    




Daniela Zini
Copyright ©  12 giugno 2011 ADZ

domenica 5 giugno 2011

LETTERA A UN AMICO IRANIANO

Roma, 5 giugno 2011

M
io Caro Generoso Amico,
da anni, osservo con attenzione quello che accade nel Tuo Paese e ho sposato la Tua causa.
Due estati fa, ho provato una profonda emozione davanti all’esempio di un Popolo che si è riappropriato del Suo destino, andando massivamente a votare, poi, scendendo in strada per difendere il risultato delle urne.
Più tardi, sono stata impressionata dalla volontà e dalla tenacità dei manifestanti, determinati a non demordere e a continuare la protesta, nonostante i divieti, gli arresti, le minacce di morte.
In questo momento decisivo, nonostante il pericolo e l’esecuzione di numerosi oppositori, il Popolo ha continuato a difendere i Suoi diritti con dignità. È da temere che, in occasione dell’anniversario della protesta, il potere si chiuda nel suo accecamento e non esiti a inasprire la repressione delle manifestazioni popolari.
Sappi che saremo numerosi a seguire attentamente la situazione.
Quanto a me?
Io vivo a diverse migliaia di chilometri dal Tuo Paese e non so se avrei avuto il Tuo coraggio.
Io so la prudenza con la quale alcuni Iraniani guardano alle dichiarazioni di sostegno venute dall’estero.
Ma, come non reagire quando un governo vuole soffocare il proprio Popolo?
Io so che l’Iran ha un altro volto.
Quello di una società ove le donne sono maggioritarie nelle università, ove i giovani sono aperti al mondo esterno grazie alle nuove tecnologie.
Un Paese in cui la questione della separazione della politica dalla religione è dibattuta con passione.
È questo volto che io vedo dietro le manifestazioni contro il regime ed è quello che io voglio sostenere.
Oggi, è l’avvenire della Società Iraniana tutta intera che si gioca.
Con la perseveranza del Tuo impegno è una certa idea della Società che Tu difendi.
Quella di una Società libera, emancipata e pacifica, ove ciascuno possa realizzarsi.
Con questo esempio, Tu fortifichi le Democrazie, Tu indebolisci gli estremismi, Tu scalzi le fondamenta delle dittature.
Per questo, noi non potremo mai ringraziarTi a sufficienza.
Rendendo pubblica questa lettera, io spero di far prendere coscienza a molte persone dell’importanza di questa lotta e di indurle a esprimere il loro sostegno agli Iraniani democratici.
Sappi che noi siamo fin d’ora numerosi a seguire la Tua lotta, ad ammirarla e a sostenerla, sperando che Tu possa trovare in questo sostegno un incoraggiamento e un appoggio nella Tua ricerca di Libertà.
incondizionatamente Tua
D

Daniela Zini
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