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domenica 19 dicembre 2010

KURDISTAN IL PAESE CHE NON C'E'

Da un secolo, il popolo curdo, una nazione divisa sotto la dominazione degli Stati turco, iracheno, iraniano e siriano, non ha diritto di esistere. Sono stati privati del diritto all’autodeterminazione, di organizzarsi come intendono, di possedere la propria terra, di vivere secondo la propria cultura, anche di parlare la propria lingua, schiacciati sotto il peso di una organizzazione semi-feudale estremamente arretrata e autoritaria, creata a fini di controllo sociale.
I 25, 30 milioni di curdi, sparsi nei diversi paesi del Medio Oriente, sono spesso presentati come il più grande popolo senza Stato sulla terra.
Sono, nondimeno, senza storia?
Non si inscrivono in una storia medio-orientale che, per più di un millennio, non è stata la storia degli Stati o delle nazioni, ancor meno dei nazionalismi, ma degli Imperi sovranazionali?
Tenterò di rispondere per Voi, oggi, a queste domande.  



“Kine em?
Kine em?”

“Chi siamo?
Chi siamo?”

si interroga una canzone popolare curda (http://www.youtube.com/watch?v=-dPNdbbJVAI).
Non è facile definire in poche parole chi siano i curdi: non sono un gruppo etnico, non hanno un’unità religiosa e la loro stessa lingua possiede dialetti incomprensibili tra loro.
Nonostante questo, si riconoscono come curdi tra loro.
Hanno condotto una lotta difficile per ottenere il diritto di esistere, che ha valso loro di essere gasati, massacrati ed esiliati a milioni. Ma la lotta curda continua verso e contro tutto, con una forza impressionante, alimentata da ciascuna delle comunità del Kurdistan. Non è solo una lotta contro lo Stato coloniale, contro le forze imperialiste, che, il più sovente, si trovano dietro, ma, in una proporzione identica, è una lotta contro la classe feudale dei ricchi proprietari terrieri curdi, principali alleati degli Stati coloniali, che hanno ammassato una considerevole fortuna grazie a questa situazione. Non siamo di fronte a una semplice lotta nazionalista, nel senso stretto della parola, siamo di fronte a una lotta sociale, a una lotta per la completa emancipazione della popolazione curda dalle catene del colonialismo e del capitalismo. Si tratta di una lotta di liberazione nazionale nel senso pieno del termine.  

“A titolo di informazione, il Kurdistan non esiste.”

Queste parole spiccavano su un sacco, ritrovato, dopo molte peripezie, dal componente di una spedizione alpinistica al Cilo Dag e si riferivano alla scritta, certamente ingenua, che era stata apposta sul sacco stesso: Spedizione Francese 1969 nel Kurdistan, Van.
La correzione rifletteva l’atteggiamento ufficiale del governo turco nei confronti del problema curdo, per cui è logico sentire una sfumatura di risentimento in chi si era preso il disturbo di applicarla; ma è anche vero: da un punto di vista politico, il Kurdistan non esiste. Esistono, invece, i curdi, ma la loro innegabile unità etnica e culturale non è mai riuscita a concretarsi e a formare una nazione. Sparsi in cinque Stati diversi, Turchia (sud-est), Iran (ovest), Iraq (nord), Siria (nord-est) e Armenia, hanno, spesso, creato, in passato, e continuano a creare notevoli problemi e grattacapi ai rispettivi governi.   
Eppure le origini dei curdi sono molto antiche. Alla loro formazione etnica hanno, probabilmente, concorso molti di quei popoli nomadi indoeuropei, che sono discesi, in epoca remota, dalle steppe russe nella pianura mesopotamica e in Iran.
Le tavolette sumeriche parlano di un popolo di pastori montanari, chiamati kuti o guti, discesi, intorno al 2000 a.C., dai Monti Zagros verso la pianura mesopotamica e anche i testi assiri più antichi li menzionano con il nome di kurdu. È probabile che abbiano costituito una parte della popolazione del regno di Urartu, Stato potente e bellicoso che sorse, agli inizi del I millennio a.C., nella Turchia orientale, tra le montagne che circondano il Lago Van, includendo nei suoi confini anche il biblico Monte Ararat, sul quale sarebbe approdata l’Arca di Noè.
La prima descrizione dei curdi, da cui emergono le caratteristiche di questa popolazione, la dobbiamo a Senofonte, che narra della sua ritirata attraverso le impervie montagne dei caduchi, gente fiera e avida di preda:

“Questi ultimi, a detta dei prigionieri, vivevano sulle montagne ed erano un popolo bellicoso, che rifiutava di obbedire al re; una volta, un esercito regio di centoventimila uomini aveva invaso il loro paese: ma di questi nessuno aveva fatto ritorno, tanto impervio era quel territorio.”
Senofonte, Anabasi, III, 5, 16

Anche nei secoli successivi, questa fama di popolo barbaro e temibile rimase inseparabile dai curdi nell’opinione dei viaggiatori e dei popoli con i quali ebbero contatti. Questi furono molti, a iniziare dai medi e dai cimmeri, che ne modificarono probabilmente la lingua, mescolandosi tra loro. In seguito, subirono influenze anche dai turchi, dagli arabi, dai circassi, dagli armeni, loro secolari avversari, da cui trassero, tuttavia, impulso all’agricoltura, modificando il loro carattere di nomadi o seminomadi.
Durante il Medioevo, i curdi furono convertiti alla religione islamica dagli arabi. Fu una conversione forzata, ma permise loro di cogliere un grande trionfo al tempo della Terza Crociata, quando il principe curdo Salah ad-Din, noto in Occidente con il nome di Saladino, divenne Sultano della Siria e dell’Egitto e si oppose, valorosamente, ai crociati di Riccardo Cuor di Leone. È una figura che i curdi non hanno dimenticato, anzi, hanno idealizzato fino a farne il simbolo stesso delle loro virtù guerriere.
Prima dell’islam si era diffusa tra i curdi anche la religione cristiana, sotto la forma eretica del nestorianesimo, ma la nuova fede cancellò a tal punto la precedente che divennero, al pari dei circassi, i più feroci persecutori degli armeni, contribuendo alla distruzione di quel popolo sventurato.
I rari europei che visitarono il Kurdistan, nel XIX secolo, ci confermano quel ritratto dei curdi che, i tempi precedenti, ci hanno  trasmesso. Vivevano, di fatto, indipendenti, sia nell’ambito dell’Impero ottomano, sia in Persia, e molti di loro erano organizzati in bande dedite al brigantaggio. Con veloci razzie calavano sui villaggi e sulle città, depredavano gli abitanti e risalivano nelle loro vallate, ai loro accampamenti di tende, la cui mobilità nell’ambiente montuoso li metteva al riparo dalle rappresaglie. Questo spiega l’esistenza di un proverbio arabo, secondo cui vi sarebbero tre calamità sulla terra: le locuste, i topi e i curdi.
Il nome di curdi con cui sono conosciuti in tutta l’Asia occidentale e che è usato da loro stessi, si ritrova nell’aggettivo persiano kurd, che significa rude, ma anche forte, eccellente. In turco, la stessa parola significa lupo. Anche in queste coincidenze linguistiche si può vedere la fama di gente indomabile e fiera, oltre che pericolosa, che i curdi avevano sparso attorno a loro.
Ben presto, sorsero leggende intorno alle loro origini. Secondo una di queste, dovuta ad antichi scrittori arabi, il re Salomone avrebbe mandato a cercare in Occidente quattrocento fanciulle per arricchire il suo harem, ma, lungo la via, queste avrebbero incontrato dei geni malefici, dei jin, che le avrebbero violentate. Quando Salomome avrebbe saputo di questo oltraggio, avrebbe allontanato da sé le fanciulle divenute indegne di lui. Ma l’unione con i jin avrebbe, presto, dato i suoi frutti e ne sarebbero nati i progenitori dei curdi.    
Il terreno montagnoso e la divisione in tribù e principati di struttura feudale, governati da dinastie ereditarie, hanno, sempre, impedito ai curdi di superare le loro tendenze particolaristiche e di riunirsi in un organismo più vasto, basato sul sentimento di una loro unità etnica, linguistica e culturale. Ognuno di questi principati aveva armate regolari, alcune delle quali raggiungevano una forza considerevole. Ma le rivalità tra i capi erano così vive, che un principe curdo era più incline a diventare vassallo di un sovrano straniero che a piegarsi di fronte a un altro principe curdo. Al di sopra delle tribù non si concepiva nulla che non fosse la comune appartenenza all’islam.
Nel XVI secolo, il Kurdistan si trovò coinvolto nelle contese tra l’Impero ottomano e la Persia. Il nuovo Shah  di Persia, Ismail I, che aveva imposto lo sciismo come religione di Stato, cercava di diffonderlo ai paesi vicini. Da parte loro, gli ottomani volevano mettere fine alle mire espansionistiche dello Shah, assicurare le frontiere persiane per potersi lanciare nella conquista dei paesi arabi. Presi nella tenaglia tra i due giganti, i curdi, politicamente frantumati, non avevano affatto possibilità di sopravvivere in quanto entità indipendente.
Nel 1514, il Sultano Selim I inflisse una cocente disfatta allo Shah Ismail I. Temendo che la sua vittoria restasse senza domani, cercò i mezzi per assicurare, in modo permanente, la difficile frontiera persiana. È, a questo punto, che uno dei suoi consiglieri più ascoltati, il sapiente curdo Idris di Bitlis, gli prospettò l’idea di riconoscere ai principi curdi tutti i loro passati diritti e privilegi, in cambio dell’impegno di sorvegliare quella frontiera e di battersi al fianco degli ottomani, in caso di conflitto perso-ottomano. Selim I dette il suo avallo al piano del consigliere curdo, che incontrò, uno a uno, i principi e i signori curdi per convincerli che fosse interesse dei curdi e degli ottomani concludere questa alleanza. Sia per l’abile negoziazione del curdo Idris di Bitlis, sia per motivi religiosi, in quanto i turchi erano musulmani sunniti e non musulmani sciiti, come i persiani, i leaders curdi – che, per lingua e razza, erano più vicini ai persiani – posti davanti alla scelta di essere, prima o poi, annessi dalla Persia o accettare, formalmente, la supremazia del Sultano ottomano, optarono, in cambio di una ampia autonomia, per questa seconda soluzione. La missione di Idris di Bitlis (1) era stata facilitata in quanto questi era un sapiente conosciuto e rispettato e, soprattutto, per l’immenso prestigio di cui godeva suo padre, lo sceicco Husameddin, un capo spirituale sufi molto influente. Così il Kurdistan o più esattamente i suoi innumerevoli feudi e principati entrarono nell’alveo ottomano attraverso la via della diplomazia.
Questo status particolare assicurò al Kurdistan circa tre secoli di pace. I principi curdi godettero, infatti, di una ampia autonomia fino al XIX secolo e tutta la regione acquistò le caratteristiche di uno Stato cuscinetto, remoto e impenetrabile tra le sue montagne, la cui conquista effettiva non invogliava nessuno. Gli ottomani controllavano alcune guarnigioni strategiche sul territorio curdo, ma il resto del paese era governato da signori e principi curdi. Oltre a una sequela di modeste signorie ereditarie, il Kurdistan contava diciassette principati o hukumets, che beneficiavano di una ampia autonomia. Alcuni come quello di Ardelan, di Hisn Keif, di Bohtan e di Rawanduz giovavano degli attributi dell’indipendenza, battevano moneta e facevano dire la preghiera del venerdì a loro nome.
Nonostante le ingerenze del potere centrale, questo status funzionò, senza spaccature, fino all’inizio del XIX secolo, con soddisfazione dei curdi e degli ottomani. Questi ultimi, protetti dalla potente barriera curda sul fronte persiano, potevano concentrare le loro forze sugli altri fronti. Quanto ai curdi, erano, praticamente, indipendenti nella gestione dei loro affari. Vivevano, certo, nell’isolamento e il loro paese era frantumato in una serie di principati, ma, nella stessa epoca, la Germania contava circa trecentocinquanta Stati autonomi e l’Italia era ben più sminuzzata del Kurdistan.
Ogni corte curda era la sede di una vita letteraria e artistica importante. E nell’insieme, nonostante lo smembramento politico, questo periodo costituì l’Età d’Oro della creazione letteraria, musicale, storica e filosofica curda. Nel 1596, il principe Sharaf Khan portava a compimento la sua monumentale Sharafname o Fasti della nazione curda.  Le scuole teologiche di Jezireh e Zakho erano reputate in tutto il mondo musulmano, la città di Akhlat, dotata di un osservatorio, era conosciuta per l’insegnamento delle scienze naturali. Maestri del sufismo, come Ibrahim Gulsheni e Ismail Çelebi erano celebrati, perfino a Istanbul, per il loro insegnamento spirituale e il loro genio musicale. Alcuni curdi ambiziosi, quali i poeti Nabi e Nefi, scrivevano in turco per guadagnare il favore del Sultano. A eccezione di alcuni spiriti visionari, quali il grande poeta classico curdo del XVII secolo, Ahmad Khani (1650–1707), i letterati e i principi curdi sembravano credere che il loro status sarebbe duratoin eterno e non sentivano il bisogno di cambiarlo. Nel 1675, più di un secolo prima della rivoluzione francese, che sparse in Occidente l’idea di nazione e di Stato-nazione, Ahmad Khani, nella sua epopea in versi Mem û Zîn, aveva, infatti, chiamato i curdi a unirsi e a creare un proprio Stato. Non era stato ascoltato né dall’aristocrazia né dalla popolazione. In terra di islam, come, d’altronde, nella stessa epoca, nella cristianità, la coscienza religiosa prevaleva, generalmente, sulla coscienza nazionale. Ogni principe era preoccupato dagli interessi del suo clan e le dinamiche familiari, tribali o dinastiche, prevalevano sovente su ogni altra considerazione. Non era, affatto, raro vedere dinastie curde regnare su popolazioni non curde. Nell’XI secolo, a esempio, il Farsistan, provincia persiana per eccellenza, era stato governato da una dinastia curda; dal 1242 al 1378, il Khorassan, provincia persiana del nord-est, aveva avuto ugualmente una dinastia curda e, dal 1747 al 1859, era stato il caso del lontano Beluchistan, che fa parte, oggi, del Pakistan. Così, il fatto che questa o quella porzione di territorio curdo fosse governata da dinastie straniere non doveva sembrare inaccettabile ai contemporanei.  
L’idea di Stato-nazione e di nazionalismo trovò, rapidamente, un terreno particolarmente propizio in due paesi spezzettati e in parte asserviti: la Germania e l’Italia. Sono pensatori tedeschi, quali Johann Joseph von Görres (1776-1848), Franz Brentano (1838-
1917) e Johann Georg Grimm (1846-1887), che posero il postulato secondo cui le frontiere politiche, geografiche e linguistiche dovessero coincidere. Sognavano di una Germania che raggruppasse in uno Stato la sequela dei suoi piccoli Stati autonomi. Il pangermanismo aveva, necessariamente, ispirato altri movimenti nazionalistici, quali il panslavismo e il panturchismo. Queste idee pervennero con qualche ritardo, verso il 1830, in Kurdistan dove il principe di Rawanduz, Mir Mohammad, si batté, dal 1830 al 1839, in nome delle sue idee per la creazione di un Kurdistan unificato. Fino ad allora, fintanto che non erano stati minacciati nei loro privilegi, i principi curdi si erano accontentati di amministrare il loro dominio, rendendo omaggio al lontano Sultano-Califfo di Costantinopoli. In linea generale, non si sollevarono  né tentarono di creare un Kurdistan unificato che quando, all’inizio del XIX secolo, l’Impero ottomano si ingerì nei loro affari e cercò di mettere fine alla loro autonomia e i russi li incoraggiarono alla ribellione. Seguì, fino alla Prima Guerra Mondiale, tutta una serie di rivolte contro il potere centrale per l’unificazione e l’indipendenza del Kurdistan, sotto la guida di capi tradizionali, sovente religiosi, tutte duramente represse, che giunsero fino a minacciare Istanbul. Nel 1847, crollava l’ultimo principato curdo indipendente, quello di Bohtan. Segno dei tempi, le forze ottomane, nella loro lotta contro i curdi, erano consigliate e aiutate dalle potenze europee. Si noti, a esempio, la presenza nei ranghi ottomani di Helmuth Karl Bernhard Graf von Moltke (1800-
1891) (2), allora giovane capitano e consigliere militare. L’ultima sollevazione, tra il 1878 e il 1881, ebbe un carattere diverso, perché poneva, per la prima volta, il problema curdo sul piano di una lotta nazionale, rivolgendosi a tutte le minoranze curde sparse nei diversi Stati. Fu soffocata da Turchia e Iran, congiunti di fronte alla nuova minaccia.
Le cause del fallimento di questi movimenti sono molteplici: sgretolamento dell’autorità, dispersione feudale, dispute di supremazia tra principi e feudali curdi, ingerenza delle grandi potenze al fianco degli ottomani.
Si deve precisare che, in questa fine XIX secolo, l’Impero ottomano era in preda a vive convulsioni nazionaliste: ogni popolo aspirava a creare il proprio Stato-nazione. Dopo aver tentato, invano, di mantenere questo agglomerato in vita con l’ideologia del panottomanesimo, poi, del panislamismo, le stesse élites turche divennero panturchiste e militarono in favore della creazione di un Impero turco, che si estendesse dai Balcani all’Asia Centrale.
Dopo aver annesso, uno a uno, i principati curdi, il potere turco si adoperò a integrare l’aristocrazia curda, distribuendo, alquanto generosamente, posti e prebende e mettendo in piedi scuole, dette tribali, destinate a inculcare ai figli dei signori curdi il principio di fedeltà al Sultano. Questo tentativo di integrazione alla Luigi XIV fu, in parte, coronato dal successo, ma favorì ugualmente l’emergenza di élites curde moderniste. Sotto la loro spinta si delineò, a Costantinopoli, una fase moderna del movimento politico, si moltiplicarono associazioni e società benefiche e patriottiche che tentarono di introdurre la nozione di organizzazione e di impiantare un movimento strutturato nella popolazione curda. Ma all’inizio del XX secolo, maturò l’idea in un gruppo di uomini colti, che impostarono la lotta su basi moderne, consci che l’antica organizzazione tribale non avrebbe retto, a lungo, di fronte al sorgere di nuove entità nazionali dal potere centralizzato. Raccolsero gli elementi tipici della loro cultura e iniziarono al Cairo la pubblicazione di un giornale in curdo e in turco, Il Kurdistan: questo nome, che, presso gli scrittori orientali, aveva sempre avuto, unicamente, il valore generico di paese dei curdi, assumeva ora un preciso significato politico. Nel 1908, il giornale fu trasferito a Istanbul, sotto la spinta delle illusioni che la rivoluzione dei Giovani Turchi e il disfacimento dell’Impero ottomano avevano creato nei vari gruppi etnici desiderosi di indipendenza. Si costituì anche un’associazione per l’elevazione e il progresso dei curdi, ma la sua opera fu presto ostacolata e repressa dal nuovo governo turco, che, durante la Prima Guerra Mondiale, operò vaste deportazioni di curdi dai vilayet orientali alla frontiera, con l’uccisione di alcuni capi.
La società curda affrontò la Prima Guerra Mondiale divisa, decapitata, senza un progetto collettivo per il suo avvenire.
Nel 1915, gli Accordi franco-britannici, detti di Sykes-Picot, prevedevano lo smembramento del loro paese. Tuttavia, i curdi erano in conflitto sul divenire della loro nazione. Gli uni, molto permeabili all’ideologia panislamista del Sultano-Califfo, vedevano la salvezza del popolo curdo in uno statuto di autonomia culturale e amministrativa nel quadro dell’Impero ottomano. Altri, richiamandosi al principio delle nazionalità, degli ideali della Rivoluzione francese e del Presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), combattevano per l’indipendenza totale del Kurdistan.  
La sfaldatura si accentuò all’indomani della disfatta ottomana, nel 1918.
L’interesse alla questione curda da parte degli Alleati favorì, nonostante le spaccature presenti nel movimento nazionale curdo, il costituirsi del Comitato per l’Indipendenza Curda, il quale inviò una propria delegazione alla Conferenza di Versailles (1919), per presentare “le rivendicazioni della nazione curda”, guidata dal generale Mohammad Sharif Pasha (1826-1887). Il Comitato operò, inizialmente, per tutelare i territori etnicamente curdi dalle pretese armene – appoggiate soprattutto dagli Stati Uniti – che rivendicavano l’inserimento in un loro Stato indipendente di zone popolate in maggioranza da curdi. Le richieste del Comitato furono esplicitate in un memoriale presentato, il 22 marzo 1919, dallo stesso capo della delegazione, Mohammad Sharif Pasha.
Gli Alleati presero in considerazione le rivendicazioni curde, pur non contemplando la nascita di uno Stato indipendente, e si mostrarono favorevoli, come in precedenti occasioni, a un regime di autonomia, che, solo successivamente, si sarebbe potuto trasformare in indipendenza.
Il Trattato di Pace tra gli Alleati e l’Impero ottomano, firmato a Sèvres, il 10 agosto 1920, attribuiva la Tracia, Smirne e una gran parte delle province egee alla Grecia e separava dalla Turchia, la Siria, posta sotto il mandato francese, e la Mesopotamia, la Palestina e la Transgiordania, sotto il mandato britannico. L’ex-Impero era, ormai, ridotto alla sola penisola anatolica e alle isole. La creazione di un Kurdistan autonomo (sezione III, artt. 62-64) e la cessione del Dodecaneso e di Rodi all’Italia erano, egualmente, contemplate nel trattato. Il Trattato di Sèvres non venne mai ratificato dai governi interessati, risultando del tutto inefficace.
La complicata e inestricabile situazione condusse a una nuova conferenza, svoltasi a Parigi, tra il 22 e il 26 marzo 1921, in cui si discusse una pronta soluzione della questione d’Oriente.
Le ostilità ripresero con l’offensiva sferrata dai kemalisti contro Smirne.
Con la firma dell’Armistizio di Mudanya (11 ottobre 1922), i negoziati per la pace furono, immediatamente, avviati con l’inaugurazione, il 22 novembre dello stesso anno, della Conferenza di Losanna. 
Un nuovo trattato, firmato a Losanna, il 24 luglio 1923, restituiva alla Turchia alcuni dei suoi territori: la parte orientale della Tracia, la regione di Smirne, l’Anatolia, la Cilicia, l’Armenia e il Kurdistan. Il Trattato di Losanna rendeva caduco il Trattato di Sèvres e, senza apportare alcuna garanzia a quello che atteneva il rispetto dei diritti dei curdi, consacrava l’annessione della maggior parte del Kurdistan al nuovo Stato turco. I curdi non furono, neppure, invitati e le grandi potenze decretarono la divisione del territorio curdo in tre parti, lasciando all’Iran la porzione già inclusa nei suoi confini.
I curdi non accettarono questa decisione e diedero inizio a una serie di insurrezioni, di volta in volta, scatenatesi nei singoli Stati, ma mai simultaneamente e questo fu, forse, il motivo dei loro insuccessi. Inoltre, l’importanza assunta dal petrolio in diverse zone, come nella regione di Mossul, creò i presupposti per un’ingerenza diretta della Gran Bretagna, che appoggiò l’azione del governo iracheno con bombardamenti aerei dei villaggi curdi, sia nel 1923, sia durante le successive insurrezioni del 1930-1933. Arguendo, in effetti, che lo Stato iracheno non sarebbe stato in grado di sopravvivere senza le ricchezze agricole e petrolifere di questa provincia, la Gran Bretagna aveva ottenuto, il 16 dicembre 1925, dal Consiglio della Società delle Nazioni l’annessione di Mossul all’Iraq, posto sotto il suo mandato. Così, alla fine del 1925, il paese dei curdi, conosciuto, dal XIII secolo, sotto il nome di Kurdistan, si era trovato diviso in quattro Stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. E, per la prima volta, dalla sua lunga storia, era stato privato anche della sua autonomia culturale.
Nello stesso periodo, si era scatenata in Turchia una violenta repressione del movimento curdo, sotto il governo di Mustafa Kemal Atatürk: fu proibito l’uso della lingua curda e dello stesso nome di curdi. Deportazioni e massacri fecero seguito alla rivolta del 1925, guidata dal capotribù Sheikh Said: uomini politici e intellettuali furono imprigionati e uccisi. La repressione fu, particolarmente, spietata a Erzurum e Diyarbakir, la principale città del Kurdistan turco, dove vennero condannati a morte cento capi curdi, tra i quali lo stesso Sheikh Said. Molti curdi cercarono scampo in Iraq e in Siria; quelli rimasti in Turchia non ebbero più alcuna possibilità di organizzarsi politicamente e di riprendere la lotta. 
I conquistatori e gli Imperi passati si erano accontentati di certi vantaggi e privilegi economici, politici e militari. Nessuno aveva concepito il progetto di distruggere la personalità curda, di spersonalizzare, tagliando dalle sue radici culturali millenarie, tutto un popolo. Questo progetto fu quello dei nazionalisti turchi che vollero fare della Turchia, società eminentemente multiculturale, multirazziale e multinazionale, una nazione una e uniforme; fu, più tardi, ripreso dall’Iraq e dall’Iran.
Vittima della sua geografia, della storia e anche, forse, della mancanza di chiaroveggenza dei suoi leaders, il popolo curdo ha pagato un pesante tributo nel rimodellamento del Medio Oriente.
Durante la seconda guerra mondiale, emerse la figura di Mustafa Barzani, destinato ad assumere le caratteristiche di capo carismatico della rivoluzione curda negli anni successivi. Una serie di arresti di esponenti curdi lo indusse, nel 1943, a proclamare la rivolta nella regione di Barzan, dove viveva il suo clan. L’intervento dell’esercito iracheno, che era appoggiato dall’aviazione inglese nella protezione dei pozzi petroliferi minacciati dai curdi, lo costrinse a una lunga ritirata verso l’Iran attraverso le montagne, con una marcia epica alla testa di diecimila persone, tra cui tremila guerrieri. Nel frattempo, anche i curdi dell’Iran e della Turchia si erano impegnati a collaborare per una lotta comune e avevano stretto un patto sul Monte Dalanpar, da cui nacque, il 12 gennaio 1946, la Repubblica curda di Mahabad, che aveva uno spiccato carattere socialista e alla cui testa fu posto il curdo iraniano Qazi Mohammad, giudice, capo religioso e membro di un’influente famiglia. La reazione dell’esercito iraniano fu immediata; contro la nuova repubblica, che aveva affidato a Mustafa Barzani il comando delle proprie truppe, entrò in azione l’esercito dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, armato ed equipaggiato dall’Inghilterra e, un anno dopo, la resistenza curda fu stroncata.
Qazi fu giustiziato con altri capi; Mustafa Barzani rientrò in Iraq, dove lasciò le donne, i vecchi e i bambini e intraprese con i suoi uomini quella “marcia dei cinquecento” che doveva portarlo in Unione Sovietica e creare un alone leggendario intorno al suo nome. In quattordici giorni, furono coperte 220 miglia a piedi, sempre sotto la minaccia degli eserciti iracheno, turco e iraniano.
Nell’Unione Sovietica, Barzani doveva rimanere più di dieci anni; gli fu conferito il grado di generale dell’esercito sovietico, fatto che gli fece attribuire sentimenti filo-comunisti, da lui sempre smentiti. Del resto, la limitatezza degli aiuti dell’Unione Sovietica ai curdi in lotta fu una delle cause della loro sconfitta. Un altro motivo di fondo del crollo della repubblica di Qazi Mohammad fu, senza dubbio, la tradizionale mancanza di coesione tra le tribù, gelose come sempre della loro autonomia e, spesso, in contrasto con i capi del movimento, provenienti dalla popolazione cittadina più evoluta e istruita.
Una nuova situazione si determinò in Iraq con la rivoluzione del luglio 1958, che portò al potere il generale ‘Abd al-Karim Qasim (1914-1963) e con la nuova costituzione che garantiva i diritti dei curdi nell’ambito dello Stato iracheno. Barzani poté rientrare in patria e il problema curdo sembrò avviarsi a una soddisfacente soluzione politica. Ma l’illusione fu di breve durata. Le promesse di autonomia non vennero mantenute e, nel 1960, i rapporti si fecero, di nuovo, tesi.
Questa volta, Barzani aveva l’appoggio del partito comunista iracheno e la lotta riprese in forma cruenta, con bombardamenti dei villaggi curdi, da una parte, e azioni di guerriglia, dall’altra, finché il nuovo colpo di Stato di ‘Abd as-Salam ‘Arif (1921-1966) del febbraio 1963 mise fine alle ostilità, ma solo per pochi mesi.
La costituzione della RAU (Repubblica Araba Unita) e il colpo di Stato baathista del luglio 1968, che portò al potere il generale ‘Ahmad Hasan al-Bakr, non fecero che complicare la situazione sul piano politico, senza porre fine in modo durevole ai combattimenti.
Nella primavera del 1969, la guerra imperversò, ancora, nel Kurdistan; il governo di Baghdad impiegò il napalm e l’acido solforico per distruggere i raccolti, provocando la distruzione di innumerevoli villaggi e la morte di 33 mila peshmarga, come sono chiamati i combattenti curdi, oltre a 20 mila vittime tra la popolazione civile.
Seguirono trattative di pace, che portarono a un accordo, nel marzo del 1970.
Anche questa volta, tuttavia, gli accordi furono rispettati solo in parte, per la riluttanza del governo iracheno a concedere l’autonomia nei centri petroliferi, specialmente quello di Kirkuk, dove la popolazione curda era prevalente.
Negli anni successivi, la situazione si fece sempre più intricata: il movimento curdo fu, perfino, accusato dal Baath di essere alleato di Israele e dell’Iran contro la causa araba. D’altra parte una serie di dissidi portò a uno scontro armato tra Barzani e i comunisti all’interno del movimento stesso. Anche le relazioni tra curdi iracheni e curdi iraniani si deteriorano, per l’interesse dei primi a mantenere buoni rapporti con il governo dello Shah, che garantiva l’unica frontiera attraverso cui potessero ricevere aiuti nella lotta contro Baghdad.
Si giunse, così, alla concessione di autonomia dell’11 marzo 1974, proposta da al-Bakr, ma non accettata dai curdi, che avrebbero voluto una più favorevole ripartizione degli utili del petrolio, calcolata in base alla loro consistenza etnica. La minaccia di distruggere gli impianti, da parte di Barzani, condanne a morte di notabili curdi ed esecuzioni sommarie di militari iracheni per ritorsione e, infine, una ripresa generale delle ostilità, furono gli avvenimenti, che crearono in questo tormentato paese i presupposti per una situazione di tipo vietnamita. Le grandi potenze non si esposero direttamente, ma influenzarono la situazione secondo le linee della loro politica internazionale, vale a dire dei loro interessi. L’Unione Sovietica, che, in passato, aveva appoggiato concretamente il movimento curdo, sostenne il governo iracheno, di cui faceva parte il partito comunista e cui era legata da un patto di amicizia dal 1972. Di conseguenza armi, consiglieri militari e aerei sovietici furono impiegati contro i combattenti curdi, sostenuti apertamente dallo Shah, che aveva interesse a indebolire lo Stato iracheno e, indirettamente, dagli Stati Uniti, accusati di fornire armi a Barzani. Al di sopra di questo rovesciamento di alleanze permaneva lo scarso interesse dei vari Stati confinanti alla realizzazione di un Kurdistan indipendente nella zona irachena, che avrebbe spinto a nuove rivendicazioni le altre minoranze curde; la lotta del popolo curdo, asserragliato tra le sue montagne, si svolse, quindi, nella massima incertezza circa le prospettive future.
Nel Kurdistan iracheno, la repressione fu tale che Mustafa Barzani decise di mettere fine alla rivoluzione curda e di partire in esilio.
Il silenzio degli Stati Uniti fu vissuto come un tradimento dell’Occidente per gli ambienti curdi che aderivano ormai al sistema socialista, in parte maoista, perché Mosca aveva portato chiaramente il suo sostegno a Baghdad.
Negli anni 1980, riprese la lotta armata tra turchi e curdi.
Nella regione iniziò una stagione di violenza, con attentati da parte dei guerriglieri, seguiti da feroci rappresaglie da parte dell’esercito turco. Secondo un rapporto della Commissione di Indagine del Parlamento turco, il conflitto tra lo Stato e il PKK,  il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, di ispirazione marxista, fondato, il 27 novembre 1978, da Abdullah Öcalan, studente di scienze politiche ad Ankara, e da suo fratello Osman, avrebbe provocato complessivamente tra le 35 e le 40 mila vittime.
Le violenze non si placarono fino alla fine degli anni 1990, in seguito all'arresto dello stesso Öcalan (5 febbraio 1999).
A partire dall’11 settembre 2001, il PKK veniva inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche e, nel 2006, il governo di Ankara varava una legge, che prevedeva l’arresto anche per i minori che manifestassero a sostegno di organizzazioni riconducibili al PKK.
Vi è una poesia curda che esprime in modo tragico il carattere di questo popolo indurito dalle lotte secolari per la sua esistenza. Racconta di un fatto di armi contro i turchi, in cui fu ucciso un capo curdo; quando la sua testa fu portata alla madre, questa guardò lontano, verso le montagne e disse:

“Non è che la testa di un agnello; Dio protegga gli arieti che sono sui monti.”

  

  
Note:

(1)Idris di Bitlis è l’autore del primo trattato della storia generale dell’Impero ottomano, intitolato Otto Paradisi, che traccia il regno degli otto Sultani ottomani.

(2) Dopo una brillante carriera, nel 1857, Helmuth Karl Bernhard Graf von Moltke (Parchim, 26 ottobre 1800 – Berlino, 24 aprile 1891) fu nominato Capo dello Stato Maggiore Generale Prussiano, una carica che ricoprì per i successivi trenta anni.
Versato poliglotta e, più ancora, ottimo diplomatico, fu definito:
“Uno che, all’occorrenza, sapeva tacere in sette lingue diverse.”
Suo nipote, il conte Helmuth James von Moltke (1907-1945), partecipò all’attentato al Führer del 20 luglio 1944 e fu impiccato poche settimane prima che i sovietici entrassero a Berlino.
“Per tutta la vita, fino dai tempi della scuola, ho lottato contro un certo spirito di limitatezza e di violenza, di presunzione, di intolleranza, di assolutismo e di spietata consequenzialità che alberga nell’animo tedesco e che ha trovato la sua espressione nello Stato nazional-socialista.
Mi sono anche adoperato perché questo spirito, con le gravi manifestazioni che da esso derivano, come l’eccesso di nazionalismo, la persecuzione razziale, l’ateismo, il materialismo, venisse superato.
Per tutti questi motivi e dal loro punto di vista, i nazional-socialisti hanno perfettamente ragione ad uccidermi.” 
da una lettera del conte Helmuth James von Moltke ai propri figli




Daniela Zini
Copyright © 19 dicembre 2010 ADZ






lunedì 6 dicembre 2010

SE WIKILEAKS...?

Julian Assange non demorde e mette la sua firma.
Il suo sito internet è divenuto “un pericolo per il mondo” e una base dalla quale sono condotti “attacchi contro la comunità internazionale”, se prestiamo fede al Segretario di Stato americano, Hillary Clinton.
Hillary Clinton ha serie ragioni per essere furiosa con il fondatore di WikiLeaks.
Non solo centinaia di migliaia di segreti del Dipartimento di Stato sono stati messi in piazza, ma uno dei documenti, firmato di suo pugno, incarica i suoi sottoposti di raccogliere ogni sorta di informazioni circa gli alti vertici dell’ONU, e anche, stranamente, i dati bancari relativi alla carta di credito del Segretario Generale Ban Ki-moon.
Questa volta, Julian Assange ha messo in linea 251.288 documenti segreti, che coprono il periodo dal 28 dicembre 1966 al 28 febbraio 2010 e contano 261.276.536 parole.
Di che riempire 3.000 volumi!
Grazie a WikiLeaks, il comune mortale ha, dunque, avuto accesso a informazioni inusitate.
Si può comprendere il Dipartimento di Stato, per il quale conta solo l’aspetto dannoso di queste fughe.
È un fatto che WikiLeaks renderà il lavoro dei diplomatici molto più difficile di prima.
Gli interlocutori parleranno meno e i compilatori di informazioni faranno fatica a trovare di che riempire i loro regolari rapporti.
Si può comprendere anche l’inquietudine dei politici che amano bisbigliarsi confidenze in un mondo dove microfoni, camere e orecchie indiscrete non hanno accesso.
Che sarà della politica se i retroscena e i palazzi fortificati divengono trasparenti?
Susciterà ancora interesse o perderà il suo lato oscuro, i suoi misteri e i suoi intrighi?
I governanti si rassicurino.
La politica resterà quella che è, sempre, stata, vale a dire segreta, misteriosa, intrigante.
Conserverà, sempre, le sue due parti ben distinte: la parte superficiale, alla quale il pubblico può accedere e la parte essenziale, non accessibile al comune mortale, quella delle decisioni più importanti, sovente vitali, per i miliardi di esseri umani che hanno scelto di vivere in comunità.
Nell’era numerica, in cui l’informazione circola alla velocità della luce, come nell’era preindustriale, in cui la velocità dell’informazione non superava quella del cavallo, la politica e i politici restano fondamentalmente gli stessi.
Oggi come ieri, il pubblico non ha diritto che alle informazioni che si vuole dargli.
Julian Assange non è un mago.
Non è dotato di poteri sovrannaturali che gli permettono di appropriarsi dei segreti meglio custoditi.
Le centinaia di migliaia di cablogrammi confidenziali che ha pubblicato sul sito, gli sono pervenuti, da tempo, senza che li abbia né cercati o pagati per averli.
Ad aver fornito la massa di segreti a Julian Assange è stato un soldato americano, ventitreenne, Bradley Manning.
Bradley Manning è in prigione, in attesa di processo.
La domanda che ci si pone è come gli Stati Uniti, con la massa di informazioni segrete e compromettenti di cui dispongono, abbiano potuto commettere una tale “imprudenza”.
Un errore ha guastato il sistema e messo in imbarazzo Washington.
Un responsabile americano ha giustificato questa “imprudenza” con gli attentati dell’11 settembre.
Questi attentati non hanno potuto essere evitati, tra l’altro, a causa dell’“accaparramento dell’informazione e del rifiuto dei diversi servizi a condividerla”.
A proposito degli attentati dell’11 settembre, un dibattito è in corso, attualmente, negli Stati Uniti.
Sarebbero stati messi in atto questi attentati se vi fosse stato, allora, WikiLeaks?
La domanda è stata posta da un’ex-collaboratrice dell’FBI, Coleen Rowley, sul Los Angeles Times:

“Eravamo in molti, prima dell’11 settembre, ad aver captato segnali di allarme che indicavano che qualcosa di devastante si stesse progettando. Ma lavoravamo con  burocrazie sclerotiche, incapaci di agire con rapidità e decisione. Ultimamente, due di noi si sono chiesti semmai vi fosse stato un modo rapido e riservato per ottenere informazioni, le cose sarebbero potute andare diversamente.”

In effetti, se vi fosse stato WikiLeaks prima dell’11 settembre, se avesse disposto di informazioni monopolizzate dai servizi segreti sui preparativi degli attentati, li avrebbe, senza alcun dubbio, diffusi e, oggi, la configurazione del mondo sarebbe nettamente migliore!




Daniela Zini
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