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domenica 13 maggio 2012

E SE IL QUADRO DELLA CRISI ECONOMICA FOSSE UN FALSO DI AUTORE?

E SE IL QUADRO DELLA CRISI ECONOMICA FOSSE UN FALSO DI AUTORE?

di
Daniela Zini


Da ultimo, la sociologia scruta, attentamente, i sondaggi elettorali.
Per il grande pubblico, i sondaggi si sbagliano nelle loro previsioni, ma uno sguardo più attento rivela che, forse, non è, proprio, così.
I sondaggi, anche se formulano previsioni giuste, producono nella società, che li consuma, autorealizzazioni e autonegazioni, che modificano il risultato finale delle elezioni.
I partiti politici si sono volti verso questi strumenti, che, convenientemente, utilizzati possono far vincere o perdere le elezioni.
Si tratta allora di chiederci:
“Noi siamo altrettanto manipolabili?
Esiste in sociologia una teoria chiamata dell’autorealizzazione che afferma che se una previsione errata è resa pubblica ed è considerata come vera dai membri di una società, questa profezia si realizzi. A esempio, immaginiamo uno scenario economico, in cui tutto indichi che la crescita si mantenga e, nel contempo, il ministro dell’economia lanci un falso annuncio, che riveli che siano stati percepiti segnali di rallentamento della crescita e di una probabile crisi.
Ciò è evidentemente falso, ma proviene da una fonte socialmente attendibile.
Dall’annuncio pubblico del messaggio, è possibile che, per precauzione, chi avrebbe voluto investire in un nuovo affare non investa e chi avrebbe voluto fare un acquisto importante non lo faccia.
Quale conseguenza del rallentamento degli investimenti e del consumo, sorge la crisi.
La profezia era falsa, ma si è autorealizzata.
La politica non sfugge a questo fenomeno e cerca anche di profittarne.
Nelle democrazie, dette occidentali, gli elettori si dividono in due gruppi: quelli che hanno un voto deciso, invariabile e non si astengono quasi mai, e quelli chiamati gli indecisi, che votano in modo variabile. La struttura del sistema elettorale, coniugato a diverse circostanze politiche, fa in modo che la maggioranza del gruppo sociale degli elettori decisi si divida tra i due grandi partiti di centro-sinistra e di centro-destra, quelli che sono i soli in grado di “prendere il potere”.
Ma la loro vittoria dipende da un altro gruppo sociale: gli indecisi.
Conoscendo le teorie dell’autorealizzazione, non è sorprendente constatare che la maggior parte degli studi sociologici abbia rivelato che questo voto, indeciso fino all’ultimo minuto, vada, infine, al partito che ha più possibilità di vincere. Quello che è – se non in caso di disastri e di crisi – il partito al potere.
A patto che la vita dell’indeciso sia relativamente tranquilla, il suo voto, se vota, andrà, quasi sempre, al governo.
È la ragione per cui è così difficile “far sloggiare” un partito al potere, fuorché nei casi di scomparsa di detto partito, di crisi economica o istituzionale, di guerra o di disastro naturale. E, anche in questi casi, l’elettore indeciso preferisce l’astensione all’opposizione.
Le previsioni si autorealizzano e la presunzione di vittoria produce la vittoria.
Per questa ragione, ogni gruppo mediatico o politico gonfia i sondaggi a suo favore.
O almeno ciò dovrebbe essere così.
Ma non è così semplice, perché esiste anche un fenomeno chiamato: autonegazione.
Proclamare la propria vittoria è, dunque, necessario, ma rischioso.
I due grandi partiti politici di qualsiasi democrazia occidentale si battono per i voti centristi, ciò che è la forma politicamente corretta per indicare gli indecisi. Nella loro ricerca del centro, leggono i sondaggi, cercano forme per autorealizzare risultati favorevoli e lanciano messaggi semplici, poco rischiosi per timore dell’autonegazione.
A poco a poco, i sondaggi, le loro autorealizzazioni e le loro autonegazioni occupano la biblioteca e prendono il posto delle ideologie e dei progetti.
Io non sono una esperta in questioni economiche e finanziarie e neppure una adepta del complotto permanente, cui i cittadini sarebbero confrontati… per cui mi chiedo:
“E se la crisi finanziaria non servisse che a smantellare gli ultimi servizi pubblici e a addomesticare i salariati?”
È dall’inizio della crisi finanziaria che ho il sospetto – alcuni lo giudicheranno, forse, naïf – che questa crisi non abbia che due vere funzioni, due grandi obiettivi:
-         indurre i Paesi, che ne forniscano ancora, a smantellare, definitivamente, gli ultimi servizi sociali, a venderli, che si tratti di trasporti, di distribuzione di energia, di poste, di salute, di protezione sociale, ecc. Una vendita che li renderebbe miracolosamente redditizi a spese del “servizio” reso. La privatizzazione e la riduzione del deficit fanno parte delle condizioni – di fatto, esigite – per aiutare Paesi o garantire i loro debiti. Nelle condizioni imposte, io non ho sentito parlare – probabilmente non sono stata abbastanza attenta – di aumento di esazioni per le imprese o le banche, imposto dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo Monetario Internazionale o dalla Riserva Federale Americana;  
-         indurre i salariati ad accettare sempre più elasticità e sempre più flessibilità, per riprendere quelle parole strane che caratterizzano, in effetti, un nuovo diritto di licenziamento più “spiccio”. E sempre meno protezione sociale e indennità di disoccupazione.
Poi, escluse alcune persone, banche e istituzioni, che potrebbero bruciarsi giocando con il fuoco, tutto tornerebbe normale… ma non per salariati e pensionati.
Agli economisti dire se io farnetico, a causa dell’effervescenza della febbre, o pongo due buoni interrogativi?


Daniela Zini
Copyright © 13 maggio 2012 ADZ











giovedì 3 maggio 2012

GENOVA la Superba affonda in un mare di intrighi




“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO

“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux


Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.

La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia  senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.

XVI. GENOVA
la Superba affonda in un mare di intrighi

Il ventuno maggio prossimo, la Polizia di Stato compirà centosessanta anni di attività. In questo lungo lasso di tempo, migliaia di donne e di uomini hanno sacrificato la propria vita nell'interesse della collettività.

“Piacciavi richiamare alla memoria quel tempo in cui felicissimi voi eravate tra tutti i popoli dell’Italia. Ero allora fanciullo, e le cose vedute, quasi che sognate le avessi, confusamente rammento: ma viva sempre al pensiero ho la memoria dell’incantevole aspetto che di sé porgeva a Levante e a Ponente la vostra Riviera  bella così da parere meglio celeste che non terrena dimora, simile a quella che la fantasia de’ poeti dette dei campi Elisi stanza a’ beati, fra colli ameni, e deliziosi sentieri aperti nel seno delle verdeggianti convalli. Stupende a riguardarsi nell’alto torreggiavan le moli di superbi palagi: sorgevano a piè delle rupi le mermoree magioni de’ vostri cittadini splendide al pari delle più splendide reggie, e a qual si voglia città nobilissima invidiabil decoro: mentre vincitrice della natura l’arte vestiva gli sterili gioghi de’ vostri monti di cedri, di viti, di olivi, spiegando all’occhio la pompa di una perpetua verdura. Aperti con ammirando artificio fra le rupi e gli scogli fermavan lo sguardo del navigante vaghissimi spechi, che sorretti da travi dorate echeggiavano al suono de’ flutti, i quali spumeggiando si rompevano in sull’ingresso, e dentro ne spruzzavano le muscose pareti: ed ammirato il nocchiero alla novità dello spettacolo lasciavasi cadere il remo dalle mani, e fermava per meraviglia la barca in mezzo il corso. Che se per terra cammin facendo alcun traversasse le popolose vostre contrade, di quale stupore non lo colpivano le sontuosissime vesti, e la maestosa persona dei vostri cittadini, e delle vostre matrone, o il vedere nel mezzo de’ boschi e delle remote campagne lusso e delizie da disgranare le urbane magnificenze? Che se dentro le mura della vostra città finalmente ponesse il piede, in una città di re, siccome di Roma fu scritto, ed in un tempo sacro alla felicità e all’allegrezza d’essere entrato s’avvisava.”
Francesco Petrarca

di
Daniela Zini


a mio Padre
In principio era la violenza.
Il Vecchio Testamento si apre con un fratricidio: Caino uccide Abele.
Il Nuovo Testamento si chiude con un martirio e una esecuzione, quella di Gesù Cristo.
La violenza si manifesta in ogni dove, in natura. Tra le specie, fino dalla creazione, la lotta è incessante e, anche all’interno di ciascuna di esse, vi sono scontri continui. Il genere umano non si sottrae alla regola, ma, nel corso dei secoli, assumendo comportamenti nuovi, meno istintivi, si trasforma. Se, dal suo antenato di Cro-Magnon l’uomo non è molto cambiato geneticamente, da un punto di vista culturale l’evoluzione è stata immensa e il repertorio dei comportamenti si è arricchito in misura considerevole.
L’uomo moderno, se da una parte, respinge la violenza, dall’altra, se ne lascia come affascinare: la letteratura sadica ha, ancora, i suoi adepti.
La violenza, dunque, non è nata con questo secolo. L’uomo è un primate aggressivo, come ha scritto l’etologo Konrad Lorenz. Si batte, senza tregua, per difendere il suo spazio, la sua condizione, la sua egemonia. Rispetto a quelle animali, le società umane sono stratificate, gerarchizzate e lo spazio in cui si muovono è, rigorosamente, segmentato, contrassegnato. All’interno di esso, ogni individuo dispone, poi, di un ambito fisso, riconosciuto e ha una posizione sociale precisa, codificata. La famiglia ha la sua casa, il villaggio le sue terre, la banda il suo quartiere, la minoranza etnica il suo ghetto, lo Stato il suo territorio. Talune gerarchie sono classiche e si ritrovano in tutte le società umane; è il caso, a esempio, dei rapporti fondati sul sesso e sull’età. Gli uomini adulti dominano le donne adulte; gli adulti, in genere, dominano i bambini; i bambini più grandi dominano i più piccoli. Di volta in volta, secondo le occasioni e le circostanze, ognuno è in posizione di dominante o di suddito. Se le regole annesse vengono violate, tuttavia, non sempre, si ha uno scontro violento. Con il linguaggio, i comportamenti si diversificano, la ragione diventa emergente e l’astuzia finisce per prevalere.
La violenza scompare con l’avvento del dialogo. La violenza arretra solo quando lo Stato di diritto sostituisce quello di natura. Fino al secolo XVIII, la tortura è pratica corrente in tutti i Paesi occidentali e le esecuzioni capitali sono precedute da orribili supplizi. La tortura viene considerata uno strumento legittimo per estorcere la confessione; rappresenta l’imporsi della forza, un metodo di governo. Con l’inquisizione, poi, si fa istituzione: gli eretici vengono bruciati, annegati, fatti a pezzi sulla ruota. Gli sforzi per impedire il massacro rimangono a lungo vani, tanta è l’intolleranza e irrefrenabile il bisogno morale di combattere il Maligno; i corpi dei peccatori vengono perseguitati, umiliati, mutilati anche dopo la morte...
Queste pratiche barbare scompaiono solo nel corso dei Lumi, infine, dissolte dal vento della tolleranza e della ragione, per ricomparire, in modo sporadico, quando lo Stato di natura viene reintegrato nei suoi diritti, in occasione di guerre o disordini.
In nome di idee e di ideologie, milioni di individui continuano a morire, imprigionati, schiacciati, martirizzati. Le tecniche sono cambiate. La panoplia primitiva è ancora usata, ma non è più la sola, dopo l’avvento della elettricità, della farmacologia, della psicologia. Solo le intenzioni non sono mutate: si tratta, sempre, di ridurre l’opposizione, di esorcizzare il MALE.
L’Italia non ha una lunga tradizione democratica. Prima dell’unità nazionale, raggiunta, nel 1871, a prezzo di dure lotte, il Paese aveva conosciuto secoli di anarchia sanguinosa. Dopo il 1871 la sua democrazia continua a essere tale solo sulla carta; la minoranza liberale al potere non è rappresentativa di una popolazione composta di contadini, nella grande maggioranza, analfabeti. Immediatamente dopo la prima guerra mondiale, la confusione politica raggiunge il parossismo e apre la strada al fascismo. L’Italia diviene, così, il primo dei Paesi occidentali a sperimentare gli effetti di una svolta totalitaria; a partire dal 1923, il potere è tutto nelle mani di un dittatore che rimarrà per più di venti anni alla testa del Paese.
I casi “individuali” di disobbedienza restarono inefficaci. È impossibile sapere quanto più efficace sarebbe stata la disobbedienza se fosse stata generalizzata. Appare, tuttavia, probabile che, se la cooperazione non vi fosse stata, o almeno non su scala così ampia, le complesse operazioni di abuso di massa avrebbero posto agli amministratori problemi gestionali, tecnici e finanziari di ben altre dimensioni.
Nel suo studio sulla criminalità italiana, De la criminalité en France et en Italie, scritto nel 1884, Albert Bournet fa una constatazione che, con pochi aggiustamenti, potrebbe essere applicata anche al momento presente.
“Un Paese non riconquista la sua unità nazionale come ha fatto l’Italia, non riprende un serio posto sulla carta d’Europa, dove figurava come semplice espressione geografica, senza che gli rimanga molto da fare dal punto di vista della sua trasformazione morale. Non si può chiedere a popolazioni mal governate per secoli l’ordine e il rispetto della legge, che sono il risultato di una lunga abitudine alla pace e alla regolarità.”


1.     Genova, la tentacolare Repubblica Marinara che strappò alla Serenissima il controllo dell’Oriente
“Dal molo e dal porto di questa città di Genova possono uscire insieme in mare ottanta o cento navi, con dieci o dodici carrache, per andare a mercanteggiare o a conquistare terre fino in Grecia, in Turchia, in Terrasanta ed ovunque per il mondo. E in passato, come ho appreso dalle parole e dalle informazioni di alcuni mercanti e di altri genovesi degni di fede e come ho letto negli annali delle loro gesta, questi genovesi con potenti flotte seppero prendere Gerusalemme, Antiochia, Negroponte, Metellino, Modone con Candia e Chio, che ancora occupano, con molte altre isole e paesi della Grecia e dell’Oltremare e più volte assediarono Venezia, ridotta alla ragione. In conclusione l’abilità nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i genovesi sono detti signori del mare.”
Porpora, indaco, sete raffinate, broccati d’oro, armi intarsiate, essenze e droghe. Le galee liguri caricano ad Antiochia, merci preziose che verranno, poi, scambiate e rivendute con incalcolabili profitti per Genova. Il vasto impero coloniale ligure era iniziato da questa città turca, opulenta e commerciale, espugnata da Boemondo di Taranto, dopo un difficile assedio, durato dall’ottobre del 1097 al giugno del 1098. Boemondo l’aveva chiesta, come ricompensa, ai crociati, minacciando di abbandonarli nelle altre imprese.
 Ma, quando, il 3 giugno, la città desiderata cadeva, veniva assegnata, provvisoriamente, sia ai normanni sia ai provenzali. Nel febbraio successivo, rompendo i patti, Boemondo tornava e, con l’intervento della marina ligure, occupava Antiochia. Compensata con larghe concessioni, libertà di accesso a strade e approdi della città, Genova vi organizzava i suoi primi grandiosi traffici coloniali con i proventi dei quali poteva prepararsi a più grandi conquiste.
Dopo aver abbandonato le caverne sui monti, abitate per secoli, gli antichi liguri erano scesi verso il mare, costruendo pianure degradanti, dove erano sorti i centri abitati di Genova e Savona. Sopraffatti dalle popolazioni migratorie dell’Asia, del Tirreno e dai fenici, i liguri avevano appreso l’uso di strumenti di ferro e di bronzo e anche una forma di pirateria mascherata da commercio. Più tardi erano stati assoldati, per le loro conquiste, dai cartaginesi, che li avevano definiti:
“Asciutti, robusti, muscolosi, bravi navigatori e soldati.”
Anche le donne, sembra, avessero la stessa “forza delle fiere” degli uomini. Venuti a conoscenza di questa buona razza, i romani avevano cercato di distoglierli dagli accordi presi con i cartaginesi, che avevano giurato sugli altari guerra eterna a Roma. Quando il giovane Magone, fratello di Annibale, era sbarcato e aveva saccheggiato la riviera di Ponente, distruggendo Genova, Publio Scipione era andato a fronteggiarlo, lo aveva vinto e, in due soli anni, ottomila romani avevano riedificato la città, guadagnandosi l’ammirazione dei liguri che erano divenuti i loro “soldati di acciaio”, tracciando importantissime strade ancora oggi esistenti, e contribuendo a molte vittorie romane, ricompensate spesso con altissime cariche.
Genova diveniva, così, il più importante centro marittimo-commerciale della Liguria romana.
Dissoltosi l’impero, i liguri conoscono invasioni barbare, gote, longobarde, franche e greche. Nella sua lunga storia Genova conosce solo brevi periodi di benessere, cancellati da un lungo secolo di aggressioni e occupazioni normanne sulla riviera di Levante e saracene su quella di Ponente. Saccheggi e difese disperate addestrano i liguri all’attacco e alla difesa, preparandoli a un avvenire coloniale incredibilmente vasto. L’ultimo saccheggio saraceno, subito da Genova, spingerà, arditamente, i suoi navigli fino a Tunisi e in Sicilia non solo per vendetta, ma in cerca di mezzi per ricostruirsi. Applicati gli stessi sistemi subiti, i liguri imporranno grevi gabelle e, facendosi pagare forti somme, potranno erigere intorno alla loro città solide mura, per difenderla e potenziare anche la marina pronta, ormai, a dare battaglia a re saraceni, a sultani e ad africani.
Nel 1034, Genova occupa Bona e, nel 1087, spronata da papa Vittore III, sbarca le sue truppe in Africa, invadendo, insieme ai pisani, molti territori e costringendo il re di Tripoli e quello di Tunisi a pagare forti tributi alla Santa Sede. Per evitare altre guerre, quei sovrani sborseranno ingenti somme, concedendo anche larghi privilegi doganali.
Nell’anno 1095, papa Urbano II bandisce la prima guerra contro i turchi e chiede assistenza alla marina genovese. Intravedendo nella nobile impresa anche l’utile commerciale, i liguri armano dodici navi e, nel mese di luglio del 1097, volgono le vele verso Oriente. La parte crociata più fanatica trova il martirio tra genti barbare e non tocca neppure la Terra Santa. Il resto della spedizione si divide in due parti. Quella inoltratasi in Armenia, sfuggita ai turchi, passa l’Eufrate e conquista Odessa. Il capo crociato Baldovino, conte di Fiandra, non andrà oltre, facendosi proclamare re. La parte più numerosa dell’esercito giunge in Siria, ma non riesce a occupare la ricca Antiochia. Sarà un assedio fino alla fame, felicemente risolto dall’arrivo di altre galee liguri con vettovaglie e macchine da guerra. Strenua è la difesa turca, ma un traditore apre le porte ai genovesi, che entrano in città, l’ultimo di maggio del 1098, “saccheggiandola in modo orrendo”.
Nel 1103, Genova sbarca uomini da quaranta galee, occupa Accarona, Gibelletto, Tortosa, Tolemaide e San Giovanni d’Acri.
Nel 1108, ottanta suoi navigli si presentano nel porto di Tripoli.
La resistenza è tenace ma, fuggito il sultano, la città si arrende, il 13 luglio.
Un anno dopo, di fronte a una squadra di ventidue galee genovesi, anche Beirut (allora Barutu) capitola.
Verranno imposti ai principi locali obbedienza, privilegi esclusivi, tributi considerevoli, possedimenti su quindici città e altre contrade di Gerusalemme.
Tra il 1116 e il 1120, la Spagna, che non possiede una grande flotta armata, chiede l’aiuto della marina genovese. I saraceni, con naviglio forte e bene organizzato, si sono impadroniti delle Isole Baleari, di Minorca e di Almeria (città del regno di Granada) e, partendo da queste basi, infestano il Mediterraneo e i mari confinanti con le coste iberiche, devastando e occupando villaggi e città.
La Spagna non riesce più a contrastare il flagello saraceno e stringe con Genova un trattato militare, che permetterà a quelle popolazioni costiere di vivere più tranquille e protette.
Costruita dai più abili operai dell’epoca, comandata da esperti ufficiali, la grande flotta genovese corre i mari da sparviera, collegando le colonie alla patria, proteggendo se stessa e i suoi alleati, concludendo, in tredici anni, instancabile e ardita, nove spedizioni in Siria con mutevoli vantaggi coloniali e mercantili. Nessuno può ignorare, ormai, la sua potenza in Asia, Africa, Oriente. Una potenza seguita, con esasperata ostilità, da Pisa e da Venezia e che porterà i tre Comuni marittimi d’Italia a conflitti disastrosi e secolari. Il Comune genovese era sorto, nel secolo XI, poco dopo quello di Pisa, condividendone la supremazia sul Tirreno, per impedirvi l’affermarsi dei musulmani. L’antagonismo tra le due Repubbliche diviene esasperato quando le crociate permettono a Genova di conquistarsi, nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero, scali e territori. Nella divisione delle colonie e dei bottini, Genova e Pisa si erano, sempre, disputate, ma la causa che provocherà il primo vero conflitto sarà l’ostinato tentativo di Genova nel volersi impossessare della Corsica.
I pisani l’avevano occupata, dietro istigazione di papa Gregorio VII, che voleva sottrarla ai franchi e papa Urbano II aveva, poi, donato l’isola alla Chiesa pisana, con grande rammarico di Genova, essendo la Corsica un’importante base di controllo navale e un punto obbligato di passaggio.
Dopo un anno di continue provocazioni senza risultati, i genovesi avevano deciso di affrettare i tempi. Scrivono le Cronache:
“Allestirono un forte esercito di ventiduemila guerrieri tra cavalleria e fanteria, vestiti di corazze di ferro bianco come la neve, ottanta galere, trentaquattro gatte (bastimenti con castelli coperti per nascondere i soldati) ventotto golabi (piccole navi a due alberi) e quattro grandi navi cariche di macchine e di tutti gli altri strumenti necessari alla guerra e andarono al porto pisano.”
Era il 14 settembre 1120.    
Colti di sorpresa e sbigottiti dinanzi a tanto spiegamento di forze, ai pisani non resta che chiedere la pace e accettare tutte le condizioni che a Genova piace loro imporre, compreso il divieto di navigazione nel Mediterraneo. Pisa, aiutata, nascostamente, dalla Repubblica Veneta, resisterà, tuttavia, ancora un secolo e mezzo, dando alla sua nemica molto filo da torcere tra ribellioni sanguinose, ingenti danni, aggressioni e rapine navali reciproche. Solo, nel 1284, Genova riuscirà a distruggerla, per sempre, nella cruenta battaglia della Meloria, un’isoletta del Tirreno.
La guerra con Pisa non distrae la marina ligure dalla caccia alle galee saracene, spesso, cariche di grandi quantità di oro. A Bugia (Bugea), capitale dei mori, ne catturano una.
“L’ingente bottino”,
scrive il cronista,
“spartito tra le dodici galee, darà ad ognuna l’equivalente di una somma favolosa.”
Queste aggressioni inaspriscono le guerre con i saraceni e Genova decide di distruggere Minorca, il loro covo. È il 1146 e la Repubblica arma ventidue galee, sei golette fornite di macchine belliche e castelli di legno per abbattere le mura ed espugnare la città.
Gettate le ancore nel porto, solo pochi uomini restano a guardia delle navi. Quelli che sbarcano organizzano scorribande devastatrici per tutta l’isola. Un saccheggio che dura quattro giorni. Carri pieni di ricchezze vengono trascinati alle navi, insieme a giovani prigionieri, da vendere come schiavi durante il ritorno. Al reimbarco, tuttavia, una spiacevole sorpresa attende i genovesi: trecento cavalieri mori, affiancati da molti soldati. La battaglia è dura, ma i liguri non perdono la testa e riescono a caricare il bottino sulle navi con poca perdita di uomini.
Levate le ancore, raggiungono e saccheggiano Polenza, la capitale di Minorca, poi, volgono le vele verso Almeria, nel cui porto trovano molte navi cariche d’oro e se ne impadroniscono. Alzate le torri di legno, conquistano anche la città, che daranno, poi, in feudo, per trenta anni, a un certo Otto de Bonvillano, con l’obbligo di consegnare metà degli introiti commerciali al Comune di Genova.
Potente e insaziabile, la Repubblica genovese possiede ormai un impero vastissimo e accetta, con molte riserve, anche le proposte papali di partecipare a nuove crociate contro i saraceni. Con una parte di questi ha, già, fatto vantaggiosi accordi e non desidera romperli né esporre le proprie colonie a rappresaglie. Non rinuncia, tuttavia, a trarre utili dalle crociate e, senza correre rischi, fa di Genova il centro di partenza, ordinando ai propri consoli di incitare le popolazioni e i principi della cristianità a partecipare alla liberazione di Gerusalemme ogni qualvolta cada, nuovamente, in mani saracene.
Divisi i regni conquistati in signorie feudali, la Repubblica ne evita spese e noie, concedendoli a facoltose famiglie liguri con l’obbligo di incrementarne i commerci e versare a Genova ingenti somme annuali. La contea di Tripoli era divenuta, così, da diverse generazioni, signoria degli embrici, il cui primo componente, Guglielmo, grande condottiero soprannominato “Testa di Maglio”, aveva capitanato, nel 1099, una celebre spedizione navale in soccorso della prima crociata. Ma Guglielmo era divenuto famoso, soprattutto, per una sua invenzione, usata per la presa di Laodicea. Vi si era fermato per liberare Boemondo di Taranto, caduto prigioniero dei turchi, e, trovata una forte resistenza, aveva avuto un’idea geniale, che aveva risolto presto la situazione. Fatta costruire una grandissima torre di legno facilmente divisibile e trasportabile, la aveva fatta disporre in modo che il nemico non potesse danneggiare il funzionamento e aveva aspettato il grande attacco turco, che era avvenuto il 14 luglio 1099. Accostata la torre alle mura di Laodicea, i genovesi avevano lanciato dall’alto di essa dardi, saette e fuoco…
I turchi vi avevano gettato contro fiaccole per incendiare l’incredibile congegno i cui fianchi, tuttavia, erano stati fasciati di corame. Non riuscendo nell’intento, i turchi avevano alzato una grossa antenna, alla quale avevano attaccato una larga trave, che lanciavano, ripetutamente, come un ariete, contro la torre per fracassarla. Prontissimi, i genovesi la avevano afferrata, ne avevano reciso le corde e, fissandola come un ponte tra la torre e le mura, la avevano attraversata, velocemente, invadendo e saccheggiando la città.
“Con il bottino ricchissimo ed ingente”,
riportano le Cronache,
“fu traslato a Genova, in trionfo, anche il catino.”
Si credeva che fosse smeraldo e che Gesù vi avesse mangiato l’agnello pasquale. È conservato, ancora oggi, tra i tesori della bella Cattedrale di San Lorenzo, a Genova. 
L’eliminazione della Repubblica pisana era stata deplorata da Venezia, che non aveva dimenticato l’aggressione genovese di Costantinopoli. Dopo la quarta crociata, Venezia aveva fondato nell’incantevole città del Bosforo, insieme ai francesi, l’impero latino, minacciato, più volte, senza fortuna, anche dai greci i quali, non possedendo una grande flotta, si erano, poi, intesi con Genova, giurandosi a Nicea, il 13 marzo 1261, alleanza perpetua ai danni della Repubblica veneta.
Le promesse greche ai liguri erano vantaggiosissime: “ampia libertà di commerci in tutte le terre e porti dell’impero, abolizione di ogni dazio sia all’entrata sia all’uscita, un palazzo, una loggia, una chiesa, un bagno, un forno e altrettante case per i mercanti nelle città di Anea, Smirne, Adramitto, nelle isole di Scio e Lesbo, a Costantinopoli stessa, a Salonicco, Cassandra, Creta e Negroponte, insieme al diritto di tenere in ciascuna città un console con i più ampi poteri amministrativi, giudiziari, civili e criminali”.
I genovesi chiederanno anche il recupero di quanto avevano posseduto nel passato a Costantinopoli, più l’esclusione dai porti di ogni Nazione nemica, la Chiesa di Santa Maria, le logge che la circondavano e il castello-fortezza dei veneti. Vorranno anche la città e il porto di Smirne, dieci galee, sei navi, doni annuali in danaro, palli preziosi al Comune e al Duomo di San Lorenzo a Genova.
I loro obblighi verso i greci?
L’appoggio della flotta. Gliela faranno anche desiderare, giungendo quasi a cose fatte, ma in tempo giusto per pretendere quanto era stato pattuito. Costantinopoli cade nella notte del 25 luglio 1261, ma l’imperatore Balduino II, fuggito con i veneziani a Negroponte, preparati i rinforzi, torna a dare battaglia agli occupanti. Papa Urbano IV richiama, severamente, Genova all’ordine. La Repubblica rifiuta di restituire quanto ha, già, preso e non intende, neppure, rinunciare al resto promessole dai greci. Verrà interdetta con il divieto ai suoi sacerdoti di celebrare la messa.
Per pronta risposta, Martin Boccanegra arma la sua flotta, si porta a Costantinopoli e ne prende possesso, assicurando sul trono il capo greco Michele VIII Paleologo, che manterrà tutte le promesse. In città, intanto, i liguri danno la caccia fino all’ultimo veneto, distruggendo il castello, il monastero, la chiesa.
In segno di vittoria si porteranno, a Genova, le pietre per costruirvi il Palazzo di San Giorgio. Gli sfarzi di Venezia saranno superati con il trasferire nell’arcipelago varie famiglie principesche i cui rampolli, tra vizi, arroganza e soprusi, daranno molti guai a Genova, rovinandone i rapporti con l’aristocrazia locale.
La bruciante disfatta di Costantinopoli toglie a Venezia il predominio in Oriente e non potrà essere dimenticata. Per tenere impegnata Genova, la Serenissima ne aiuta, nascostamente, i nemici, perseguitandola attraverso questi nelle colonie e sui mari più lontani.  
Come risposta, la Superba taglia il naso o cava gli occhi ai prigionieri veneti, non risparmiando umiliazioni alla più antica Repubblica. Le due rivali tenteranno di distruggersi a vicenda, per un secolo circa, attraverso tre guerre sanguinose dagli esiti incerti. Genova non riuscirà, tuttavia, a mantenere, per sempre, il primato. I feroci conflitti tra le grandi famiglie Doria, Fieschi, Spinola e Grimaldi, le lotte continue tra le altre numerose e potenti casate bramose di superarsi nei fasti e nel predominio delle cose del governo dividono la popolazione in irriducibili violente fazioni. Rioni e quartieri ne sono insanguinati, castelli e palazzi distrutti, la giustizia e l’autorità dello Stato indebolite dai ricatti e dalle intimidazioni.
La dissoluzione dei valori mina la grande Repubblica Marinara proprio in patria. Venezia lo sa e non si lascia sfuggire l’occasione battendola, definitivamente, a Chioggia, nel 1378, dopo una violentissima battaglia. L’imperialismo marinaro veneto sopravvivrà a quello ligure, per poco più di un secolo, distrutto, in patria, dai lussi e dalle sregolatezze, in Oriente, dall’occupazione turca di Costantinopoli, avvenuta nel 1453, e anche dalla scoperta dell’America (1492).
Con le colonie saccheggiate dai corsari catalani, sempre sconvolta dalle fazioni e con il territorio insidiato e occupato in parte dai fiorentini, Genova resterà sottomessa ai Visconti e agli Sforza di Milano, dal 1396 al 1409, senza riuscire a porre fine alle sanguinose rivolte interne.
Nel 1402, Tamerlano assale e distrugge, all’improvviso, l’opulenta colonia ligure di Tana e neppure Caffa sfugge al saccheggio.
Morto poco dopo il grande conquistatore, mongoli e tartari se ne dividono l’impero, ignorando ogni convenzione stipulata dai genovesi, ai quali occuperanno e saccheggeranno le più ricche colonie, strenuamente e inutilmente difese dagli stessi coloni, non più protetti da una patria temuta e potente. Genova colleziona sconfitte, chiede la protezione del re di Francia, poi, il grande ammiraglio Andrea Doria, con l’aiuto di Carlo V, riesce a restaurare, nel 1528, una Repubblica indipendente, che spagnoli e sabaudi tenteranno, in tre riprese, di conquistare.
Nel 1684, Luigi XIV re di Francia, ordina su Genova un disastroso bombardamento navale.
Nel 1746, gli austriaci invadono la città, ma sono cacciati, a furor di popolo, dopo soli tre mesi. Ormai, al tramonto, nel 1768, la Repubblica genovese cede la sua ultima colonia ribelle, la Corsica, alla Francia. Occupata dalle truppe napoleoniche, nel 1796, Bonaparte la annette all’impero francese, il 4 giugno 1805. Dieci anni più tardi, unita al Regno di Sardegna, ne diventa la seconda città. Genova non è, ormai, più una Repubblica indipendente e diverrà soltanto una Città del Regno d’Italia, costituitosi nel 1861.


2.   Genova 2012: la memoria indignata
“Il  faut avoir un haut sentiment d’impunité pour se livrer à des actes indignes d’un Etat de droit.”
Eric Fottorino, ex-directeur du Monde, novembre 2008
Dopo Venezia (1987) e Napoli (1994), il G8, il Forum dei governi degli otto Paesi più industrializzati del mondo (Giappone, Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Italia, Canada, Germania, Russia), torna in Italia, a Genova. A gestire il Summit è il governo Berlusconi II, insediatosi l’11 giugno 2001.
Per l’Italia, per il nuovo governo, per il capo della polizia, Giovanni De Gennaro, per il sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, e per il prefetto di Genova, Antonio Di Giovine, è un appuntamento importante, un’occasione di prestigio.
“È nostra intenzione far sì che l’effetto G8 abbia una eco prolungata nel tempo e che il patrimonio culturale e artistico della città, che in quell’occasione verrà fatto conoscere su scala internazionale, possa continuare ad essere apprezzato sempre di più e sempre meglio.”
Adnkronos, 11 febbraio 2001, G8: È ufficiale si terrà a Genova, soddisfatto sindaco [http://www.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2000/02/11/Economia/G8-E-UFFICIALE-SI-TERRA-A-GENOVA-SODDISFATTO-SINDACO_174000.php]
Tre giorni, dal 20 al 22 luglio, durante i quali i riflettori italiani e internazionali saranno puntati su quell’incontro e in cui, invece, si verificherà, secondo Amnesty International, “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”.
Ne scoppierà uno scandalo politico e mediatico e un lungo processo.
L’uccisione di Carlo Giuliani, 23 anni [http://www.ansa.it/web/notizie/collection/rubriche_speciali/07/10/visualizza_new.html_787800496.html], il 20 luglio, e l’irruzione della polizia nel complesso scolastico Diaz-Pertini, dove si trova il centro di convergenza dei media alternativi, poco prima della mezzanotte del 21 luglio, sono gli episodi più dolorosi.  Organizzata come un luogo di riposo e di riunione per una parte dei manifestanti stranieri, la scuola diverrà la scena di “un’operazione di macelleria messicana”.
Il verbale della polizia parlerà di “perquisizione”, perché sospetta la presenza di black bloc all’interno dell’edificio.
La mattina del 22 luglio, la portavoce della questura di Genova, in conferenza stampa, diramerà il seguente comunicato:
“Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all’autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani [di fatto, erano 93: 92, all’interno della scuola Diaz-Pertini, più 1, Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, davanti al cancello della stessa scuola, ndr, http://www.youtube.com/watch?v=4Mo2tm6IpLY&feature=fvwrel, http://www.youtube.com/watch?v=D8wgUhguFtY], in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All’atto dell’irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini.”
Il primo agosto, verrà istituito un comitato parlamentare per un’indagine conoscitiva sui fatti accaduti a Genova, in occasione dello svolgimento del vertice G8, composto da 36 membri [18 deputati e 18 senatori], i cui lavori scompariranno dalle cronache l’11 settembre, dopo il crollo delle Twin Towers. Da quel momento in poi, dalla politica non verrà alcun contributo di verità.
Le responsabilità di ciò che accadde, quei giorni, nella scuola Diaz-Pertini [http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2010/05/18/visualizza_new.html_1793976725.htmlhttp://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/topnews/2012/04/27/Diaz-nominato-Pg-udienza-Cassazione_6786714.html] e nella caserma di Bolzaneto [http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/liguria/2010/03/05/visualizza_new.html_1730313231.html], non sono, mai, state chiarite. Senza le inchieste dei pubblici ministeri di Genova, Enrico Zucca, Francesco Cardona Albini (processo scuola Diaz-Pertini), Vittorio Ranieri Miniati, Monica Parentini e Patrizia Petruzziello (processo caserma di Bolzaneto), non avremmo saputo quasi nulla e, ancora, sappiamo poco di quello che avvenne nelle strade: chi ordinò la carica di via Tolemaide, che cambiò la giornata del 20 luglio, provocando gli scontri in cui fu ucciso Carlo Giuliani.
Undici anni sono trascorsi dal G8 del 2001.
Vi è stato l’11 settembre, il terrorismo e l’antiterrorismo, le guerre di Oriente e le manifestazioni per la pace, le folle pacifiche riunite, a Firenze, nel novembre del 2002, il semi-fallimento mediatico delle manifestazioni contro il G8 di Evian, le immagini delle torture della prigione irachena di Abu Ghraib, la primavera araba.
Di fronte a questa nuova iconografia della violenza quanto potrebbe pesare qualche bavure delle forze dell’ordine?
Tuttavia, durante il Forum Social Européen a Saint-Denis, nell’ottobre del 2003, come in molte altre occasioni, la morte di Carlo Giuliani e la sorte di tutti coloro che tornarono da Genova, allungati su barelle, sono state commemorate solennemente; attestando, una volta di più, la sopravvivenza simbolica degli eventi dell’estate del 2001.
Io non cercherò di ricostruire e analizzare i violenti episodi delle tre giornate di manifestazioni di strada, l’irruzione notturna nella scuola Diaz-Pertini e le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine sui fermati, proseguite nella caserma di Bolzaneto. Altre ricerche vi si sono, già, applicate, che hanno, principalmente, mobilitato i metodi classici della sociologia dell’azione collettiva per mostrare come la scalata alla violenza si spieghi con diverse cause concomitanti. 
Io eviterò anche di sostituirmi alle procedure giudiziarie in corso all’ora attuale, designando responsabilità individuali, anche se le prime sentenze non mancano di suscitare interrogativi sulle possibilità della magistratura e la volontà del governo a fare luce sui fatti.
Di certo, delle centinaia di persone che transitarono a Bolzaneto e/o alle quali venne notificata una detenzione provvisoria, nessuna è stata oggetto di azioni giudiziarie da parte della magistratura, tanto i motivi del loro arresto apparvero, nell’immediato, inconsistenti. Parimenti, la denuncia contro i 93 giovani presenti nella scuola Diaz-Pertini, che li vedeva accusati di essere un focolaio eversivo e di aver attaccato le forze dell’ordine, era classificata, manifestamente, infondata e una procedura istruttoria era avviata contro le forze dell’ordine per i fatti  di quella notte e per la falsificazione di prove.
In un certo senso, le giornate genovesi del 2001 attendono ancora una analisi che, alla maniera di quella di Serge Berstein (Le 6 février 1934, 1975) sulla sommossa parigina del 6 febbraio 1934 [http://www.youtube.com/watch?v=L9B6PEDkC1Q], renda conto degli eventi, raccogliendo, analizzando e ricombinando, in modo coerente, l’insieme delle fonti disponibili, compresi gli archivi amministrativi e giudiziari: analisi che non potrà, verosimilmente, farsi che nel contesto calmo di una futura retrospettiva storica. Il 6 febbraio 1934 è restato nel cuore di molti francesi, a suggello di un sogno rimasto impossibile: il superamento delle ideologie per il bene comune. Furono in molti a battersi per quell’idea di bene, da una parte e dall’altra della barricata eretta dalla seconda guerra mondiale: maquisards e collabos, uniti dall’amore per la loro terra, alla ricerca confusa di una identica appartenenza. E, per almeno uno di loro, il 6 febbraio fu il destino: Robert Brasillach, accusato di collaborazionismo e condannato a morte, fu fucilato, al forte di Montrouge, proprio il 6 febbraio del 1945, un altro martedì…

Mon pays m’a fait mal par ses routes trop pleines,
Par ses enfants jetés sous les aigles de sang,
Par ses soldats tirant dans les déroutes vaines,
Et par le ciel de juin sous le soleil brûlant.

Mon pays m’a fait mal sous les sombres années,
Par les serments jurés que l’on ne tenait pas,
Par son harassement et par sa destinée,
Et par les lourds fardeaux qui pesaient sur ses pas.

Mon pays m’a fait mal par tous ses doubles jeux,
Par l’océan ouvert aux noirs vaisseaux chargés,
Par ses marins tombés pour apaiser les dieux,
Par ses liens tranchés d’un ciseau trop léger.

Mon pays m’a fait mal par tous ses exilés,
Par ses cachots trop pleins, par ses enfants perdus,
Ses prisonniers parqués entre les barbelés,
Et tous ceux qui sont loin et qu’on ne connaît plus.

Mon pays m’a fait mal par ses villes en flammes,
Mal sous ses ennemis et mal sous ses alliés,
Mon pays m’a fait mal dans son corps et son âme,
Sous les carcans de fer dont il était lié.

Mon pays m’a fait mal par toute sa jeunesse
Sous des draps étrangers jetée aux quatre vents,
Perdant son jeune sang pour tenir les promesses
Dont ceux qui les faisaient restaient insouciants,

Mon pays m’a fait mal par ses fosses creusées
Par ses fusils levés à l’épaule des frères,
Et par ceux qui comptaient dans leurs mains méprisées
Le prix des reniements au plus juste salaire.

Mon pays m’a fait mal par ses fables d’esclave,
Par ses bourreaux d’hier et par ceux d’aujourd’hui,
Mon pays m’a fait mal par le sang qui le lave,
Mon pays me fait mal.
Quand sera-t-il guéri?

Robert Brasillach, 18 novembre 1944

Nel carcere di Fresnes, Brasillach continuò a essere ciò che era: un poeta. E, il 4 febbraio 1945, quarantotto ore prima di morire, rivolse un pensiero ai morti di quel febbraio che sembrava così lontano, ai “suoi morti”:

Les derniers coups de feu continuent de briller
Dans le jour indistinct où sont tombés les nôtres.
Sur onze ans de retard, serai-je donc des vôtres ?
Je pense à vous ce soir, ô morts de Février.

Molto tempo fa, ho appreso anche io a pensare a quei morti.
Alcuni fatti, particolarmente gravi, non possono e non debbono essere dimenticati.
Debbono essere di monito, perché non si ripetano.
Ecco perché il G8 di Genova non deve essere dimenticato.
Io non ero a Genova, nel 2001.
Io non ho una conoscenza dei fatti come possono averla gli attori sociali che hanno vissuto la questione “dall’interno” (le vittime e i loro parenti da un lato, gli indagati dall’altro) o gli inquirenti che hanno investigato da vicino sulla questione.
Ciò mi porta a precisare perché io ne scriva.
Io intervengo quale cittadina italiana.
L’articolo 19 della Costituzione me ne dà facoltà.
E mi chiedo:
“Quanto è stata “politica” l’azione delle forze dell’ordine, a Genova?
Esiste una azione pianificata, sistematica e permanente, basata su parametri di professionalità o prevale l’improvvisazione e l’episodicità?
Le forze dell’ordine sapevano di commettere abusi e contro chi li commettevano?
Le forze dell’ordine possono rifiutarsi di obbedire a ordini superiori, che, oggettivamente, violino i diritti umani, senza incorrere nel reato di rifiuto o ritardo di obbedienza [art. 329 c.p.], punito con la reclusione fino a due anni?
Perché le forze dell’ordine non hanno fatto pulizia nei propri ranghi, senza aspettare i provvedimenti della magistratura: liberandosi di tutti coloro che, in quei giorni, hanno disonorato la loro divisa?
Perché le forze dell’ordine sono giunte a “giustificare l’ingiustificabile”, per riprendere una formula di George Orwell, in nome di un certo “spirito di corpo” e una solidarietà intrinseca, che cementa l’unione di gruppo e, solitamente, viene chiamata “cameratismo”?”
È partendo da questi interrogativi che svilupperò la mia discettazione.
Una caratteristica di forma, riconducibile a una strategia di potere, è ciò che si potrebbe, opportunamente, definire “l’insabbiamento” delle arene pubbliche, antica tecnica di gestione del giudiziario, che consiste a ritardare, indefinitamente, la fine di un processo, diffondendo, attraverso i media, una versione dei fatti, che li presenta come un episodio attestato, ma, a poco a poco, edulcorato. É un mélange di temporeggiamento e di disinformazione sottile, che anestetizza, progressivamente, l’indignazione iniziale. L’evento è, così, classificato negli archivi e diviene oggetto riservato della storia globale dello Stato, mentre vittime e colpevoli scompaiono dietro una sofferenza e una responsabilità che non saprebbero essere che collettive. Così è stato per i responsabili della strage di Piazza Fontana (Milano 12 dicembre 1969), che aprì gli Anni di Piombo: nonostante la responsabilità dell’organizzazione neo-fascista Ordine Nuovo sia stata stabilita e sia, ormai, conosciuta da tutti, decine di verdetti contraddittori non hanno, infine, permesso di riconoscere la colpevolezza di alcuno. In modo similare, se agenti della forza pubblica sono stati incriminati, al termine dell’istruttoria sui fatti del centro di primo arrivo e identificazione di Bolzaneto, l’inizio del processo non è stato fissato che molto tardivamente; mentre è molto probabile che gli accusati, appartenenti a quattro corpi diversi (carabinieri, polizia, polizia penitenziaria e personale medico) senza ordine integrato, abbiano costruito la loro difesa in modo da impedire l’individuazione dei fatti e degli atti di ciascuno, salvo a rigettarsi la responsabilità da una unità all’altra.
Si riduce, insomma, il fatto allo status di evento sfortunato, nel senso letterale della parola: la malasorte, il destino, la fatalità – e non un fatto contingente, che dovrebbe non avere luogo, che potrebbe non avere luogo e che non si è reso necessario che per un certo ordine sociale e politico che non ha, in sé, niente di necessario. Qualificare il fatto di bavure significa, in altri termini, dire che noi possiamo deplorarlo, ma non rifiutare, denunciare, combattere – come lo ha sottolineato Hannah Arendt:
“Il furore non è, in alcun modo, una reazione automatica di fronte alla miseria e alla sofferenza in quanto tale. Nessuno si infuria davanti a una malattia incurabile o a un terremoto, né di fronte a condizioni sociali che sembrano impossibili da modificare. È solo nel caso in cui vi siano buone ragioni per credere che queste condizioni possano essere cambiate e non lo siano che il furore esplode.”
Per la maggior parte dei manifestanti, in particolare per le generazioni nate negli anni 1970 o nella prima metà degli anni 1980 – senza parlare di tutti coloro che manifestavano per la prima volta – un tale scatenamento era, semplicemente, inconcepibile; così, come la maggior parte delle vittime furono, paradossalmente, i manifestanti meno politicizzati, meno consumati, in termini di dimostrazioni di strada, quelli che non avevano visto arrivare le manovre di accerchiamento da parte delle forze dell’ordine e che, non avendo niente di reprensibile, non si attendevano di essere arrestati o picchiati per il solo fatto della loro presenza sui luoghi. Perché si tratta di insistere sull’appartenenza delle vittime a una collettività più vasta possibile: non di no-global, di giovani militanti o di simpatizzanti di una sinistra radicale, ma di cittadini di ogni estrazione sociale, laica e religiosa, e, semplicemente, uomini e donne. 
L’esperienza di Genova, dopo quella di Göteborg, apre in seno al movimento altermondialista, un dibattito, talvolta, difficile sulla violenza. Ma mostra, soprattutto, la capacità delle giovani generazioni a resistere alla repressione. Questa capacità sarà preziosa quando, qualche mese più tardi, a seguito degli attentati dell’11 settembre, il movimento altermondialista sarà oggetto di un tentativo di remise au pas in nome della lotta anti-terrorista.
Genova segnava l’inizio di un periodo di forti proteste sociali contro il governo Berlusconi.
Era una vera “generazione Genova” che nasceva, in Italia, in quella occasione.
In parte come risultato di questo lungo processo, nell’aprile del 2006, le forze del centro-sinistra arrivavano al potere, dopo una vittoria elettorale strappata con i denti alla destra condotta da Silvio Berlusconi. Ma i due anni di governo Prodi lasciavano dietro di sé un triste bilancio in politica economica, sociale ed estera, provocando la disillusione, la demoralizzazione e la smobilitazione sociale… che lastricavano il cammino per il ritorno al potere trionfale del Cavaliere, nell’aprile del 2008.
Poco dopo gli eventi di Genova, gli attentati dell’11 settembre, a New York, significavano, a loro volta, l’inizio di un nuovo periodo internazionale, segnato dalla “guerra globale contro il terrorismo”. La protesta contro la guerra doveva prendere forza in seno alla critica della globalizzazione, aprendo la via allo sviluppo di un movimento anti-guerra massivo, il cui punto culminante era la giornata internazionale di mobilitazione del 15 febbraio 2003, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. A partire di là, il movimento altermondialista entrava in una nuova fase, segnata dalla perdita di centralità delle sue mobilitazioni, della sua capacità di articolazioni e da una più grande dispersione delle lotte sociali, in un contesto molto difensivo nell’insieme dell’Unione Europea. Ciò è durato fino allo scoppio della “grande crisi” del 2008, che determinava la situazione internazionale dopo quattro anni e di fronte alla quale si assiste, oggi, a una risalita delle lotte sociali. 
Undici anni dopo il Summit di Genova, il ciclo aperto dal movimento altermondialista si è chiuso, ma un altro si apre davanti a noi.
Non è, dunque, un anniversario nostalgico di un movimento che fu, ma che non è più.
È un anniversario la cui memoria indignata di quelle giornate mitiche ci permette di richiamare alla memoria il passato per guardare l’avvenire. Dove il ricordo dell’assalto alla “zona rossa” si mescola con quelli molto recenti delle occupazioni delle piazze, delle assemblee di quartiere e del blocco del parlamento catalano. E dove la memoria di Carlo Giuliani non fa che accrescere la rabbia e l’indignazione di coloro che, con ancora più ragioni di undici anni fa, continuano ad affermare che un “altro mondo è possibile” e che “noi non siamo merce nelle mani dei politici e dei banchieri”.
L’undicesimo anniversario delle giornate di Genova arriva nel momento in cui l’Unione Europea attraversa forti turbolenze e i venti che hanno elettrizzato il mondo arabo, dalla fine del 2010, soffiano, con sempre più intensità, sul Vecchio Continente. Le mobilitazioni sostenute in Grecia e l’irruzione del movimento degli indignados nello Stato spagnolo, senza dimenticare la vittoria del referendum sull’acqua in Italia, sono tra i sintomi più significativi della ascesa di un nuovo periodo di lotte contro lo stesso modello di sviluppo, sempre guidato dal potere economico: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea, un modello che mette al centro il mercato al servizio del profitto delle banche e degli speculatori e il cui l’obiettivo è di internazionalizzare e di “europeizzare” le resistenze emergenti.
A Genova, undici anni fa, si è detto, per la prima volta, che l’acqua non può essere trasformata in merce e che, con un tale modello di sviluppo, possono nascere conflitti per l’accaparramento dell’energia, e, nel corso di questi undici anni, guerre hanno avuto luogo in Afghanistan, in Iraq e in Libia per il possesso del petrolio e dei gasdotti.
Oggi, noi possiamo dire che le idee del movimento erano premonitrici. In effetti, tutto ciò che era stato annunciato, allora, come conseguenza del neo-liberismo si è rivelato vero, in larga parte, vero. In Italia, in Europa e nel mondo intero, si è assistito a un arretramento dei diritti acquisiti. La fragile democrazia è sempre più soggetta alla volontà del potere economico a detrimento della volontà del popolo. Così, a esempio, la linea ad alta velocità (TAV), nella Val di Susa: una spesa di 20 miliardi di euro, che aumenterà il debito pubblico, anche per le generazioni future, per far arrivare 27 minuti prima la merce da Torino a Lione, devastando una bellissima valle e dando luogo a un rischio di uranio e di amianto per gli abitanti. 
[http://video.corriere.it/uranio-amianto-valsusa-tav-fronte-scontro-salute/ed05f7dc-686f-11e1-864f-609f02e90fa8]


Ognuno di noi, in un modo o nell’altro, ha una esperienza, diretta o indiretta, della violenza.
Ognuno di noi, quindi, pretende di conoscere su di essa la sua parte di verità.
Ma la somma di queste verità individuali, soggettive, non dà come risultato la verità sociale, storica.
Nel linguaggio quotidiano, come sulla bocca dei responsabili della giustizia e dell’ordine, la nozione di violenza rimane vaga, imprecisa, elastica, estensibile a piacere.
L’atteggiamento istituzionale di fronte ai casi di malapolizia è di totale chiusura, quando non di attacco frontale nei confronti delle voci critiche. Non pare accettata l’idea, tra le forze dell’ordine, di essere messi in discussione, di “riscoprirsi diversi” da ciò che si pensa di essere.    
Scrivendo in questo momento della nostra storia, azzardo una previsione che è la proiezione dei miei valori.
Si arriverà a una fine.
La storia in sé non è una predizione, ma la selezione di azioni, parole e personaggi significativi che debbono essere ricordati, un dramma più che un processo.
“Ricordate! Ricordate! Ricordate!”,
è la formula magica di Edmund Burke dopo che il suo processo contro Warren Hastings si è concluso in una sconfitta.
Se ciò che è contenuto in queste pagine sopravviverà nella memoria, sarà valsa la pena scrivere questo articolo.
È, certamente, un invito alla riflessione per tutti gli ipocriti, per tutti i sepolcri intonacati che sulla giustizia e sull’ordine tuonano.
Spesso, non è possibile dimostrare i danni provocati da coloro che gettano discredito sulle istituzioni. Le loro azioni compromettono, sempre, quella fiducia che accompagna le cariche pubbliche e distingue tra carica ed esercizio arbitrario del potere.
Per gli ebrei, i musulmani e i cristiani, come per coloro che condividono la loro eredità morale, il concetto di corruzione non è moralmente neutro. 


Daniela Zini
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