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Informazioni personali

domenica 31 luglio 2011

LA GLORIA DI RE DARIO TRAMONTA A MARATONA

Così dice Re Dario, il Re dei Re:
Colui che è giusto mi è gradito alla vista. Non amo i bugiardi. Non sono vendicativo. Sono contro tutto ciò che mi è causa di cruccio.
Colui che serve la patria sarà da me ricompensato e colui che pecca sarà castigato.
Non amo coloro che fanno male al loro prossimo, né amo che i malfattori restino impuniti.
Sono contento quando sento qualcuno lodare il prossimo e ne gioisco, essendo per me fonte di gioia.
Tutto quello che ho fatto, lo vedrai e lo sentirai: quanto ho fatto in patria o sui campi di battaglia.
Conoscerai allora la misura della mia potenza e della mia saggezza.
dal testamento di Dario
    

di
Daniela Zini




“Io sono Dario, il grande Re, il Re dei Re, il Re dei Paesi dove abitano diverse razze, il Re di queste immense terre fino alle frontiere lontane, figlio di Istaspe Achemenide, persiano, figlio di persiani, ariano di razza ariana.
Quando il Dio Ahura Mazda vide che sulla terra le cose non andavano bene, mi dette potere, creandomi Re. Io, con il suo aiuto, ovunque ho ristabilito l’ordine. Ogni mio desiderio è stato esaudito ed eseguito. Se vuoi vedere e conoscere la diversità dei popoli che Dario ha governato, guarda queste immagini e queste figure sulle cui teste poggia il mio trono. Con questo mi conoscerai bene e comprenderai che le lance dei persiani sono andate lontanissimo e i soldati persiani si sono battuti in questi Paesi molto lontani dalla loro terra.”

Queste sono le frasi scolpite da millenni nella viva roccia delle aride montagne di Naqsh-e Rostam, che ricordano ai posteri di tutte le razze e di tutte le civiltà la gloria immortale di Dario I di Persia, il Re dei Re. Nacque, nel 550 a.C., nella nobile famiglia degli Achemenidi e non sarebbe, forse, mai salito sul trono, se una congiura di palazzo non avesse posto in pericolo non solo la dinastia regnante, ma l’avvenire stesso del giovane Impero fondato pochi decenni prima dal grande Ciro. Durante i ventuno anni del suo governo, Ciro aveva saputo creare uno Stato esteso quanto nessun altro in quel tempo; aveva sottomesso i medi, i lidi, i babilonesi e aveva portato i confini dello Stato fino al limite meridionale della Siberia. Ma, opera ancora più mirabile, in pochissimi anni aveva dato ai suoi vastissimi possedimenti una organizzazione politica, militare, amministrativa solidissima, fondando il suo governo sulla generosità verso i popoli vinti, sulla magnanimità, il rispetto delle idee e delle tradizioni altrui: rara eccezione in un’epoca in cui i conquistatori fondavano i loro Imperi sul terrore, sulle rovine, sul sangue dei popoli conquistati e sottomessi.
Il figlio del saggio Ciro, Cambise, pur avendo ereditato alcuni aspetti positivi del carattere paterno, fu, spesso, vittima di veri attacchi di follia omicida e si macchiò di orrendi delitti che gli inimicarono l’opinione pubblica; e quando, durante una sua assenza dalla capitale, un avventuriero detto Gaumata il Mago, spacciandosi per il figlio morto di Ciro, Smerdi, tentò di impadronirsi del potere, la situazione si rivelò subito pericolosissima: era in pericolo non solo la dinastia regnante, ma la solidità stessa del giovane Impero. Fu in questo momento terribile che Cambise venne a morte, sembra in Siria, in circostanze misteriose; la Persia intera, divisa in fazioni, attendeva con ansia lo svilupparsi degli eventi, quando un giovane della dinastia regnante degli Achemenidi, Dario, con polso fermo, prese in mano le redini della situazione. Con il valido aiuto dei grandi feudatari raccolse attorno a sé, i fedeli del Re defunto e, scacciato dalla Persia l’usurpatore, salì al trono iniziando un regno che doveva passare alla storia come splendido esempio di oculatezza amministrativa, di audacia guerriera e di abilità politica.
Iniziò con il domare le ribellioni interne, scoppiate numerosissime in ogni parte del vasto Impero: e, per questo, riunì attorno a sé un perfetto esercito di fedelissimi, pronto a seguirlo in ogni dove.
I governatori dell’Egitto e della Lidia, le province della Babilonia, dell’Armenia, dell’Assiria e altre ancora avevano rifiutato di sottomettersi al nuovo sovrano; Dario le affrontò, a una a una, e con la forza delle armi le domò. Babilonia gli resistette a lungo, ma quando l’assedio fu rotto, il re ordinò che 3mila dei suoi più eminenti cittadini fossero crocifissi nella pubblica via, spaventoso esempio a quanti avessero in futuro accarezzato idee di ribellione e di rivolta.
La pace, infine, tornò a regnare sovrana sull’Impero persiano; e, allora, Dario, deposte le armi, pensò a riorganizzare politicamente e amministrativamente la sua terra, ben sapendo che il disordine interno non gli avrebbe mai permesso nuove conquiste esterne. 
L’Impero era, fino ad allora, governato con un sistema feudale, mentre le singole regioni sottomesse avevano mantenuto una certa indipendenza in seno allo stesso Impero. Dario abolì il feudalesimo, accentrò il governo nelle mani sue e di un esiguo gruppo di nobili suoi fedeli; per meglio governare le singole regioni, suddivise tutto il territorio in Satrapie, governata ciascuna da un principe vassallo, ma sempre nel nome e per ordine del Re dei Re. Per evitare che i Satrapi potessero sfuggire al suo controllo, Dario inviò, in ogni regione, un generale al comando di un gruppo di soldati scelti; e il generale dipendeva, unicamente, dal sovrano ed era indipendente dal governatore. Ma temendo che tutto ciò non bastasse, decise di nominare propri segretari personali i quali, dipendendo unicamente dal Re dei Re, vivevano nelle varie regioni con il compito di controllare l’operato sia dei principi, sia dei generali e di riferirne, personalmente, al sovrano. Infine, tutto l’Impero era perlustrato, costantemente, da osservatori incaricati di indagare in materia fiscale, finanziaria, politica, morale, su ogni privato cittadino e sui rappresentanti della legge: a tali personaggi il popolo diede il significativo nome di “Occhi e Orecchi del Re”, occhi e orecchi sempre bene aperti, cui mai nulla sfuggiva di quanto avveniva attorno.
I principi-governatori ricevevano altissimi compensi che consentivano loro un regime di vita elevatissimo; ed egualmente ben pagati erano i funzionari governativi. Era lo stesso popolo persiano che provvedeva ai loro bisogni, così come provvedeva al necessario e al superfluo del Re dei Re. Le varie Satrapie versavano ogni anno, nelle casse reali, somme proporzionate alle proprie risorse, ma che ammontavano a complessivi 14.500 talenti: una somma paragonabile, oggi, a 94.250.000,00 euro. Inoltre i vari principi dovevano contribuire alle necessità reali con merci e materie prime di vario genere: l’Armenia forniva 30mila puledri l’anno, la Media 100mila pecore, l’Egitto il grano necessario per sfamare 120mila uomini.
In cambio di questi oneri piuttosto rilevanti, i cittadini delle singole regioni potevano conservare intatte le proprie leggi private, i propri costumi, la propria religione, la propria moneta, spesso, anche la propria dinastia di Re; l’ordine interno, la pace, la libertà davano ai sudditi del Re dei Re la sensazione di un presente felice e di un futuro pieno di promesse per i propri figli.
Ma il dio della guerra costrinse, ben presto, il grande Dario a riprendere le armi. L’Iran non poteva, ormai, più estendersi a nord, dove le altissime montagne del Caucaso, formavano una barriera invalicabile dai soldati di allora, né a sud, dove l’Impero persiano aveva raggiunto i grandi deserti africani da un lato e l’Oceano Indiano dall’altro. Dario si volse, allora, a occidente dove le città greche, in Asia Minore, costituivano un continuo pericolo anche per il potente sovrano orientale.
L’esercito persiano non possedeva una flotta abbastanza forte per attaccare la Grecia dal mare, ragione per cui il Re dispose l’attacco via terra e puntò con un fortissimo esercito verso l’Ellesponto, ma ebbe la marcia ostacolata da uno dei secolari nemici dell’Iran: il popolo degli sciti, selvaggi e abilissimi guerrieri che, con improvvise scorrerie, rendevano difficile la vita ai conquistatori.     
Le truppe persiane, divise in vari gruppi, oltrepassarono il Bosforo e puntarono decise verso il Danubio, penetrando fin dentro i confini attuali della Russia. Gli sciti, affrontati ripetutamente in duri scontri, non trovarono di meglio che fuggire e cercarono scampo nelle sterminate pianure russe, oltre il fiume Don. La via, ormai, era sgombra e l’esercito persiano fece ritorno ai confini dell’Iran, ma il Re, nel frattempo, aveva mutato i suoi piani e, anziché volgersi a occidente, puntò deciso verso est e andò alla conquista dell’India e delle sue favolose ricchezze.
Decine e decine di migliaia di uomini marciavano, agli ordini del Re dei Re, attraverso sterminati territori, portando con loro diverse abitudini, diverse culture, diversi sistemi di guerra, diversi armamenti. L’esercito persiano poggiava su un perno costituito da 2mila fanti e 2mila cavalieri, tutti nobili, tutti devotissimi al sovrano, cui si affiancavano le schiere dei cosiddetti “Immortali”: 10mila soldati di provate capacità e di assoluta fedeltà, che facevano della guerra lo scopo della loro vita. Sempre primi in battaglia, sempre pronti allo sbaraglio, sapevano che quando uno di loro cadeva, immediatamente, veniva sostituito da un giovane delle nuove leve, perché il numero di 10mila non doveva mai essere mutato. Accanto a questo fior fiore di combattenti, si schieravano centinaia di migliaia di soldati provenienti dalle varie regioni dello sterminato Impero: chi armato di daghe, chi di frecce, chi di giavellotto, chi a piedi, chi a cavallo, chi completamente difeso da armature di metallo o in cuoio, chi con il corpo seminudo. E accanto agli uomini carri velocissimi e leggeri da combattimento, pesanti vetture per il trasporto di viveri, schiere di elefanti che con la loro poderosa mole incutevano terrore a quanti non li avevano mai visti; e migliaia di servi, di sguatteri che provvedevano alle necessità giornaliere dei soldati, che, talvolta, si facevano seguire, perfino, dalle proprie famiglie, vecchi e bambini compresi.
Una simile massa in spostamento causava problemi gravissimi sia per il sostentamento, sia per l’organizzazione militare e amministrativa. Problemi tutti che Dario seppe, sempre, brillantemente, risolvere, ma, che dopo di lui, dovevano essere una delle cause determinanti del troppo rapido disgregarsi dell’Impero persiano.
L’India venne conquistata e, in parte, sottomessa, in parte sottoposta alla sola influenza commerciale dell’Iran; Dario dovette fare ritorno in occidente, richiamato dalle voci di una rivolta in Egitto. Accorse nella terra dei Faraoni, punì il disonesto governatore che aveva creato tanto malcontento tra quelle popolazioni, si dedicò per mesi, personalmente, al riordino amministrativo e morale di quella vasta terra di antichissima civiltà. Fece costruire strade, riattivò le immense miniere d’oro, intensificò i commerci. Fece erigere templi nuovi alle divinità locali, insegnò nuovi metodi di irrigazione; il grandioso tempio di Ammone, nella valle di Tebe, si erge, ancora oggi, a ricordare agli uomini la grandezza e la munificenza del Re dei Re.
Narra Erodoto, nelle sue meravigliose Storie, che Dario il Grande organizzò la celebre spedizione persiana contro la Grecia, spinto dal capriccio della sua bella moglie, Atossa: la preferita del momento. Ma ragioni ben più gravi e più serie dovettero spingere l’illuminato sovrano in una impresa tanto pericolosa e difficile. Le Città- Stato della Grecia dovettero apparire al Re un pericolo latente, ma non per questo meno grave, al dominio persiano nell’Asia occidentale.
Quando i cittadini greci della Ionia, soggetti al trono di Persia, si ribellarono cercando la libertà, Atene e Sparta, messa da parte la tradizionale rivalità, corsero in aiuto dei fratelli in pericolo; e Dario, sia pure con riluttanza, si preparò alla nuova guerra.
Correva, già, l’anno 490 quando una flotta persiana, comandata da Dati e Artaferne, il figlio del grande Satrapo omonimo, penetrò nell’Egeo per punire le due grandi città greche che avevano osato, apertamente, aiutare i nemici dell’Impero persiano. A bordo erano circa 20mila uomini perfettamente armati e addestrati.
La prima città a cadere sotto il dominio dell’esercito di Dario fu Nasso, che venne, aspramente, punita per la resistenza opposta ai soldati persiani nelle campagne militari dell’anno 500; quindi, fu la volta dell’Eretria, che fu ridotta in cenere, mentre i cittadini sopravvissuti all’immane rovina vennero trasportati a Susa. Ormai, Atene era esposta, direttamente, all’attacco persiano, priva quasi totalmente di alleati, se si esclude la piccola città di Platea. Tebe, per lotte interne, non aveva voluto scendere in campo con le città in pericolo e i soldati spartani, accampati a pochi chilometri dalla pianura di Maratona, luogo del probabile scontro, non potevano impugnare le armi prima del prossimo plenilunio, a causa di certe prescrizioni religiose, che non intendevano, a nessun costo, ignorare.
L’esercito persiano, compatto e possente, prese posizione favorevole e, in poche ore, fu pronto alla battaglia.
Contro i 20mila uomini del Re dei Re scesero in campo circa 10mila greci, spinti da un coraggio leonino e dalla forza della disperazione: sapevano che il destino non solo di Atene, ma della Grecia tutta era nelle loro mani. Li guidava Milziade, il quale si rese conto che l’unico modo per tentare di aver ragione di un esercito numericamente più forte, era sorprenderlo con un attacco immediato e deciso.
E così fu fatto.
Mentre gli spartani esitavano ancora, trattenuti dai loro scrupoli religiosi, 10mila opliti di Atene e di Platea si lanciarono a passo di corsa e con grandi grida verso il nemico. La forza d’urto fu tremenda, ma la linea mediana greca si schiantò contro il possente centro persiano; la battaglia parve per un attimo in mano dei soldati del Re dei Re, quando le ali greche, con uno sforzo immane, riuscirono ad avere ragione dei loro diretti avversari e con azione rapidissima e poderosa effettuarono una conversione verso l’interno, stringendo il nemico in una morsa di ferro e di fuoco.
Colti alla sprovvista dall’impreveduta situazione, i guerrieri orientali ripiegarono rapidamente verso l’accampamento: di là con una corsa velocissima raggiunsero il mare.
Ma 6.400 uomini, la sera, non poterono rispondere alle chiamate dei loro compagni superstiti: giacevano, per sempre, immoti, sull’insanguinato campo di Maratona, accanto ai corpi di 192 greci: ancora un difensore della libertà greca, Filippide, doveva trovare la morte, poche ore dopo, stremato dalla fatica della corsa che lo aveva condotto in patria ad annunciare ai suoi concittadini la strepitosa notizia della vittoria.
Il grande Dario accolse la notizia senza dimostrare alcuna emozione; e, da quel momento, si mise, ancora una volta, di impegno, a preparare un’altra spedizione contro l’unico popolo che avesse osato sfidarlo e resistere alla sua potenza. Lavorò, seriamente, per tre anni, senza mai darsi riposo; quando l’esercito fu pronto, gli spiriti temprati, pronti alla lotta, la notizia di una nuova, violenta sommossa in Egitto indusse Dario ad accantonare, almeno per il momento, il grande sogno e a prepararsi a domare i suoi sudditi ribelli.
Ma la morte lo colse improvvisa, nel 486 a.C., non permettendogli di portare a compimento l’impresa, più a lungo, sognata nella sua laboriosa vita.




Daniela Zini
Copyright © 31 luglio 2011 ADZ
Daniela Zini
Copyright © ADZ
Rome, le 5 février 2007

giovedì 28 luglio 2011

LETTERE DALL'IRAN: INTERVISTA ALLA MADRE DI MAJID TAVAKOLI

LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione della:

IINTERVISTA ALLA MADRE DI MAJID TAVAKOLI


Signora Tavakoli quando ha avuto notizie di suo figlio l’ultima volta?
Io non ho notizie di mio figlio dallo scorso gennaio (gennaio 2010). Non gli è concesso di telefonare. Suo padre e io siamo malati. Il viaggio alla prigione di Rajai Shahr è lungo e non possiamo andare a trovarlo. Non abbiamo notizie sulle sue condizioni fisiche e psichiche da settembre, quando suo fratello gli ha fatto visita.

Le autorità sanno che lei e suo marito siete malati?
Sì, sanno che siamo malati e non possiamo affrontare un viaggio di diciassette ore.

Le autorità vi hanno spiegato le ragioni del divieto delle telefonate e del rifiuto di un permesso?
A metà gennaio, ci hanno fatto sapere che Majid non aveva più accesso al telefono. Ne sono rimasta profondamente addolorata. Ho contattato la prigione, più volte, ma mi hanno detto che i telefoni erano staccati e che nessuno rispondeva. Ho supplicato loro, più volte, e ho, anche, spiegato loro che le nostre condizioni fisiche non ci permettevano di viaggiare. Ho chiesto loro di poter almeno sentire la voce di mio figlio, anche per pochi minuti. Ma hanno rifiutato di rispondere a una madre sofferente dal cuore affranto. Che dire? Sono una madre e vorrei vedere mio figlio.

Ha qualche speranza di avere accanto suo figlio per il Nouruz (Capodanno persiano)?
Speriamo più di un permesso per nostro figlio. Aspettiamo la sua completa liberazione. E, nel caso in cui sia liberato, che gli diano, almeno, un permesso per passare il Nouruz in famiglia.

Come madre privata di vedere suo figlio e di sentirne la voce da mesi, che vorrebbe dire alle autorità giudiziarie?
Per dei genitori malati, privati della vista del proprio figlio da sedici mesi, chiedere che gli venga accordato un permesso non è troppo. Noi non siamo soli ad averne fatto richiesta. Tutte le famiglie dei prigionieri politici vorrebbero vedere i propri cari in famiglia per il Nouruz. Spero che li liberino tutti per mettere fine a questa situazione difficile. Spero che liberino i nostri cuori da questa angoscia. Se uno dei responsabili ascoltasse la mia voce, poiché il padre di Majid e io siamo malati, gli chiederei di permettergli, almeno, di venire a casa. È un diritto dei prigionieri politici e delle loro famiglie. Io vorrei riuscire a spiegare la sofferenza del mio cuore per far comprendere cosa stiamo passando. Piango giorno e notte. Majid mi manca terribilmente. Nouruz si avvicina. Tutti sono felici e contenti. Mentre la nostra casa è piena di tristezza, di nostalgia e di apprensione. Neppure l’anno scorso, Majid era con noi. Non ci siamo curati di preparare gli Haft Sin (Sette Sin) né di festeggiare il nuovo anno. Mi sono contentata di fissare la foto di Majid e di piangere. Sono restata accanto al telefono nella speranza di sentire la voce di Majid, ma il telefono è rimasto muto e non ho avuto la possibilità di sentire la voce di mio figlio. Non potete immaginare quanto sia difficile attendere, soprattutto per una madre, lo sguardo fisso alla porta e l’orecchio teso al telefono. I giorni e le notti scorrono e noi continuiamo ad attendere. Chiedo a chiunque ascolti le mie parole un atto di clemenza e di permettere a Majid di vedere suo padre e sua madre malati. E chiedo a Dio di concedere felicità alle famiglie dei prigionieri politici e ai loro cari che sono detenuti.

La ringraziamo di averci concesso questa intervista e auspichiamo il giorno in cui tutti i nostri cari detenuti siano liberati.


Traduzione di Daniela Zini
Copyright © 28 luglio 2011 ADZ

LETTERE DALL'IRAN: MESSAGGIO DI SAID POURHEYDAR

LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione del:

MESSAGGIO DI SAID POURHEYDAR
LA TORTURA DIETRO LE MURA DI EVIN

Venerdì 13 maggio 2011, in una lettera indirizzata alla guida suprema Seyed Ali Khamenei, Mehdi Mahmudian descrive la situazione insostenibile delle prigioni di Evin e di Rajai Shahr e quello che debbono sopportare i prigionieri politici. Per me non è solo una realtà di cui sono stato testimone e di cui ho voluto raccontare per i prigionieri del mio blocco, ma è anche qualcosa che ho sperimentato nella carne.

Dopo le elezioni presidenziali truccate, sono stato arrestato due volte. La prima volta, sono stato tenuto in isolamento, poi, in una cella di 5 persone nel blocco 240 di Evin. La seconda volta, sono stato detenuto insieme ad altri 19 prigionieri nel blocco 350 di Evin. I rapporti colloquiali di lunghe ore dietro le sbarre mi hanno dato la possibilità di parlare con altri prigionieri delle torture psicologiche e fisiche subite durante gli interrogatori. Il resoconto dettagliato di questi aperti colloqui sugli arresti, gli interrogatori, le torture e i giudizi è stato consegnato nei quattro taccuini di cento pagine che ho intenzione di pubblicare appena possibile.  

Quanto segue non è che un breve estratto di questi colloqui dell’autunno e dell’inverno scorso con 19, su un totale di 160 prigionieri politici, arrestati dopo le elezioni, trasformate in un colpo di Stato, e detenuti nel blocco 350. Questo estratto si riferisce, soprattutto, alle torture fisiche e psicologiche subite.

Di questi 19 prigionieri politici con i quali ho parlato, 3 erano miei compagni di cella, i miei migliori amici, e sono stati giustiziati, altri 2 hanno scontato la loro pena e sono stati liberati. 14 sono ancora dietro le sbarre, nel blocco 350, dei quali 3 sono stati condannati a morte e attendono la loro esecuzione.

Quanto riferisco si limita alla mia esperienza personale e a quella di altri prigionieri politici di Evin, più in particolare del blocco 2A e dei blocchi 209 e 240.

Ritornare su quanto è accaduto è, al tempo stesso, doloroso e amaro, ma io credo, fermamente, che potremo liberarci da questo sguardo all’indietro soltanto quando avremo vinto; sarà, allora, tempo di guardare in faccia quello che accadrà. Ho scelto di liberare il mio spirito da questi amari ricordi e di parlarne, nella speranza che il mondo possa rendersi conto delle torture che la nobile gioventù iraniana, amante della libertà, accusata di pensiero e di filosofia “verde”, ha dovuto subire tra le morse della tirannia.

La tortura fisica
Ho diviso una cella di tre persone del blocco 350 di Evin con un prigioniero, le cui torture fisiche e psicologiche avrebbero distrutto ogni persona di spirito libero. Aveva 25 anni ed era stato arrestato con accuse ingiustificate e infondate da agenti dei guardiani della rivoluzione all’aeroporto Imam Khomeini. Era stato trasferito al blocco 2 A di Evin e aveva sopportato torture fisiche e psicologiche inimmaginabili durante i 6 mesi del suo isolamento.

Quelli che lo avevano interrogato gli avevano urinato in faccia. Era stato selvaggiamente picchiato ed era stato frustato sotto la pianta dei piedi. Aveva subito, a più riprese, l’elettroshock durante gli interrogatori; era stato talmente picchiato nei testicoli da perdere coscienza. Quelli che lo avevano interrogato avevano utilizzato pinze in diverse parti del suo corpo; tre di loro erano arrivati a trattarlo come un pallone, dandogli calci così violenti che i miei medici legali avevano, perfino, definito una forma di tortura, confermando le ferite al cranio e una frattura al naso.

Una delle peggiori forme di tortura sopportata da questo carissimo amico era stata lo stupro da parte degli agenti dei guardiani della rivoluzione che lo avevano interrogato; avevano versato dell’adesivo plastico nell’ano, poi, lo avevano strappato una volta consolidato.

Nonostante sia, ancora, dietro le sbarre, nonostante le torture brutali e inumane, rifiuta, sempre, di fare false confessioni.

Durante un colloquio di tre ore su una panchina del blocco 350, un altro dei nostri innocenti compagni verdi detenuti mi ha raccontato le torture subite, quando era nel blocco 2A. Gli avevano gettato un secchio di acqua gelida ed era stato tenuto in isolamento per dieci giorni in una cella di 1,25 m. di altezza. Per ore, lo avevano costretto a restare in piedi, nudo, fuori, in pieno inverno. A più riprese, gli avevano spinto la testa nella latrina dei bagni mentre tiravano lo sciacquone. Lo avevano selvaggiamente picchiato, lo avevano, completamente, denudato e lo avevano malmenato durante gli interrogatori. Sono solo alcuni esempi di tortura che ha dovuto sopportare nei due mesi di isolamento nel blocco 2A. È stato trasferito, qualche mese fa, nel blocco 350 di Evin, dove attende il processo.

Un’altra forma di tortura: obbligare i prigionieri a sedersi sul pavimento, nudi, mentre vengono colpiti alla schiena con randelli e cavi. Molti prigionieri sono obbligati a restare in piedi per ore. Due prigionieri hanno perso conoscenza dopo un tale trattamento. Si obbligano i prigionieri a prendere sostanze psicotrope. Hanno obbligato anche me. Li appendono per le spalle o per le gambe. Durante gli interrogatori, si blocca loro la testa al braccio di una poltrona e si prendono a calci le parti sensibili del corpo come i testicoli. Si obbligano i prigionieri a coricarsi sul ventre mentre due o tre persone camminano sulla loro schiena. Vi sono molte rotture di timpano a causa dei violenti colpi portati alla testa, al volto e agli orecchi. Si bendano, sovente, gli occhi dei prigionieri per impedire loro di reagire quando sono colpiti al volto. Non sono che alcuni esempi dell’infinità di metodi di tortura descritti da molti prigionieri politici, durante la loro detenzione nei blocchi 209, 240 e 2 A di Evin.  Molti di questi prigionieri sono, attualmente, nel blocco 350 di Evin, o scontano la loro pena o attendono il loro verdetto, non sapendo cosa aspettarsi.          

La tortura psicologica
Il dolore causato dalla tortura fisica può attenuarsi con il tempo, ma gli effetti della tortura psicologica persisteranno anni. Prima del mio arresto, il 5 febbraio 2010, a causa dei miei problemi cardiaci, prendevo, quotidianamente, una compressa di Pronol, un beta-bloccante da 10 mg. Oggi, il solo beneficio, ottenuto dai miei giorni passati in isolamento e dalle brutali torture psicologiche e fisiche subite, consiste nel prendere due o tre compresse di Pronol da 40 mg. al giorno, oltre a una infinità di sedativi che sono stato costretto ad assumere nei mesi che hanno seguito la mia liberazione dal carcere. L’impatto negativo sul mio psichismo ha, senza alcun dubbio, creato numerosi problemi nella mia vita quotidiana.

Quasi tutti i prigionieri politici hanno fatto l’esperienza di una forma di tortura psicologica o di un’altra. Anche supponendo, cosa impossibile, che un prigioniero non sia stato sottoposto a pressioni psicologiche, il tempo passato in isolamento è di per sé una delle peggiori forme di tortura psicologica.

Inutile dire che chiunque non abbia fatto l’esperienza dell’isolamento in prigione, fosse pure per una sola ora, non potrà mai capire appieno cosa significhi.

Le simulazioni di esecuzione, una forma orribile di tortura psicologica sono molto diffuse nel blocco 2A. Tre prigionieri con i quali ho parlato nel blocco 350 mi hanno detto di averle subite e uno dei detenuti del blocco 350 mi ha descritto come avesse subito due simulazioni di esecuzione.

Fanno visita al prigioniero prima dell’alba, mentre si trova in isolamento e gli dicono che, purtroppo, sarà giustiziato. Gli bendano, allora, gli occhi, lo legano e lo conducono nel cortile del blocco 2A. Mettono, poi, il prigioniero su uno sgabello, gli mettono un nodo scorsoio intorno al collo e gli chiedono quali siano le sue ultime volontà prima di essere impiccato.

Un amico mi ha detto di essere rimasto in piedi, gli occhi bendati, il nodo scorsoio intorno al collo, alla prima simulazione per 30 minuti, mentre chi lo aveva interrogato gli spiegava che attendevano l’arrivo del responsabile della prigione, di un osservatore giudiziario e del medico legale prima dell’esecuzione del verdetto. Dopo una mezz’ora, lo avevano informato che, poiché il direttore della prigione era impossibilitato a venire e l’esecuzione doveva aver luogo prima dell’alba, l’impiccagione era rinviata di qualche giorno.

Di certo, nessuno può comprendere appieno lo stato psicologico di un prigioniero politico costretto ad aspettare in piedi su uno sgabello, gli occhi bendati; nessuno può immaginare la sofferenza causata da un’attesa di quattro giorni prima di essere sottoposto alla stessa messa in scena.

Quattro giorni più tardi, lo avevano, di nuovo, svegliato e lo avevano, di nuovo, condotto nel cortile del blocco 2A. Di nuovo, il nodo scorsoio intorno al collo, veniva messo sullo sgabello della morte. Gli veniva letto il verdetto della sua esecuzione. Gli venivano chieste le sue ultime volontà. Gli togievano lo sgabello da sotto i piedi, ma la corda era troppo lunga e cadeva a terra; allora, le due persone che lo avevano interrogato e gli erano d’accanto scoppiavano a ridere e sentenziavano: “Questa volta, sei stato fortunato; la corda si è spezzata. Puoi tornare nella tua cella ora fino a quando decideremo di impiccarti.”

Sono sicuro che vi ricorderete dei ridicoli processi messi in scena, nel 2010, dopo le elezioni presidenziali, e delle false confessioni di alcuni personaggi noti e meno noti, che seguirono. Erano stati costretti a testimoniare contro se stessi e il Movimento Verde. Il modo in cui sono stati condotti questi processi è una lunga storia di cui ho intenzione di descrivere i dettagli: come preparano i prigionieri, per giorni, a ripetere quello che dovranno dire in tribunale oppure come li costringano a farsi crescere i baffi prima del processo. 

Sono sicuro che vorreste sapere perché certi personaggi abbiano accettato di testimoniare contro se stessi e il Movimento Verde. Uno di questi personaggi di primo piano ha resistito alle pressioni di coloro che lo interrogavano per due mesi. Come ha, infine, ceduto?
Un giorno, si sono presentati dalla moglie e dalla figlia di questo personaggio e le hanno portate in prigione con il pretesto di far incontrare loro, rispettivamente, il proprio marito e il proprio padre. Hanno chiesto loro di restare in una stanza nell’attesa dell’arrivo del prigioniero.

La stanza aveva uno specchio trasparente. Il prigioniero era stato condotto dall’altro lato dello specchio. Gli avevano detto: “Come vedi, abbiamo portato tua moglie e tua figlia qui. Spetta a te decidere se vuoi parlare in tribunale o no.” Il prigioniero aveva continuato a rifiutare di confessare. Chi lo interrogava aveva, allora, chiamato il suo collega al telefono: “Haji, crede ancora che si scherzi.” Aveva riattaccato il telefono. La porta della stanza nella quale si trovavano sua moglie e sua figlia era aperta. Due prigionieri pericolosi e nerboruti, condannati per assassinio, erano, allora, entrati nella stanza. Chi lo interrogava gli si era parato davanti: “Vedi, fratello mio, quei due uomini accanto a tua moglie e a tua figlia; sono stati condannati a morte per assassinio. È da un pò che sono in prigione e non hanno contatto con una donna da molto tempo. Ti lascio un minuto per riflettere sulla tua risposta, vuoi o no andare in tribunale e sederti di fronte alle telecamere? Se la tua risposta è no, io dirò loro di iniziare là, proprio davanti a te.” Ed ecco come questo personaggio di primo piano è stato obbligato a testimoniare contro se stesso e gli altri.

Questi sono solo tre esempi di tortura psicologica subita dai prigionieri politici del blocco 2A e dei blocchi 209 e 240. Ed è solo quello che è accaduto a 19 dei 160 prigionieri politici detenuti nel blocco di Evin con i quali ho avuto il privilegio di conversare per ore.

Inutile dire che per comprendere la profondità della tragedia ed esporre, chiaramente, le gravi violazioni dei diritti umani,  dovremmo prendere in considerazione tutto quello che centinaia di altri amici hanno subito prima e dopo la mia detenzione nel blocco 350 di Evin, senza dimenticare i detenuti in isolamento nei blocchi 209, 240 e 2A di Evin, nella prigione di Rajai Shahr o in altre prigioni iraniane. 

In quanto giornalista, recentemente uscito di prigione, attesto, che, a dispetto di tutte queste torture e persecuzioni, a dispetto dell’isolamento della società e della disperazione, i prigionieri del Movimento Verde Democratico, nelle morse di una dittatura, continuano a resistere con dignità all’interno del blocco 350 della prigione di Evin. Aspetto la liberazione di tutti questi combattenti della libertà e sono sicuro che il giorno in cui saremo tutti liberi giungerà prima di quanto immaginiamo.


Said Pourheydar è giornalista e attivista di RAHANA

La prigione di Evin conta diversi blocchi e unità:
-         il blocco 2A, che è posto sotto la supervisione dei guardiani della rivoluzione;
-         i blocchi 209 e 240, che sono posti sotto la supervisione del ministero dell’informazione;
-         il blocco 350, che è il blocco comune dove sono detenuti i prigionieri politici.


Traduzione di Daniela Zini
Copyright © 27 luglio 2011 ADZ

martedì 26 luglio 2011

LETTERE DALL'IRAN: MESSAGGIO DELL'AYATOLLAH MOHAMMAD TAQI MESBAH YAZDI

LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione del:

MESSAGGIO DELL’AYATOLLAH MOHAMMAD TAQI MESBAH YAZDI
SODOMIA E STUPRO ISLAMICAMENTE CORRETTI



Secondo l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi, che è il maestro spirituale di Mahmud Ahmadinejad, stuprare, drogare, picchiare è perfettamente lecito e islamicamente corretto, se a farne le spese è un oppositore del regime islamico che è, parimenti, considerato un oppositore dell’islam.
Mohammad Taqi Mesbah Yazdi è nato, nel 1934, nella città desertica di Yazd ed è stato allievo dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, tra il 1952 e il 1960.
È  il teorico della violenza e gli si attribuisce la celebre frase:
“Se qualcuno insulta i santi musulmani, l’islam consente che il sangue sia versato, senza bisogno di tribunali.”
E non siatene stupiti perché è lo stesso uomo – si può utilizzare questa parola nel suo caso? Me lo chiedo ancora!- che ha, anche, detto che, per la grandezza e l’espansione dell’islam, la schiavitù è giustificata!
Nell’estate del 2009, secondo alcuni presenti a Jamkaran, uno dei luoghi supposti del ritorno del Mahdi, l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi, che anima, regolarmente, la preghiera del venerdì a Tehran, si sarebbe così espresso.

Domanda: Servirsi di mezzi di pressione pricologici, emozionali o psichici può essere considerato autorizzato (lecito islamicamente)?
ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi: Ottenere una confessione da qualcuno che si oppone al velayat-e faqih è islamicamente lecito in qualsiasi modo.

Domanda: Si può drogare o dare sostanze oppiacee o qualunque altra sostanza chimica per ottenere confessioni?
ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi: La mia risposta è la stessa!

Domanda: In un interrogatorio per ottenere una confessione si può stuprare un prigioniero?
ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi: Sarebbe opportuno, in via preliminare, che l’inquirente facesse le abluzioni rituali e pregasse, stuprando il prigioniero. Nel caso di una prigioniera si può compiere lo stupro sia nella vagina, sia nell’ano. È auspicabile che non siano presenti testimoni oculari, ma nel caso di un prigioniero possono assistere terzi.

Domanda: Lo stupro degli uomini e dei ragazzi è considerato un atto di sodomia?
ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi: Naturalmente no, perché non vi è consenso. Se il prigioniero prendesse piacere a farsi penetrare allora non si dovrebbe continuare.

Domanda: E nel caso in cui una donna fosse vergine?
ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi: In questo caso lo stupro è tollerato, in nome dell’islam. Se la pena è la morte allora quello che conduce l’interrogatorio ha una ricompensa (una indulgenza, in termini più spirituali?) equivalente al grande pellegrinaggio (quello alla Mecca), ma se non vi è pena di morte, allora l’autore è considerato come chi ha fatto il pellegrinaggio a Karbala (luogo santo dell’Iraq dove è celebrato il martirio dell’imam Hossein dagli sciiti).  

Domanda: E cosa accade se la prigioniera resta incinta? Il bambino è illegittimo?
ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi: Il bambino nato da una qualunque donna che si oppone al sistema del velayat-e faqih è considerato illegittimo, che sia nato a seguito di uno stupro o dal legittimo marito, secondo il nostro Corano. Ma se il bambino è allevato dal suo carceriere, in quel caso sarà un musulmano sciita legittimo.


traduzione di Daniela Zini
Copyright © 25 luglio 2011 ADZ

sabato 23 luglio 2011

LETTERE DALL'IRAN: LETTERA APERTA DI BAHAREH MAQAMI

LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione della:

LETTERA APERTA DI BAHAREH MAQAMI


Questa Lettera Aperta di Bahareh Maqami, attualmente rifugiata in Germania, è stata pubblicata, l’11 aprile 2010, su diversi siti iraniani, che si mobilitano contro il regime in Iran.

Il mio nome è Bahar (Primavera in persiano).
È primavera e io vi scrivo di fiori, ma di fiori dai petali dispersi. Vi scrivo di verdi virgulti, ma di virgulti schiacciati e calpestati dall’odio, un odio per tutto ciò che è bello e che è fatto a pezzi da anime sozze, un odio per coloro che vogliono giustizia da una banda di venduti.
Vi scrivo di coloro che non sono veri uomini.
Il mio nome è Bahareh Maqami e ho ventotto anni. Non resta più niente di me e non ho, dunque, ragione alcuna per celare il mio nome.
Ho perso tutto quello che contava ai miei occhi, in un solo giorno.
Ho perso i miei parenti, i miei amici, i miei vicini, i miei compagni, i miei collaboratori e i miei colleghi.
Ho perso tutto.
In modo iniquo, coloro che pretendono essere degli uomini mi hanno rubato tutto.
Hanno rubato la mia vita.
Ora che ho lasciato il mio Paese, vorrei condividere il mio dolore con qualcuno, anche solo per una volta.
Vorrei anche chiedere agli amici, che hanno subito la sofferenza di tale esperienza, di scriverne.
Debbono scrivere di quello che è loro accaduto.
Se temono per la loro vita o per il loro buon nome, usino degli pseudonomi, ma scrivano.
Debbono scrivere perché la Storia sappia quello che è accaduto alla nostra generazione, a questa generazione in lutto.
Debbono scrivere, soprattutto, per coloro che verranno dopo di noi e vivranno in un Iran libero, che sappiano il prezzo che è stato pagato per la loro libertà, che sappiano quante vite innocenti siano state sacrificate e quante riposte speranze siano andate perdute.
Debbono sapere delle schiene spezzate e delle ginocchia piegate!
Quando mio padre ha saputo, la sua schiena si è spezzata. Ne è rimasto stroncato.
Mia madre è invecchiata di cento anni, in una notte.
E, quanto a mio fratello, non riesco più a guardarlo negli occhi e lui non riesce più a guardare nei miei. Non vuole che io soffra più di quanto abbia già sofferto. Quando ha saputo, è stato come se gli avessero sottratto la propria virilità. Quando ha saputo che esistono individui che pretendono essere degli uomini, ma degli uomini non conservano che l’organo genitale, ha iniziato a odiare la sua virilità.
Per loro, la onorabilità, la dignità e la castità non hanno significato.
Ero una insegnante di scuola elementare.
Insegnavo ai piccoli fiori del mio Paese a leggere e a scrivere.
Insegnavo loro:
“Papà porta l’acqua.”
“Quell’uomo arriva.”
“Quell’uomo porta il pane.”
La mia immagine dell’uomo era quella di chi porta il pane. Aspettavo che arrivasse. E ora, questa immagine è cambiata. È di un bruto, accecato dal proprio desiderio. Non posso dimenticare il suo odore fetido di sudore. Ho, sempre, paura che possa tornare. Salto giù dal letto, nel cuore della notte, per timore dei suoi passi. Tutto il mio corpo trema al minimo rumore e il mio cuore si mette a battere più forte per la paura che venga. Sono, sempre, pronta alla fuga. Lascio, tutte le notti, le luci accese e passo, tutte le giornate, nel pianto e nella disperazione.
La nostra casa era in khiaban-e Kargar-e Shomali. Stavo andando alla moschea Qoba con mio fratello quando sono stata arrestata. Mi hanno picchiato, mi hanno portata via. Hanno fatto di me bottino. Come diceva il nostro antico poeta Hafez:
“Hanno fatto quello che facevano i mongoli.”
Alcuni hanno avuto le braccia spezzate, altri le gambe spezzate e altri le schiene spezzate. Altri ancora, come me, hanno avuto l’anima spezzata, come se tutta l’umanità si fosse separata da me.
Ero la primavera.
Ora, sono morta.
Sono un papavero falciato.
Vorrei pregare chi legge questa lettera e conosce qualcuno che, come me, è stato vittima di stupro, di usargli gentilezza. Di essergli accanto. Per me e per tutti quelli come me, nella nostra cultura, lo stupro non è soltanto un colpo inferto a una singola persona, ma a tutta la sua famiglia, a tutto il suo clan.
Una vittima di stupro non guarisce con il tempo.  
Al minimo sguardo di suo padre, le ferite si aprono di nuovo.
A ogni lacrima di sua madre. il suo cuore si spezza di nuovo.
I parenti, gli amici, i vicini, tutti tagliano i rapporti.
Noi siamo stati costretti a vendere sotto costo la nostra casa e a trasferirci a Karaj (nella periferia di Tehran). Ma non ci siamo restati a lungo. Gli agenti hanno trovato, in poco tempo, il nostro nuovo indirizzo e ci hanno seguito. Si tenevano all’angolo della strada e abbozzavano un risolino ogni volta che mio padre passava di là. Abbiamo lasciato tutto e siamo emigrati.
Alla loro non più giovane età, i miei genitori sono divenuti dei rifugiati in un campo. Posso ben affermare che le ferite culturali sono, di gran lunga, peggiori di quelle fisiche. Sono molti quelli che sorridono quando sentono parlare di stupro.
Vi assicuro che non c’è proprio nulla di divertente in uno stupro!
È la sofferenza di una famiglia semplice. È una ragazza o un ragazzo che perde la propria considerazione e perdere la considerazione dell’amore non ha niente di divertente. Quelli che mi hanno stuprato ridevano. Erano in tre. Tutti e tre erano sudici e con la barba. Avevano un accento orribile e la bocca maleodorante. Hanno distrutto tutta la mia famiglia. Senza curarsi della mia verginità, mi hanno accusata di essere una puttana e mi hanno costretto a firmare una dichiarazione per provare che fossi una prostituta. Non ho più vergogna a dirlo e ne sono, addirittura, orgogliosa: mi hanno dato della puttana. Mi hanno detto:
“Firma qui, puttana!” 
Ho detto loro che ero una insegnante e che non avrei mai firmato. Sostenevano di avere tre testimoni che mi avevano vista andare a letto con tre uomini in una sola notte. Ho replicato loro che avevo trenta testimoni che potevano confermare che ero una insegnante e che erano loro responsabili di quanto mi era accaduto.
Si sono beffati di me, dicendo:
“Non ti è andata così male! La tua paga è, ora, aumentata!”
L’intimità e l’onore delle persone non contano per loro.
Pudore e castità sono solo parole vuote per loro. Non hanno mai conosciuto queste virtù. Per loro, le donne sono tutte delle puttane.
E non solo le donne.
Hanno fatto la stessa cosa agli uomini.
Non sono esseri umani.
Soffrono di auto-subordinazione.
Sono divenuti bestie degeneri, che comprendono solo la distruzione di tutto ciò che è bello. Talvolta, sento la gente maledire le loro madri e le loro sorelle. Questi individui passerebbero, addirittura, sulle proprie madri e sulle proprie sorelle. Provo dolore per chi sia costretto a trascorrere tutta la propria esistenza vicino a tali bestie rabbiose. I miei denti anteriori sono stati spezzati e la mia spalla spostata. La mia vita di donna è andata distrutta. So che non sarò mai più capace di amare un uomo, non sarò mai più capace di essere avvicinata da un uomo e di fidarmi di lui. So che il mio Paese conta molti uomini coraggiosi, che hanno sofferto altrettanto, ma, per me, tra gli uomini veri e quelli che pretendono di esserlo non c’è alcuna differenza. La mia vita di donna è finita e io sono divenuta una morta vivente.
Ma scrivo.
Scrivo per riappropriarmi della mia vita.
Scrivo che ero una insegnante e sono divenuta una prostituta e, ora, sono una scrittrice.
Scrivo che ero Bahar (Primavera) e, divenuta Autunno (Paiz), sono ancora più bella. Sono una magnifica puttana, ripudiata dal quartiere, insegnante senza classe, schernita, condannata alla solitudine, sopraffatta dalle ingiustizie dei tiranni.
Per la repubblica islamica, io sono divenuta la donna dai capelli corti, dalle braccia rotte e dal volto insanguinato.
Allora io sono fiera di essere una puttana per la libertà.
So che non sono la sola.
Sentivo le loro voci, nelle celle accanto, quando il mio corpo giaceva inerte sul pavimento, e ho potuto sentire questi sedicenti uomini vantarsi, a più riprese, della loro virilità.
Chiedo a tutti coloro che hanno sofferto come me di scrivere. Debbono gridare le loro sofferenze, in ogni modo, perché sono quelle stesse sofferenze che Sadeq Hedayat (scrittore contemporaneo) definiva “i dolori che spezzano l’anima delle persone”.
Tirate fuori tutto quello che avete dentro!
Che tutto il mondo sappia!
Sappiate che non siete soli.
Siamo in molti come voi e come me.
Condividiamo tutti questa sofferenza.
Questa lettera sofferta avrebbe dovuto essere più lunga, ma la chiuderò con una domanda rivolta, direttamente, a Khamenei:
“Lei si considera il padre di questa Nazione. E io sono una figlia dell’Iran. I suoi figli mi hanno stuprata. Chi pagherà per il mio onore perduto?”

farvardin 1389, Germania

Bahareh Maqami


traduzione di Daniela Zini
Copyright © 23 luglio 2011 ADZ

giovedì 21 luglio 2011

LETTERE DALL'IRAN: LETTERA A MIA FIGLIA, SHIVA NAZAR AHARI

 
LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione della:

LETTERA A MIA FIGLIA, SHIVA NAZAR AHARI
La madre della militante dei diritti umani Shiva Nazar Ahari
scrive una lettera a sua figlia.


Mia cara figlia,

sembra sia divenuto, ora, normale, in questo mondo, imprigionare per crimini quali la ricerca di libertà e l’amore per gli esseri umani. Sono più di sei mesi che tu sei in prigione per questi crimini. Come madre, sono fiera di te. Tu sei sempre stata la migliore e lo sei ancora.

Mia cara figlia, quando sono andata all’università a ritirare il tuo diploma, tutti i funzionari si sono complimentati con me per avere una figlia di tale perseveranza e mi hanno tutti detto di pregare perché, in futuro, la prigione non punisca più l’amore per gli esseri umani e la ricerca di giustizia.

E, ora, grido forte, dal profondo del mio cuore: sono io che ho allevato Shiva e se qualcuno merita la prigione, sono io, non Shiva.

Imprigionatemi, dunque, e liberate mia figlia.

Tua madre
Shahrzad Kariman


Traduzione di Daniela Zini
Copyright © 21 luglio 2011 ADZ