“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.
XIV. INDIA
to Manjoo Singh, my Friend
“I offer you peace. I offer you love. I offer you friendship. I see your beauty. I hear your need. I feel your feelings. My wisdom flows from the Highest Source. I salute that Source in you. Let us work together for unity and love.”
Mohandas Karamchand Gandhi
Non andartene amore
Non andartene, amore, senza avvertirmi.
Ho vegliato tutta la notte e ora i miei occhi
Sono pesanti di sonno.
Ho paura di perderti mentre dormo.
Non andartene, amore, senza avvertirmi.
Mi sveglio e stendo le mani per toccarti. Ti sento e
Mi domando: “E’ un sogno?”
Oh, potessi stringere i tuoi piedi col mio cuore
E tenerli stretti al mio petto!
Non andartene, amore, senza avvertirmi.
Rabindranath Tagore
65 anni fa l’India diveniva indipendente
“In India, le nostre religioni non attecchiranno mai; l’antica saggezza della razza umana non sarà oscurata dagli eventi in Galilea. Al contrario, la saggezza indiana fluirà indietro verso l’Europa, e produrrà cambiamenti fondamentali nel nostro pensiero e nelle nostre conoscenze.”
Arthur Schopenhauer
Designato “Personaggio dell’anno 1930” dal Time Magazine, Mohandas Karamchand Gandhi è finalmente liberato, nel gennaio del 1931.
Nel mese di marzo, firma un patto con il vicerè delle Indie, il rappresentante di Londra a Delhi, Lord Edward Frederick Wood Irwin: in cambio della sospensione della campagna di disobbedienza civile, il governo accetta che Gandhi partecipi alla Conferenza della Tavola Rotonda che si terrà, a Londra per elaborare un progetto di costituzione per l’India coloniale. Il 29 agosto, il Mahatma si imbarca per Marsiglia. Sulla nave, i giornalisti lo incalzano. Arriverà a Londra, il 13 settembre, sotto una pioggia fitta, fredda e battente, vestito di un semplice dhoti, che non lascerà fino al suo ritorno in India, tre mesi più tardi. Ma la tavola rotonda è un échec completo per Gandhi, che ritornerà in India a mani vuote. Il 5 dicembre, lascia la Gran Bretagna, con la rabbia nel cuore, dopo aver recitato la parte della star hollywoodiana, incontrando il re e la regina, Charlie Chaplin, ma anche i poveri dell’East London, che gli hanno riservato una accoglienza da re. Sulla strada del ritorno, Gandhi si ferma a Parigi e in Svizzera. L’8 dicembre 1931, è invitato a parlare, a Losanna, a un meeting di obiettori di coscienza, organizzato da Pierre Cérésole. Poi, a Ginevra. Ed è là, che pronuncia, il 30 dicembre 1931, il suo discorso storico, non per l’India, ma per il resto del mondo:
“Come i lavoratori potranno ottenere giustizia senza violenza?
Se i capitalisti impiegano la forza per sopprimere il loro movimento, perché non dovrebbero sforzarsi di distruggere i propri oppressori?
Risposta: questa è la vecchia legge, la legge della giungla: occhio per occhio, dente per dente. Come vi ho, già, spiegato, tutto il mio sforzo tende, propriamente, a sbarazzarci di questa legge della giungla, che non ai addice agli uomini. Voi non sapete, forse, che io sono consigliere di un sindacato operaio di una città chiamata Ahmedabad, sindacato che ha ricevuto attestazioni favorevoli di esperti in questo campo. Noi ci siamo sforzati di impiegare, sempre, il metodo della non-violenza per regolare i contrasti, che sono sorti tra capitale e lavoro, nel corso di questi ultimi quindici anni. Ciò che sto per dirvi è, dunque, basato su una esperienza che è in linea con quanto attiene questa questione. A mio modesto avviso, il movimento operaio può essere, sempre, vittorioso se è, perfettamente, unito e deciso a ogni sacrificio, quale che sia la forza degli oppressori. Ma coloro che guidano il movimento operaio non si rendono conto del valore del mezzo che hanno a loro disposizione e che il capitalismo non possiederà mai. Se i lavoratori riuscissero a comprendere che il capitale è, assolutamente, impotente senza la loro collaborazione, avrebbero, già, vinto la partita. Ma noi siamo talmente sotto l’ipnotismo del capitalismo, che finiamo per credere che rappresenti tutto in questo mondo. I lavoratori dispongono di un capitale che lo stesso capitalismo non possiederà mai. Già, ai suoi tempi, Ruskin aveva dichiarato che il movimento operaio ha delle possibilità inaudite; ha, sfortunatamente, parlato al di sopra delle nostre teste. Oggi, un inglese che è, al contempo, un economista e un capitalista, è giunto, dall’alto della sua esperienza economica, alle conclusioni formulate, intuitivamente, da Ruskin. Ha apportato al lavoro un messaggio vitale. È falso, dice, credere che un pezzo di metallo costituisca del capitale; ed è, egualmente, falso credere che, anche, una certa quantità di prodotti rappresenti un capitale. Se noi andassimo alla vera fonte, vedremmo che il lavoro è il solo capitale, un capitale che non può essere ridotto in termini di metallo. È su questa legge che noi abbiamo lavorato nel nostro sindacato. È, basandoci su di essa, che noi abbiamo lottato contro il governo e liberato un milione e 70mila persone da una tirannia secolare. Io non posso entrare nei dettagli e spiegarvi in cosa sia consistita questa tirannia, ma coloro che vogliono studiare il problema, a fondo, potranno, facilmente, farlo. Io voglio, tuttavia, dirvi, semplicemente, come noi abbiamo ottenuto la vittoria. Esiste in inglese, come d’altronde in francese e in tutte le lingue, una parola molto importante, quantunque molto breve. In inglese non ha che due lettere, è la parola “no”, in francese “non”. Il segreto di tutta la questione è, semplicemente, il seguente: quando il capitale domanda al lavoro di dire sì, il lavoro, come un solo uomo, risponde no. Nel momento stesso, in cui i lavoratori comprendono che è offerta loro la possibilità di dire “sì” quando pensano “sì” e “no” quando pensano “no”, il lavoro diviene il padrone e il capitale lo schiavo. E non importa, assolutamente, che il capitale abbia a sua disposizione i fucili, i mitragliatori e i gas venefici, perché resterà, perfettamente, impotente, se il lavoratore affermerà la sua dignità di uomo, restando, assolutamente, fedele al suo nome. Il lavoro non ha bisogno di vendicarsi, deve solo restare fermo e offrire il petto alle pallottole e ai gas venefici, se resta fedele al suo “no”, questo finirà per trionfare. Ma, io vi dirò perché il movimento operaio, così sovente capitola. Invece di isterilire il capitale, come ho suggerito in quanto io stesso operaio, cerca di impossessarsi del capitale per divenire capitalista, a sua volta. Di conseguenza, il capitalismo, accuratamente trincerato nelle sue posizioni e ben organizzato, non ha bisogno di inquietarsi: trova, nel movimento operaio, gli elementi che sosterranno la sua causa e saranno pronti a sostituirlo. Se noi non ci facessimo incantare dal capitale, ogni uomo e ogni donna comprenderebbe questa verità essenziale. Avendo, io stesso, partecipato all’organizzazione di esperienze di questo genere, in ogni sorta di casi e per lungo tempo, posso dire di avere il diritto di parlare di questa questione e di avere qualche autorità in materia. Non si tratta qui di qualcosa di sovrumano, ma, al contrario, di qualcosa che è possibile a ogni lavoratore, uomo o donna. In effetti, quello che si chiede all’operaio non differisce da quello che fa, in un certo senso, il soldato, che è incaricato di distruggere il nemico, ma porta la propria distruzione in tasca. Io desidero che il movimento operaio imiti il coraggio del soldato, ma senza adottarne la forma brutale del compito, che consiste nell’apportare la morte e le sofferenze al suo avversario, io mi permetto di assicurarvi, d’altronde, che chi è pronto a dare la propria vita senza esitazione e, al contempo, non imbraccia alcun tipo di arma, per annientare il proprio avversario, mostra un coraggio di un valore infinitamente superiore all’altro.”
(traduzione di Daniela Zini)
Questa strategia, esposta davanti a un mondo occidentale in piena rotta economica e all’alba dell’avanzata fascista, influenzerà, nel dopoguerra, numerosi movimenti di liberazione e di diritti civili. E, parimenti, molti personaggi, quali Martin Luther King, Nelson Mandela o ancora il Dalai Lama.
Gandhi termina il suo discorso con queste parole restate celebri:
“Io mi considero un soldato, tuttavia, un soldato della pace. Io conosco il valore della disciplina e della verità. Ecco perché vi chiedo di credermi quando affermo di non aver mai preso in considerazione che la popolazione indiana, se fosse necessario, ricorrerebbe alla violenza.”
[http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=RlJ00KvsHuQ, http://www.youtube.com/watch?v=fkHJ_BEwm6Y&feature=related, http://www.youtube.com/watch?v=rfHUvW7L5-k]
Dopo il suo discorso, Gandhi raggiunge la città svizzera di Villeneuve, dove lo accoglie il suo amico scrittore Romain Rolland. Con il suo libro Mahatma Gandhi, il Premio Nobel francese, che vive sulle rive del Lago Lemano, è stato uno dei primi a far conoscere il pensiero di Gandhi, in Occidente. In occasione di questa visita, vorrebbe convincere Gandhi a esortare alla disobbedienza e al rifiuto di pagare le tasse in ogni Stato in guerra e, soprattutto, a denunciare i regimi fascisti piuttosto che le democrazie, anche se queste possiedono colonie. Ma Gandhi non si interessa che all’India e spiega al suo amico, costernato, che profitterà dei suoi ultimi giorni, in Europa, per rendere visita al papa e a Mussolini. Il primo non vorrà riceverlo, con il pretesto che non sia, adeguatamente, vestito. Il secondo lo accoglierà, in pompa magna, al suono del tamburo della gioventù fascista.
Come dire che il viaggio europeo di Gandhi sia stato un disastro per la sua immagine in Europa e in America…
E l’India, in tutto questo?
Ottiene la sua indipendenza con il favore della seconda guerra mondiale, che segna la fine dell’impero britannico, senza più i mezzi delle sue ambizioni. Durante il conflitto, Gandhi dichiara che l’India non può partecipare a una guerra che ha per fine la libertà democratica, quando questa libertà è rifiutata alla stessa India. In piena guerra, lancia il suo celebre “Quit India!” (“Lasciate l’India!”), la rivolta più radicale, destinata a cacciare i britannici dalle terre indiane. La situazione è divenuta insostenibile e gli inglesi cedono. L’India avrà la sua indipendenza, ma al prezzo della partizione in due Stati: l’uno indù e l’altro musulmano, il Pakistan.
Il giorno dell’indipendenza, il 15 agosto 1947, Gandhi non partecipa alle celebrazioni con il resto dell’India, ma resta solo a Calcutta. È addolorato per la partizione del Paese e lavora per la cessazione delle violenze. Tra il 1946 e il 1947, più di 5mila persone sono uccise negli scontri tra le comunità. Milioni di persone sono spostate, di forza, al fine di omogeneizzare l’insediamento delle popolazioni secondo le loro credenze.
Il 30 gennaio 1948, in cammino verso una riunione di preghiera, Gandhi è abbattuto con tre pallottole nel petto, da un bramino legato al gruppo estremista Mahasabha, Nathuran Godse, che considera il Mahatma responsabile della partizione dell’India e del suo indebolimento…
NEW DEHLI
la città dai mille volti
“In India tutto è possibile!”
Questo detto indiano è più che mai di attualità.
13 milioni di abitanti, un inquinamento al top, strade dove le mucche passano rasenti alle BMW...
Occorrerà all’India tutto il suo genio perché Delhi divenga una regina, senza per questo perdere la sua anima e il suo patrimonio.
Lo sviluppo di Delhi e della sua area metropolitana testimonia del processo di urbanizzazione in India: un movimento di concentrazione crescente di popolazione urbana nelle megalopoli milionarie e multimilionarie. L’evoluzione demografica della città di Delhi è, innanzitutto, segnata dalla storia movimentata del Paese. Delhi è promossa capitale dell’impero britannico delle Indie, nel 1911, la sua popolazione passa da 238mila abitanti, nel 1911, a 696mila, nel 1947, a un ritmo di crescita sempre più rapido. Allo stesso tempo, l’espansione spaziale della città, secondo un modello di urbanizzazione, ampiamente vantato, ha causato una caduta spettacolare delle densità residenziali, da 55 abitanti per ettaro, nel 1911, a 18 abitanti, nel 1921, per risalire, in seguito, gradualmente, fino a 40, nel 1941.
Con l’indipendenza, nel 1947, Delhi diviene la capitale della nuova Unione Indiana e conosce un trasferimento massivo di popolazione, a seguito della partizione dell’India e del Pakistan. Dopo il 1947, Delhi, che conta, allora, 900mila abitanti, dovrrà ricevere 470mila rifugiati dal Punjab occidentale e del Sind, mentre 320mila musulmani lasceranno la capitale per il Pakistan.
Il periodo 1941-1951 è, così, quello di più forte crescita demografica nella storia della capitale: la popolazione dell’agglomerato urbano passa da 700mila a 1,4 milione, con una crescita annuale del 7,5%, ineguagliata successivamente.
Si dice che vi siano sette città a Delhi. Io ne conto otto, se includo la Delhi, la capitale inglese, divenuta quella della Repubblica Indiana, con le sue grandi strade, le sue ville, i suoi parchi, con quella Connaught Place, dove ci si perde inevitabilmente.
E, anche prima dell’Islam, vi era, forse, già, una città, perché l’area era abitata, almeno, dal tempo dei Kushana (III secolo d.C.) e, nell’VIII secolo d. C., esisteva un tempio relativamente importante.
Le sette città, di cui si parla, sono le sette capitali musulmane, che si sono succedute dalla conquista dei Ghaznavidi, quei turchi che fondarono il loro impero nell’attuale Afghanistan. Queste sette città si situano tutte a Ovest del fiume Yamuna, la prima abbastanza in disparte, l’ultima sulle sue rive o quasi. Estese su circa venti chilometri di lunghezza, formano da Nord a Sud, due gruppi principali, l’uno costituito dalla prima, la quarta e la seconda Delhi, l’altro dalla sesta, la quinta e la settima; la terza, Tughlaqabad, si trova, un poco in disparte, verso Est. Tutte non hanno avuto la stessa importanza storica, la stessa durata, né lo stesso genio architettonico.
di
Daniela Zini
Ma è il mio cuore amore mio
I tuoi occhi m’interrogano tristi.
Vorrebbero sapere i miei pensieri
Come la luna che scandaglia il mare.
Dal principio alla fine ho denudato
La mia vita davanti ai tuoi occhi,
Senza nulla celarti o trattenere.
Ed è per questo che non mi conosci.
Se fosse soltanto una gemma,
La romperei in cento pezzi
E con essi farei una catena
Da mettere attorno al tuo collo.
Se fosse soltanto un fiore,
Rotondo e piccolo e dolce,
Lo coglierei dallo stelo
Per metterlo nei tuoi capelli.
Ma è il mio cuore, mia diletta
Dove sono le sue spiagge e il suo fondo ?
Di questo regno tu ignori i confini
E tuttavia sei la sua regina.
Se fosse solo un momento di gioia
Fiorirebbe in un facile sorriso,
Lo potresti capire in un momento.
Se fosse soltanto un dolore
Si scioglierebbe in limpide lacrime,
Rivelando il suo più intimo segreto
Senza dire una sola parola.
Ma è il mio cuore, amore mio.
Le sue gioie e i suoi dolori
Sono sconfinati, e infiniti
I suoi desideri e le sue ricchezze.
Ti è vicino come la tua stessa vita,
Ma non puoi conoscerlo interamente.
Vorrebbero sapere i miei pensieri
Come la luna che scandaglia il mare.
Dal principio alla fine ho denudato
La mia vita davanti ai tuoi occhi,
Senza nulla celarti o trattenere.
Ed è per questo che non mi conosci.
Se fosse soltanto una gemma,
La romperei in cento pezzi
E con essi farei una catena
Da mettere attorno al tuo collo.
Se fosse soltanto un fiore,
Rotondo e piccolo e dolce,
Lo coglierei dallo stelo
Per metterlo nei tuoi capelli.
Ma è il mio cuore, mia diletta
Dove sono le sue spiagge e il suo fondo ?
Di questo regno tu ignori i confini
E tuttavia sei la sua regina.
Se fosse solo un momento di gioia
Fiorirebbe in un facile sorriso,
Lo potresti capire in un momento.
Se fosse soltanto un dolore
Si scioglierebbe in limpide lacrime,
Rivelando il suo più intimo segreto
Senza dire una sola parola.
Ma è il mio cuore, amore mio.
Le sue gioie e i suoi dolori
Sono sconfinati, e infiniti
I suoi desideri e le sue ricchezze.
Ti è vicino come la tua stessa vita,
Ma non puoi conoscerlo interamente.
Rabindranath Tagore
Per le strade di Delhi il popolo misero osserva con curiosità la sfilata dei notabili, che si affrettano verso il palazzo del Parlamento: è il 20 gennaio 1947 e l’Assemblea Costituente Indiana si raduna, per la sua seconda sessione, per elaborare gli schemi della costituzione della nuova India. Undici giorni dopo, un comitato di lavoro della Lega Musulmana si riunisce, a Karachi, per contestare le decisioni della costituente. In un documento di 3mila parole denuncia la non rappresentatività dell’Assemblea e ne chiede lo scioglimento.
Alla testa dei musulmani è Mohammad Ali Jinnah, straordinario tribuno di settanta anni, di educazione inglese, ma che non ha mai nascosto la sua ammirazione per Adolf Hitler ed è divenuto l’apostolo della partizione. Questi non vuole che, alla partenza dei dominatori inglesi, si crei un solo Paese indipendente: accarezza il vecchio sogno del teorico Choudhary Rahmat Ali, che aveva rigettato l’idea dell’unità dell’India e fatto balenare il disegno di due Stati sovrani, per uno dei quali aveva foggiato il nome di Pakistan, costituito dalle iniziali di Punjab, Afghania, Kashmir, Iran, Sind, Tukkanistan e Afghanistan. Quello che Jinnah ha sposato è il miraggio di un’India islamica indipendente, da contrapporre all’India indù. È, anche, convinto che gli inglesi non siano adamantini nella determinazione di cedere il potere soltanto a un’India unita e ha deciso di consacrare la sua opera, in quelli che sono, certamente, gli ultimi anni degli inglesi in India, al conseguimento dell’obiettivo della partizione.
Il subcontinente è percorso da brividi di febbre: gli indiani sanno che sta per giungere il momento della verità e scatenano lotte senza quartiere contro la potenza coloniale e tra loro. Tumulti esplodono a Lahore, Amritsar, Calcutta. Nel sontuoso palazzo di Delhi che ha visto i fasti dell’India imperiale, il vicerè feldmaresciallo conte Archibald Wavell, il “Napoleone del deserto”, che, sei anni prima, ha sgominato l’armata di Rodolfo Graziani, in Libia, ha preparato i piani per un ritiro graduale degli inglesi dall’India. Ma sir Claude John Eyre Auchinleck, The Auk, un altro dei grandi generali del deserto, il nemico di Erwin Rommel e, ora, comandante in capo dell’esercito indiano, non è d’accordo con i piani del vicerè. Il disegno di Wavell è ineccepibile come piano di emergenza, ma assurdo, se si pretende di attuarlo per gradi.
Come possono sperare gli inglesi di andarsene a tappe, mantenendo l’ordine, se non riescono a mantenerlo, già, ora che sono presenti, in India, con tutte le loro forze?
I consiglieri suggeriscono a Wavell una soluzione diversa: fissare una data per il ritiro totale degli inglesi dall’India e invitare i leaders indiani a preparare uno schema per il passaggio dei poteri in quel giorno. Wavell approva: secondo lui, la prima data possibile per l’evacuazione è il 31 marzo 1948.
A Londra, il primo ministro laburista Clement Richard Attlee si leva a parlare alla Camera dei Comuni, il 20 febbraio. Attlee è un sostenitore dell’autonomia indiana, fin dal 1927, quando ha fatto parte della Simon Commission, per lo studio della situazione.
Inoltre, chi meglio di un governo socialista è idoneo a concedere l’autodeterminazione al popolo indiano?
“È intenzione precisa del governo inglese”,
annuncia Attlee,
“di compiere i passi necessari per effettuare il trasferimento del potere a responsabili mani indiane a una data non posteriore al giugno 1948.”
“Ero giunto alla conclusione”,
scriverà nelle memorie,
“che fosse inutile cercare di raggiungere un accordo tra i leaders delle comunità rivali. A meno di porre questi leaders di fronte a una scadenza precisa, questi avrebbero continuato a rinviare all’infinito.”
Ma la bomba, nel discorso di Attlee, è un’altra. Per la prima volta, gli inglesi si dichiarano aperti a una soluzione diversa da quella unitaria:
“Il governo di Sua Maestà dovrà considerare a chi debbano essere trasferiti i poteri del governo centrale dell’India britannica, a tempo debito: se, nella loro interezza, a una qualche forma di governo centrale o, in talune zone, agli esistenti governi provinciali o in altri modi che possano sembrare ragionevoli e nel migliore interesse del popolo indiano.”
Attlee fa, anche, il nome dell’uomo al quale verrà scaricata la patata bollente: spirato l’”incarico di guerra” di lord Wavell, il vicerè che presiederà, al crepuscolo dell’impero, è il visconte Louis Francis Mountbatten di Burma.
La scelta non poteva essere migliore. Mountbatten ha tutte le doti personali e di sangue per ricoprire un posto di tale responsabilità. Cugino del re-imperatore, porta in India quel misterioso scintillio della regalità che affascina, da sempre, gli indiani. È bello, simpatico, estroverso, dotato di un immenso fascino personale. Lo circondano la fama della vittoria sui giapponesi e del suo eroico servizio in marina. È di lignaggio abbastanza antico per considerare, con una certa insensibilità clinica, come un infortunio sul mestiere, il compito di liquidare uno dei più grandi imperi della storia; ed è tanto soldato da concepire il passaggio dei poteri come una gigantesca operazione di tipo militare. Inoltre, Mountbatten arriva, in India, con un grande vantaggio: sa benissimo che sarà l’ultimo vicerè e ha fretta di tornarsene alla Marina.
A Delhi la dichiarazione di Attlee ha suscitato enorme impressione. Pandit Jawaharlal Nehru, il socialista aristocratico dalla rosa all’occhiello, si affretta a elogiarla, perché porta “realtà e una certa qualità dinamica alla situazione attuale”. Il suo Partito del Congresso ha detto, per anni, che non occorre, per il passaggio dei poteri, stabilire un accordo preliminare con la Lega Musulmana. Gli inglesi, con evidente accettazione della Realpolitik, aderiscono a tale punto di vista. Ma, altri leaders indiani gridano allo scandalo:
“L’Inghilterra si comporta da Ponzio Pilato tra indù e musulmani e ci invita alla guerra di successione.”
Sotto le volte del Parlamento di Westminster, dove tante volte è stata fatta la storia, Winston Churchill, il vecchio leone dell’impero, ruggisce:
“Se trasferiremo il potere ai cosiddetti elementi politici indiani, lo trasferiremo a uomini di paglia, di cui, tra pochi anni, non resterà traccia.”
Il vincitore della guerra mondiale è furioso per il “tradimento” dei laburisti e chiede che la questione dell’India venga deferita alle Nazioni Unite. Ma, la mozione conservatrice, che condanna la politica indiana del governo, viene respinta con 337 voti contrari e 185 favorevoli.
Mentre, a Londra, si discute, in India scorre il sangue. La Lega dei Musulmani cerca di far accettare, come fatto compiuto, prima della partizione, il suo controllo del Punjab (o terra dei cinque fiumi), la più fertile e prospera delle province nord-occidentali dell’India, dove il 56% della popolazione è musulmana. L’intera regione viene corsa da eserciti privati, che incendiano e saccheggiano. Ondeggiando un enorme spadone il leader dei Sikh, Master Tara Singh, proclama la resistenza ai musulmani:
“Opponiamoci alla Lega. Otterremo il governo combattendo.”
Per le strade delle città infuria la battaglia, nei villaggi regna il terrore. Le statistiche parlano di 2mila morti, ma, certamente, sono molti di più.
Nehru torna da una visita al Punjab costernato da quanto ha visto:
“Ho avuto e ho sentito di comportamenti di esseri umani che degraderebbero i bruti. Tutto ciò non può recare che rovina e distruzione.”
Tra tanto sfacelo, atterra sulla pista dell’aeroporto di Delhi, nell’afoso pomeriggio del 22 marzo 1947, l’aereo che trasporta il nuovo vicerè. Alla Viceroy’s House, tra il brillare dei diademi e il candore degli avori antichi, la pompa e lo splendore di sempre accolgono l’ultimo rappresentante del re-imperatore. Il vicerè e la viceregina dominano dall’alto dei troni dorati la corte dei principi indiani, dei dignitari inglesi dall’aria vittoriana, dei generali. Dopo aver prestato, con voce metallica il giuramento, il vicerè rompe una tradizione. Pronuncia un discorso.
“Non sono qui”,
dice con fermezza,
“per mantenere il dominio inglese in India, ma per trasferirlo.”
Tra le sue carte Mountbatten ha le istruzioni del governo inglese, che impongono, tra l’altro:
“La data per il trasferimento dei poteri è flessibile, ma lei deve puntare sul primo giugno 1948.”
Il vicerè ha un grande vantaggio: riesce simpatico a tutti. Nehru ne ammira la vivacità di parola e la perfetta educazione, lo trova simile a lui:
“È uno schietto socialista inglese. È un Filippo Egalité in uniforme navale.”
Ma anche Mohandas Karamchand Gandhi ammira il vincitore della campagna in Birmania. Il Mahatma ha settantasette anni, è stanco, sopravvive, ormai, a se stesso ed è murato nella nicchia di santone del Congresso. Questo vicerè giovane gli fa rinascere la speranza di poter, finalmente, approdare con il suo popolo alla terra promessa.
L’unico, con il quale Mountbatten non riesce a trovare un’intesa, è Jinnah: il leader musulmano rimane rigido e legnoso. Gandhi suggerisce a Mountbatten di metterlo nell’imbarazzo: lo inviti a formare il governo e lasci che si sbrogli. Il vicerè declina il consiglio.
La tragedia dell’India è che l’indipendenza pare, ormai, inscindibile dalla partizione. Nel suo studio di Delhi, spossato dai primi caldi che hanno trasformato la città in una fornace, Nehru si arrende, a sua volta, alla realtà.
“Se deve essere partizione, sia.”.
dichiara.
“Tagliando la testa ci libereremo del mal di testa.”
Concede a malincuore:
“La Lega Musulmana può avere il Pakistan: ma a condizione che non pretenda parti di India che non intendano unirsi al Pakistan.”
Il Congresso è lacerato, ma si fa strada, a passi da gigante, la convinzione che è meglio avere un’India divisa che non averne una del tutto.
L’8 aprile, Liaquat Ali Khan, uno dei leaders musulmani e oppositore di Jinnah, tanto piccolo, gioviale e garrulo quanto Jinnah è tenebroso e apocalittico, si reca da Mountbatten a porre un problema importante: bisogna dividere le forze armate in modo che siano pronte a trasferirsi nei due monconi di India al momento della partizione.
“È assurdo tagliare a metà un esercito”,
protesta Mountbatten,
“e io non lo farò.”
Liaquat non si scoraggia: porta un piano così razionale e minuzioso che il vicerè ne rimane impressionato. Ma, questa volta, è sir Claude Auchinleck, comandante in capo della Indian Army, a opporsi:
“Primo: le forze armate dell’India non possono essere recise due tronconi, in modo che ciascuno formi un esercito a sé. Secondo: non si può, comunque, realizzare un’operazione così delicata entro il giugno 1948. Sottolineo, inoltre, che se, in un momento così critico, il pubblico venisse a conoscenza di questo piano, le conseguenze sul morale e sull’efficienza delle forze armate sarebbero disastrose.”
Quando, il 28 aprile, la Costituente Indiana si raduna, per la sua terza sessione, appare a tutti evidente che la partizione è, ormai, inevitabile. Questa sessione entra, subito, nella storia con una decisione spettacolare: i costituenti dichiarano abolita la “intoccabilità”. I milioni di paria della classe dei miserabili, i senza casta, riacquistano, di colpo, per un voto di assemblea, la dignità umana. Il pubblico indiano non ha finito di stupirsi per questo proclama di emancipazione che Gandhi lo investe con un attacco improvviso: dichiara che la spartizione del Punjab e del Bengala è un delitto e “non accetterà il principio della divisione”.
Inattesamente, anche Jinnah, il messia della partizione, si dice contrario a tagliare in due le province dove coesiste una popolazione indù con una musulmana. L’unica soluzione, afferma, è creare province indù e province musulmane e risolvere i problemi delle minoranze indù nel Pakistan e musulmana nell’India, con giganteschi scambi di popolazione. A queste dichiarazioni la migrazione si scatena spontanea, accompagnata da folate di violenza. Centinaia di migliaia di indù e di musulmani, in lunghe teorie di carri, che si protraggono per centinaia di chilometri, fuggono dalle loro case, temendo rappresaglie. Calcutta è sull’orlo di massacri raccapriccianti quanto quelli dell’agosto precedente. La situazione sta per precipitare.
A Delhi si mormora che Mountbatten non veda l’ora di togliersi dalle peste e tornare alla Royal Navy. Anche il giugno 1948, ormai, gli sembra una data troppo remota. Agli amici dichiara, apertamente, che l’unica saggezza consiste nel seguire il vecchio consiglio di Gandhi agli inglesi: andarsene e lasciare l’India al suo destino.
L’aereo, che porta il maresciallo Auchinleck a Londra, decolla il mattino del 29 aprile. Il vecchio soldato va a spiegare al governo quali problemi nascerebbero dalla partizione dell’esercito indiano. Intanto, il consiglio privato di Mountbatten ha elaborato lo schema per il passaggio dei poteri. Incaricato di illustrarlo ai governanti laburisti è colui che fu capo di stato maggiore di Churchill in guerra, lord Hastings Lionel Ismay, che si reca a Londra, il 2 maggio. Mountbatten ha una grande fretta. Nei mesi frenetici, che ha vissuto all’ombra dell’antica gloria, si è convinto che il suo governo ha intenzione di liberarsi dell’India al più presto, a qualsiasi prezzo. E non è vero. Attlee si è deciso a concedere l’indipendenza: ma vuole farlo con stile. L’opposizione conservatrice lo sta accusando di correre alla liquidazione dell’impero e di non avere un disegno preciso per il passaggio dei poteri. Dovesse verificarsi un bagno di sangue in India, passerebbe, certamente, alla storia come un irresponsabile maldestro. E questo, Attlee – che non è un’aquila, ma è un uomo di onore e di coscienza – è risoluto a evitarlo. Mountbatten, che ha molta più fretta di lui, compie, a questo punto, una leggerezza imperdonabile: fa riferire al primo ministro che il suo piano sarà, sicuramente, accettato dai leaders, sia indù sia musulmani, mentre, in realtà, non si è, ancora, consultato con nessuno di loro. Il piano del vicerè è semplicissimo e, forse, davvero troppo ambiguo: consiste nel trasferire il potere alle province indiane, già esistenti, lasciando solo una debole amministrazione federale al centro. Le divisioni esatte si sarebbero formate, per decisione delle province, solo dopo la partenza degli inglesi.
Il 10 maggio, Mountbatten, fiducioso, mostra il suo piano al leader indiano di cui ha più stima: Nehru. Gli occhi pungenti di quest’ultimo scivolano sulla carta, e, infine, il suo volto diventa grigio di ira.
“Questo schema”,
urla,
“è inaccettabile.”
Al costernato vicerè spiega che il suo piano porterebbe alla “balcanizzazione dell’India” e provocherebbe la guerra civile. Per la prima volta, in questi mesi, i fini lineamenti di Mountbatten sono stravolti dall’angoscia.
Ha, già, assicurato Londra che il suo piano sarà accettato dai leaders indiani: come può rimediare, ora?
Il tono di Mountbatten diviene quasi implorante: se nel piano venissero cooptate le critiche di Nehru, il Congresso lo accetterebbe?
Giustamente, Nehru obietta che non può impegnarsi per il Congresso. Da impulsivo, Mountbatten non perde un attimo: decide di far preparare un altro piano, che tenga conto delle osservazioni di Nehru, e, nel frattempo, telegrafa ad Attlee che quello che gli è stato portato da Ismay è, irrimediabilmente, caduto. Vappala Pangunni Menon, il consigliere indiano più vicino a Mountbatten, si accinge, disperatamente, al lavoro e impiega, come racconta uno storico, “esattamente quattro ore per stendere un piano destinato a cambiare la faccia dell’India e del mondo”.
Attlee ha ricevuto la comunicazione ed è bilioso. Tempesta di cablogrammi la residenza del vicerè e invita Mountbatten a volare, immediatamente, a Londra per giustificarsi. Lo stesso Ismay telegrafa per segnalare che non comprende più nulla.
Mountbatten si trova a fronteggiare la situazione più difficile della sua carriera. Non ha alcuna voglia di andare a discolparsi a Londra. Gli piacerebbe trincerarsi dietro la propria dignità vicereale e minacciare di dimettersi, se Attlee non gli concedesse, a scatola chiusa, il “voto di fiducia”. Ma è troppo pretendere dal primo ministro la fiducia cieca su un atto di portata storica.
Il 18 maggio, il vicerè sale sull’aereo per Londra. Riesce, faticosamente, a calmare Attlee: gli indiani sono clienti difficili, è logico che le trattative subiscano alterne vicende. Il premier si convince, anche se la sua fiducia nel vicerè è scossa. Ma, Mountbatten, allorché rientra nella sua sede, il 31 maggio, è soddisfatto perché gli ha strappato una concessione strabiliante. La data di evacuazione non è più il primo giugno 1948, ma il 15 agosto 1947. Questa data, che rende felice il vicerè, permettendogli di tornare presto sulle navi, è sbalorditiva. Mancano solo due mesi e mezzo, alla partenza degli inglesi, e nulla, ancora, è stato preparato. L’evacuazione graduale, pianificata da Wavell, minaccia, ora, di trasformarsi in una rotta.
Le mura dell’edificio imperiale si sgretolano. Ma in campo indiano la confusione non è meno totale che in campo inglese. Jinnah, il “gran spartitore”, si dichiara, ferocemente, avverso alla partizione del Bengala e del Punjab. In queste ultime ore del dominio inglese, si prodiga in richieste impossibili. Chiede, perfino, un corridoio musulmano attraverso l’India indù, che, lungo 1.500 chilometri , congiunga i due tronconi del Pakistan. Nessuno – e meno di tutti Jinnah – prende sul serio la domanda.
Per ragioni diverse da quelle di Jinnah, insorge contro la partizione un personaggio che è agli antipodi del tribuno musulmano: Gandhi.
“Anche se tutta l’India brucia”,
pronuncia, in lacrime, a un raduno di preghiera, il 31 maggio,
“non dobbiamo concedere il Pakistan: neppure se i musulmani ce lo chiedano sulla punta della spada.”
Mountbatten inizia a non comprendere più nulla: prima si tagliano i nodi, pensa, e meglio è.
Il 2 giugno, convoca i leaders indiani: accanto al volto amico di Nehru, vi è quello ostile di Jinnah e il ghigno volpino di Liaquat Ali. Annuncia le proposte inglesi: prendere o lasciare.
Jinnah è il più riluttante, ma, infine, si scioglie.
“Non riusciva a celare la sua soddisfazione.”,
telegrafa il vicerè a Londra.
Il piano viene pubblicato, ufficialmente, il giorno dopo. Mountbatten ne illustra i particolari a una conferenza stampa, il 4 giugno. Per la prima volta, annuncia al pubblico che la data stabilita dal governo inglese per il passaggio dei poteri è il 15 agosto. I poteri verranno trasferiti a due governi indiani. Al Congresso si levano voci di deplorazione. È stata perduta, si lamenta, la battaglia per l’India una.
Negli ambienti responsabili il futuro si delinea come un incubo.
In che modo si attuerà la partizione?
Com’è possibile pensare di spartire, in due mesi, i servizi civili, l’amministrazione, l’esercito?
Il vicerè e Nehru sono, continuamente, alla radio, per spiegare al popolo le fasi del trasferimento. La maggior parte di questo popolo, immerso nel letargo della sua miseria antica, non ascolta: e, anche se ascolta, non è in grado di comprendere. Eppure, a breve, quei problemi, non compresi oppure fraintesi, gli arriveranno in casa con il fuoco e con la spada.
Dichiara Nehru:
“Noi siamo piccoli uomini al servizio di grandi cause, ma poiché questa causa è grande qualcosa di questa grandezza ricadrà su di noi.”
Le prossime otto settimane diranno se la proposizione del leader della rosa sia vera. Intanto il comitato del Congresso vota una risoluzione di accettazione dell’indipendenza: 157 favorevoli, 29 contrari, 32 astenuti. Ma ribadisce che non bisogna perdere di vista il bene supremo dell’unità e che la partizione deve essere una soluzione soltanto temporanea.
La partizione trova scarsi sostenitori anche tra coloro che l’hanno inventata. I partiti indù ortodossi la esecrano. I musulmani nazionalisti la respingono. I comunisti, su espresso suggerimento di Mosca, dichiarano che è la espressione della vecchia perfida politica imperialistica inglese del divide et impera. Gli inglesi mirano a crearsi punti di forza, soprattutto nel Pakistan, dove sta per passare il troncone di esercito di più schietta ispirazione inglese. Lo sforzo del Foreign Office è volto a ottenere che i due nuovi Stati sovrani, India e Pakistan, accettino lo statuto di dominions. È il modo per dimostrare che, anziché liquidare l’impero, il governo socialista dà vita a un nuovo dinamico Commonwealth, la versione moderna e democratica di Britannia.
I capi del Congresso sfilano, ancora una volta, sui pavimenti luccicanti della residenza vicereale. Sono venuti a pregare Mountbatten di essere il primo governatore generale dell’India indù o, addirittura, delle due Indie, che scaturiranno dalla partizione. Per la stirpe di re che è Mountbatten, l’idea riveste un fascino romantico: gli si presenta l’occasione storica di essere, a un tempo, l’ultimo vicerè dell’India britannica e il primo governatore dell’India indipendente.
Il piano è bello ma irreale: alle menti dei musulmani fanatici suona scandaloso.
Il 2 luglio, Jinnah informa Mountbatten che ha intenzione di essere lui il primo governatore del Pakistan.
Mountbatten rimane impietrito: per lui la nuova soluzione era felice in quanto gli consentiva di conservare nella sua persona, in una sorta di unione personale, l’unità dell’India.
Ma ora che i musulmani lo rifiutano, vale la pena che rimanga quale governatore di mezza India?
I suoi consiglieri lo supplicano di farlo: la sua presenza può ancora evitare una guerra civile. Mountbatten invia il fido Ismay a Londra, perché trasferisca la responsabilità di una decisione sul governo. Curiosamente, la proposta rinfocola negli animi inglesi gli entusiasmi imperiali. Churchill è il più caloroso sostenitore di questa soluzione, perché la nomina di un governatore inglese servirà a smorzare le tensioni in India e “a rafforzare i legami di sentimento tra l’India e il resto del Commonwealth”. Alla vigilia della liquidazione dell’impero, gli inglesi si illudono che il cuore dell’antica colonia batta ancora all’unisono con il loro. Nella Londra austera dell’immediato dopoguerra, non si immagina ancora ciò che porterà, come conseguenze, l’ammainabandiera nel subcontinente. E, perfino, Mountbatten, a Delhi, abbagliato da un antico sogno di pompe regali, di elefanti e di gioielli, si illude su un passaggio dei poteri pacifico, qualcosa come gli antichi giubilei in onore di Vittoria regina. Per tutto luglio i più illuminati tra i suoi consiglieri si sforzano di aprirgli gli occhi: gli spiegano che, al momento della partizione, vi saranno, certamente, dei massacri. Una quantità di sette, di fraternità, di partiti stanno progettando violenze. I Sikh meditano lo sterminio dei musulmani; i musulmani preparano le stragi degli indù. Mountbatten è persuaso di poter dominare la situazione. Fa dei piani strategici, come in Birmania, progettando di usare, perfino, l’aviazione contro i rivoltosi. Ma, in fondo, è convinto che non vi saranno disordini gravi. D’altronde, anche se lo volesse non avrebbe il tempo di preparare misure di sicurezza importanti sull’intero territorio indiano, che è immenso.
La divisione delle forze armate e dei servizi amministrativi procede, a tappe accelerate, sfociando spesso nel caos. Il Bengala e il Punjab decidono per la partizione. Non appena questa diventa un fatto sicuro, nel Punjab si scatena il terrore: esplosioni, incendi e massacri insanguinano Lahore, capitale della provincia, e Amristar, città sacra dei Sikh.
Tra una legge sul gas e una sulle banchine del porto passa, il 15 luglio, a Westminster, dopo una discussione frettolosa, l’Indian Independence Bill, la legge per l’indipendenza indiana, in venti paragrafi. Tre giorni dopo, viene consacrata dal consenso reale.
“Mai nei lunghi annali del parlamento inglese”,
scrive il Times,
“una misura di così profondo significato è stata contrassegnata da un’approvazione così rapida e così indolore.”
La dichiarazione di voto di Attlee accende le ironie: il primo ministro afferma che questa legge: “non è l’abdicazione, ma il coronamento della missione britannica in India”.
Nelle ultime settimane di dominio inglese, i principi indiani compiono disperati tentativi per salvare i loro privilegi e per sottrarsi all’ordinamento della nuova India. Sono dominati dall’angoscia di essere detronizzati e di perdere, di un colpo, solo i loro palazzi, i loro gioielli e le loro baiadere. In questa ultima antistorica battaglia, trovano un alleato insperato: sir Conrad Corfield, un funzionario dell’amministrazione inglese, che, saltando il vicerè e aggiungendo l’ennesima spina alla corona di Mountbatten, va a Londra a perorare, direttamente, dal segretario di stato la causa dei rajah. Di questi i meno bellicosi si precipitano a fare atto di lealtà verso il Parlamento indiano. Ma, nel Junagadh, il cui principe ha aderito al Pakistan, gli indiani si affrettano a entrare militarmente.
Il nizam di Hyderabad tenta, addirittura, di negoziare uno status di Dominion tra il suo staterello e la crona britannica. Un anno dopo l’indipendenza, nel settembre del 1948, le truppe indiane, in quella che sarà chiamata eufemisticamente “un’azione di polizia”, occuperanno Hyderabad per “restaurare l’ordine” e, allora, anche il nizam farà atto di sottomissione all’India.
Il grande mercato, benedetto dalla storia, è quasi compiuto.
Lord Herbert Louis Samuel, liberale, si alza alla Camera Alta e applaude alla legge di indipendenza:
“Siamo stati, così, bravi da aver concluso un trattato di pace senza che vi sia stata una guerra.”
La guerra verrà dopo, lo rimbeccano i colleghi, se gli inglesi, nel mese che rimane, non riusciranno a spartire bene le proprietà, prima di cederle ai due eredi. L’imbarazzo più cocente è quello di definire i confini di partizione del Bengala e del Punjab.
L’8 luglio, arriva, in India, l’arbitro inglese incaricato di stabilirli. È sir Cyril John Radcliffe, un eminente avvocato che non ha la minima conoscenza dell’India. Fino a poche ore prima della partenza, ha, invano, supplicato che qualcuno del Foreign Office gli chiarisca il suo compito. Radcliffe adempie la sua missione con l’animo della disperazione. In Bengala, si trova a dover separare Calcutta dal suo retroterra, pur sapendo che ciò condannerà all’agonia economica la regione. Con una furia burocratica che ripugna, profondamente, al suo animo di inglese onesto, Radcliffe taglia tutto: taglia il sistema ferroviario della provincia, taglia i fiumi, su cui si muovono i trasporti della regione e il commercio vitale della iuta, taglia le strade, taglia le campagne, taglia i villaggi. Per giorni e giorni, si arrovella su una serie di soluzioni alternative: alla fine, costernato, traccia sulla mappa una lunga linea da nord a sud, dalle pendici dell’Himalaya a Est di Darjeeling alla Baia del Bengala a Est di Calcutta. Quel tratto di matita ha deciso, per un quarto di secolo, della vita e della morte di milioni di uomini.
La partizione risulta altamente insoddisfacente. Lo stesso accade nel Punjab. Qui il malcapitato Radcliffe fa, addirittura, fatica a trovare una mappa decente che mostri, realmente, i contorni del Paese, i canali e l’esatta posizione dei fiumi.
Il giorno dell’indipendenza arrivò nel caos. Quel giorno l’India fu investita dal primo monsone dell’anno, che annunciava la penuria di cibo. Nel Kashmir, tribù musulmane si apprestarono a prendere il controllo della regione al grido:
“Islam, difenditi.”
Stavano per aprirsi i massacri che sarebbero costati all’India circa un milione di morti, tra cui il capo santo Gandhi. Master Tara Singh, la barba fiammeggiante come un profeta dell’Antico Testamento, incitava i suoi Sikh alla rivolta. Si scoprì un complotto per assassinare Jinnah, il 14 agosto, a Karachi. Era noto a tutti che, al momento della proclamazione dell’indipendenza, sarebbero scattati assalti ai treni, attentati dinamitardi, imboscate, distruzioni delle chiuse, inondazioni. Quella notte nessuno, in India, dormì. Come batté la mezzanotte del 14 agosto 1947, quello che Benjamin Disraeli aveva chiamato “il gioiello più luminoso della corona britannica”, passò nei libri di storia. Era la fine della dominazione inglese dell’India, e anche dell’impero britannico, in generale. Un altro capitolo dell’Ottocento si chiudeva.
Alle 8.30 del 15, Mountbatten, bellissimo nella sua uniforme di gala, salutato da un salva di trentuno cannoni e dal lento alzarsi e spiegarsi al vento della nuova bandiera nazionale indiana, cessò di essere l’ultimo vicerè dell’India e giurò come primo governatore generale del Dominion Indiano. Egli lesse un messaggio del re Giorgio VI, non più imperatore dell’India:
“In questo storico giorno in cui l’India prende il suo posto come un libero e indipendente Dominion nel Commonwealth britannico delle Nazioni, mando a voi tutti il mio saluto e i più cordiali auguri. Con questo trasferimento di poteri mediante il consenso giunge il coronamento di un grande ideale democratico, cui i popoli inglese e indiano sono del pari fermamente dediti.”
Gandhi non prese parte alle celebrazioni. Passò la giornata in preghiera, digiunando, in uno slum di Calcutta. In quel momento, in tutta l’India treni e convogli di carri recanti profughi venivano attaccati da bande di armati, che tagliavano la gola agli uomini e portavano via le donne.
Il 16 agosto, iniziarono le stragi in grande stile. Quando gli inglesi ebbero ultimato l’evacuazione dell’India, 600mila persone erano morte del solo Punjab e 14 milioni erano stati costretti a lasciare le loro case.
Daniela Zini
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