“Sensibile al dolore degli oppressi, incorruttibile, glaciale di fronte alle nostre compromissioni, Anna è stata, ed è ancora, un modello di riferimento. Ben oltre i riconoscimenti, i quattrini, la carriera: la sua era sete di verità, e fuoco indomabile.”
André Glucksmann
Definita dal Cremlino “donna non rieducabile”, Anna Politkovskaja incarna, per molti di noi, l’unica forma di resistenza al potere di Vladimir Putin.
Vi sono due frasi, pronunciate dal presidente russo che, secondo André Glucksmann, smascherano il personaggio:
“La prima è “Cekista un giorno, cekista per sempre.” Putin è per sua stessa ammissione fedele ai suoi esordi nei servizi segreti, il 20 dicembre di ogni anno celebra l’anniversario della CEKA[1], poi divenuta GPU[2] e KGB[3], un apparato responsabile di decine di milioni di morti.
La seconda frase?
Nell’aprile del 2005, Putin ha detto: “La caduta dell’URSS è la più grande catastrofe geopolitica del secolo.”. Come se gulag e Auschwitz fossero dettagli della storia.”
Il filosofo francese è uno dei pochi, in Europa, a denunciare da anni il regime autocratico del “nuovo zar di Mosca”.
Anna Politkovskaja, giornalista coraggiosamente impegnata sulla copertura delle atroci realtà della seconda guerra in Cecenia, univa lucidità, umanità e serietà giornalistica.
Rispettata dai ceceni per la sua temerità nel testimoniare sulle esazioni dell’esercito russo – cosa che ha altamente pagato con la propria vita – aveva subito, nel settembre del 2004, un tentativo di avvelenamento, probabilmente bevendo un tè, sull’aereo che la conduceva a Rostov sul Don, per impedirle di recarsi a Beslan[4], durante la crisi degli ostaggi. Sarebbe stata in grado di avviare una trattativa e, per questo, fu bloccata in tempo.
Anna Politkovskaja non si era mai pentita di aver messo da parte il suo ruolo di giornalista per quello di negoziatrice durante l’assedio al teatro moscovita Dubrovka:
“Sì, sono andata al di là dei miei doveri di cronista”,
aveva spiegato in un’intervista.
“Ma sarebbe del tutto sbagliato sostenere che da un punto di vista giornalistico è stata una brutta mossa. Rinunciando al mio ruolo ho appreso tante cose che non avrei mai compreso, continuando a essere una semplice cronista.”
Nel dicembre del 2005, durante una conferenza di Reporters sans Frontières, a Vienna, sulla libertà di stampa denunciava:
“Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Una persona, infatti, può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare.”
E ancora, in un saggio, apparso postumo sull’Internazionale del 26 ottobre 2006:
“Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all'estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me.
Eppure tutti i più alti funzionari accettano d'incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un'indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all'aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo, seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto.
È una situazione cui non ti abitui, ma impari a conviverci: erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999. Mi nascondevo dai soldati federali russi, ma grazie ad alcuni intermediari di fiducia riuscivo comunque a stabilire dei contatti segreti con le singole persone. In questo modo proteggevo i miei informatori.
Dopo l'inizio del piano di “cecenizzazione” di Putin (ingaggiare i ceceni “buoni” e fedeli al Cremlino per uccidere i ceceni “cattivi” ostili a Mosca), ho usato la stessa tecnica per entrare in contatto con i funzionari ceceni “buoni”. Molti di loro li conoscevo da tempo dato che, prima di diventare “buoni”, mi avevano ospitato a casa loro nei mesi più duri della guerra.
Dopo l'inizio del piano di “cecenizzazione” di Putin (ingaggiare i ceceni “buoni” e fedeli al Cremlino per uccidere i ceceni “cattivi” ostili a Mosca), ho usato la stessa tecnica per entrare in contatto con i funzionari ceceni “buoni”. Molti di loro li conoscevo da tempo dato che, prima di diventare “buoni”, mi avevano ospitato a casa loro nei mesi più duri della guerra.
Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da "rieducare". Non sto scherzando. Qualche tempo fa Vladislav Surkov, viceresponsabile dell'amministrazione presidenziale, ha spiegato che alcuni nemici si possono far ragionare, altri, invece, sono incorreggibili: con loro il dialogo è impossibile. La politica, secondo Surkov, deve essere "ripulita" da questi personaggi. Ed è proprio quello che stanno facendo, non solo con me.”
Coraggiosa, sì, lo era.
La sua tomba è un foglio bianco crivellato da cinque colpi di pistola.
Anna Politkovskaja è stata abbattuta, esattamente quattro anni fa, il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno di Vladimir Putin[5]. Il suo corpo era ritrovato, alle 17,10, da una vicina, nell’ascensore del suo stabile, in via Lesnaja, nel centro di Mosca. La polizia rinveniva una pistola Makarov 9 mm . e quattro bozzoli accanto al suo cadavere[6] .
Anna Politkovskaja era la ventunesima giornalista assassinata in Russia dall’elezione di Vladimir Putin, nel 2000.
Anna Politkovskaja si apprestava a pubblicare, sulla Novaja Gazeta, l’8 ottobre 2006, un articolo sulla pratica della tortura in Cecenia, che implicava direttamente Ramzan Kadyrov, primo ministro ceceno, nominato dal presidente Vladimir Putin.
Il martedì 10 ottobre, in un cimitero del sud-ovest (Troekurovskij) della capitale, migliaia di persone avevano sfilato davanti alla sua bara. Erano, soprattutto, gente comune. Erano state, egualmente, presenti alcune grandi figure dell’opposizione, quali Boris Nemtsov e Grigori Iavlinski. Ma per rappresentare il governo, non vi erano stati che alcuni uomini sconosciuti del ministero della cultura.
La fronte della giornalista era celata da una benda bianca. L’assassino, che aveva esploso contro di lei quattro colpi di pistola in rapida successione, per assicurarsi di aver abbattuto il bersaglio, aveva sparato il colpo di grazia alla nuca.
Con lei, moriva, per molti, la speranza che la Russia potesse liberarsi dai fantasmi del passato e diventare una grande democrazia rispettosa dei diritti umani.
“Non è sorprendente… Noi siamo tornati là dove eravamo sotto il regime comunista, quando il potere disprezzava l’individuo e le sue libertà.”,
era insorto, dalla massa degli anonimi, Khassan Satobayev, un russo che è fuggito dalla Cecenia, nel 1995, dopo l’inizio della prima guerra.
“La maggioranza della gente continua a fare quello che dice loro il capo. Ci hanno dato, certo, la libertà. Ma non abbiamo appreso a usarla. Guardate la nostra televisione… Ci sono sesso, risate e birra. Ma non c’è informazione!”
Khassan Satobayev non conosceva personalmente Anna Politkovskaja. Ma, leggeva, regolarmente, i suoi articoli su Internet.
Quello stesso 10 ottobre, a Dresda, Vladimir Putin, che era rimasto in silenzio dopo l’assassinio, rilasciava questa dichiarazione sibillina:
“Questa persona aveva un atteggiamento critico nei confronti delle autorità, ma è giusto che voi sappiate che lei non aveva alcuna influenza sulla politica russa. Era conosciuta solo nell’ambiente dei giornalisti, nelle organizzazioni per i diritti umani e in occidente, ma ripeto: la sua influenza sulla vita politica del nostro Paese era minima.”
Una settimana dopo l’assassinio della giornalista russa, Lidia Yusupova, coordinatrice dell'ufficio legale dell'ONG Memorial, vincitrice del premio Sacharov 2009 per i diritti umani, riceveva, il 12 ottobre 2006, minacce di morte. Un uomo, che parlava in ceceno, l’aveva contattata al cellulare:
“Sei contenta di essere sulla lista dei candidati al Premio Nobel per la Pace? Supponendo che tu sia ancora viva per quel giorno!”
Nel 2006, il potere personale di Vladimir Putin si era rafforzato, con l’entrata in vigore, in aprile, di una nuova legge che restringeva la poca libertà di azione di cui potevano ancora beneficiare le società russe (condizioni di registrazione e controllo finanziario rafforzati, possibilità di scioglimento delle società). Questa legge si applicava egualmente alle società straniere, al punto che alcune di queste avevano dovuto sospendere, almeno temporaneamente, la loro attività sul territorio della Federazione Russa. Firmando questa misura, all’inizio del 2006, Vladimir Putin completava il progetto politico che aveva, lui stesso, definito la “dittatura della Legge”. Altre misure, precedentemente adottate, avevano, infatti, già, permesso al capo del Cremino di consolidare considerevolmente il ruolo dell’FSB[7] (l’ex-KGB) – in nome della lotta antiterrorista – e di restringere considerevolmente la libertà di stampa. Alcune disposizioni della Legge sulla Lotta contro le Attività Estremiste, entrata in vigore nel 2002, erano state, egualmente, utilizzate per ostacolare le attività delle ONG. Questa inflazione di testi legislativi veniva ad aggiungersi alle molteplici pressioni e molestie, subite dai militanti associativi in Russia. In un contesto di xenofobia imperante e di attacchi razzisti nell’insieme del Paese, i difensori dei diritti umani, impegnati nella lotta contro il neo-fascismo o per i diritti delle minoranze, continuavano a pagare il loro impegno ad alto prezzo.
Il 7 aprile 2006, uno studente senegalese di ventotto anni, Samba Lampsar, membro attivo dell’ONG Unità Africana era stato assassinato a San Pietroburgo con un colpo di arma da fuoco. Sulla scena del crimine era stata ritrovata una pistola con una svastica.
Anna Politkovskaja diceva che la guerra in Cecenia riguardava l’occidente, perché imbarbariva la Russia e le conseguenze sarebbero state internazionali.
Ebbe parole dure per quello che considerava il guanto di velluto dell’occidente nei confronti di Putin e della Russia:
“Il più delle volte dimenticano la parola Cecenia. La ricordano solo quando vi è un attentato. Putin ha cercato di convincere la comunità internazionale che anche lui sta combattendo il terrorismo globale, che anche lui partecipa a questa guerra così di moda. E ci è riuscito: per un periodo è stato il migliore amico di Blair. È stato spaventoso quando, dopo Beslan, ha iniziato a sostenere che si poteva quasi vedere la mano di bin Laden. Che cosa c’entra in questa storia bin Laden? È stato il governo russo a creare e ad allevare quelle belve.”
Certo, Anna Politkovskaja era animata dalla passione. Amava il suo Paese, i suoi concittadini, perché aveva appreso a vederli attraverso lo sguardo di Osip Mandel'štam, di Marina Svetayeva, di Aleksandr Solgenitsin, che aveva letto perché suo padre, diplomatico, portava con sé, con valigia diplomatica, la letteratura proibita. Ma va detto, anche, che Anna Politkovskaja vedeva giusto. Aveva compreso quello che era in gioco in Russia prima di molti altri – a iniziare dai troppo saggi diplomatici e governi occidentali che consideravano e considerano ancora la Cecenia come un affare interno russo.
“No,”,
gridava,
“vi riguarda!”
Sosteneva che la criminalizzazione della Russia, accelerata dalla guerra in Cecenia, la scuola di violenza, senza limiti, che costituisce l’esercito russo in molte sue unità, la follia del denaro che non si imbarazza di alcuno scrupolo, tutto ciò costituisse un cancro che corrode questo Paese.
E aveva ragione.
“Questo cancro vi minaccia.”,
continuava, rivolgendosi agli occidentali.
Nel suo libro Cecenia, il disonore russo, Anna Politkovskaja evoca la preghiera di una vecchia donna cecena malata, madre di una vittima della guerra[8], una preghiera implorante:
“L’odio che alberga nei nostri cuori dopo questa tragedia ci lasci.”
La giornalista vi aggiungeva questo commento:
“Come mettere fine a questa guerra, con il suo bagaglio di orrori quotidiani? Come si fermano le guerre?
Le guerre finiscono precisamente quando i nostri sentimenti di odio cedono il passo. Altrimenti, come tanti condannati a morte, aspettiamo il nostro turno, perché abbiamo affidato il nostro Paese a persone che non hanno paura di sterminare i loro simili.
Non si tratta della guerra senza quartiere contro il “terrorismo internazionale”, dove i “dettagli” non contano. Si tratta di capire quello che è successo a NOI. È di noi che si tratta. Della bestialità che ha invaso i nostri cuori. E dal cuore di questa Cecenia “pacificata” ho voglia di gridare: SOS!”
Daniela Zini
Copyright © 7 ottobre 2010 ADZ
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[1] Abbreviazione di Večeka, a sua volta acronimo del “Comitato Straordinario di tutta la Russia per combattere la Controrivoluzione ed il Sabotaggio” (in russo Всероссийская чрезвычайная комиссия по борьбе с контрреволюцией и саботажем).
[2] Direzione Politica di Stato
[3] Comitato per la Sicurezza di Stato
[4] La strage di Beslan è il termine con cui ci si riferisce al massacro, avvenuto tra il 1° e il 3 settembre 2004, nella scuola Numero 1 di Beslan, nella Ossezia del Nord una Repubblica Autonoma nella regione del Caucaso nella Federazione Russa, dove un gruppo di 32 ribelli, fondamentalisti islamici e separatisti ceceni occupò l'edificio scolastico sequestrando circa 1200 persone tra adulti e bambini. Tre giorni dopo, quando le forze speciali russe fecero irruzione, fu la fine di un massacro che causò la morte di centinaia di persone, fra le quali 186 bambini, ed oltre 700 feriti.
[5] Vladimir Putin è nato il 7 ottobre 1952.
[6] Il giudice del tribunale militare di Mosca ha ordinato la ripresa del processo contro tre presunti complici nell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja. I familiari e le parti civili si sono detti contrari alla decisione, perché avrebbero voluto l’avvio di una nuova inchiesta. I figli della giornalista, in particolare, volevano che il procuratore riunisse i risultati dell’inchiesta sui tre imputati con quelli che riguardano il presunto autore, sfuggito all’arresto, e il mandante, rimasto sempre sconosciuto.
Il processo per l’omicidio si era aperto il 2 ottobre 2008. I tre imputati erano Sergej Khadjikurbanov, ex funzionario di polizia, accusato di aver organizzato il delitto, e i fratelli Dzhabrail e Ibrahim Makhmudov, che avrebbero pedinato la giornalista e guidato la macchina del killer. Un altro dei fratelli Makhmudov, Rustam, è ricercato come esecutore dell’omicidio. Il 19 febbraio 2009 gli imputati sono stati assolti.
Il 25 giugno 2009 la Corte suprema russa ha accolto il ricorso della pubblica accusa, annullando la sentenza. La famiglia di Anna Politkovskaja ha criticato la scelta: “Crediamo che gli imputati siano coinvolti nell’omicidio, ma le prove contro di loro erano insufficienti”.
dall’Internazionale del 7 agosto 2009
[8] È la madre di una vittima dell’esplosione del camion del 6 agosto 2002.
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