Non è necessario sottolineare la dimensione storica degli eventi in corso.
Gli eventi attuali riflettono un cambiamento in profondità delle società del mondo arabo.
Questi cambiamenti sono in corso da lungo tempo, ma sono stati occultati dai clichés sul Medio Oriente.
John Maynard Keynes (1883-1946) ha detto:
“L’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.”
Che il Mediterraneo concentrasse tutte le antinomie del nostro tempo – guerra e pace, democrazia e autoritarismo, progresso e arretramento – lo sapevamo.
Ma l’ampiezza e la rapidità delle sollevazioni hanno sorpreso tutti.
Sono stupefacenti.
Sono esemplari per quanto concerne i movimenti coraggiosi, pacifici, pluralisti e democratici dei popoli.
Sono sviluppi estremamente positivi, seppure carichi di incertezze e di sfide di grande ampiezza.
La storia non è finita, come hanno voluto farci credere.
Noi siamo a una nuova svolta storica nel Mediterraneo.
Quali saranno le conseguenze geopolitiche?
Quali saranno le conseguenze per l’Europa?
E quali saranno le conseguenze per la sinistra, per le forze progressiste del Nord e del Sud del Mediterraneo?
Noi non abbiamo, non possiamo avere risposte pronte a queste tre domande.
Ma possiamo discuterne.
Ed è necessario farlo insieme.
Si è parlato di un 1848 arabo.
I processi attuali nel mondo arabo hanno caratteristiche diverse, secondo le condizioni socio-politiche dei Paesi, ma è vero che fanno pensare, nel loro insieme, ai movimenti democratici del 1848 europeo, con i loro giovani manifestanti, provenienti dagli ambienti popolari e dalle classi medie, ispirati da idee democratiche, progressiste e nazionaliste, che trascinano la maggioranza dei popoli.
Uno storico ha descritto il 1848 come un momento in cui “la storia europea arrivò a una svolta che non riuscì a cogliere”.
È vero che alcuni moti europei del 1848 sono falliti.
Ma è, altrettanto, vero che certe idee hanno finito per radicarsi nelle società e certi obiettivi democratici sono divenuti realtà.
In questi Paesi, oltre a un’esigenza di dignità e di libertà, vi è un’esigenza di giustizia sociale e, come direbbe George Orwell, (1903-1950) di una “decenza comune”: un’indignazione popolare di fronte alla corruzione e al tenore di vita degli autocrati.
Il tasso di disoccupazione, la sottoccupazione, le ineguaglianze hanno alimentato la rivolta dei giovani.
Protestano, innanzitutto, contro la natura predatrice delle dittature.
Il raffronto tra Tunisia ed Egitto è illuminante.
In Tunisia, il clan Ben Ali aveva indebolito tutti gli alleati potenziali, per accentrare non solo il potere ma soprattutto la ricchezza: la classe degli uomini di affari è stata letteralmente rapinata dalla famiglia e l’esercito è stato lasciato non solo fuorigioco sul piano politico, ma soprattutto fuori della distribuzione delle ricchezze: l’esercito tunisino era povero, ha, quindi, un interesse corporativista ad avere un regime democratico che gli assicuri un budget più elevato.
Di contro, in Egitto, il regime aveva una base più larga. L’esercito è associato non solo al potere, ma anche alla gestione dell’economia e ai suoi benefici.
La domanda democratica si urterà, dunque, dovunque nel mondo arabo sul radicamento sociale delle reti di clientelismo di ogni regime.
Le elezioni, i cambiamenti politici, non saranno sufficienti.
Si dovrà produrre giustizia sociale e prospettive di avvenire.
L’opinione europea interpreta le rivolte popolari in Africa del Nord e in Egitto attraverso una griglia vecchia di più di trenta anni: la Rivoluzione Islamica dell’Iran.
Ci si attende, quindi, di vedere i movimenti islamici, all’occorrenza i Fratelli Musulmani e i loro equivalenti locali, pronti a prendere il potere.
Ma la discrezione e il pragmatismo dei Fratelli musulmani stupiscono e inquietano: dove sono finiti gli islamici?
I Fratelli musulmani sono molto cambiati, non sono più gli alfieri di un altro modello economico e sociale. Sono divenuti conservatori riguardo ai costumi e liberali riguardo all’economia.
Ed è, forse, l’evoluzione più rimarchevole.
Negli anni 1980, gli islamici – ma soprattutto gli sciiti – millantavano di difendere gli interessi della classe oppressa e vantavano una statalizzazione dell’economia e una redistribuzione della ricchezza. Nell’autunno del 1997, i Fratelli musulmani egiziani approvarono la controriforma agraria condotta da Hosni Mubarak, affermando che “così si ritornava alla legge di Dio”. Cosicché gli islamici non sono più presenti nei movimenti sociali che agitano il delta del Nilo, dove si osserva, ormai, un ritorno alla sinistra, come dire ai militanti sindacalisti. Ma l’imborghesimento degli islamici è un asso per la democrazia: non poter giocare la carta della rivoluzione islamica, li spinge alla conciliazione, al compromesso e all’alleanza con altre forze politiche.
L’interrogativo, oggi, non è più sapere se le dittature sono il migliore bastione contro l’integralismo o no.
Gli islamici sono divenuti attori del gioco democratico. Peseranno, sicuramente, molto nel controllo dei costumi, ma, non potendo fare leva su un apparato di repressione, come in Iran, o su una polizia religiosa, come in Arabia Saudita, dovranno venire a patti con una domanda di libertà, che non si ferma soltanto al diritto di eleggere un Parlamento. In breve, o gli islamici si identificheranno con la corrente salafita e conservatrice tradizionale, perdendo così la loro pretesa di concepire l‘islam nella modernità, o dovranno fare lo sforzo di rivedere la loro concezione dei rapporti tra religione e politica.
Ma se rivolgiamo lo sguardo alle masse che hanno lanciato i movimenti, è evidente che si tratta di generazioni post-islamiche. I grandi movimenti rivoluzionari degli anni 1970 e 1980, sono, per loro, storia antica, quella dei loro genitori. Questi giovani non si interessano alla ideologia; gli slogans sono tutti pragmatici e concreti: dégage, erhal.
Non fanno appello all’islam come facevano i loro predecessori, in Algeria, alla fine degli anni 1980.
Esprimono, innanzitutto, un rigetto delle dittature corrotte e una richiesta di democrazia, che, evidentemente, non significa che i manifestanti siano laici, ma semplicemente che non vedono nell’islam una ideologia politica in grado di creare un ordine migliore.
Sono in uno spazio politico secolare.
E, parimenti, sono nazionalisti, senza magnificare il nazionalismo.
Gli Stati Uniti, l’Israele o, in Tunisia, la Francia non sono additati come causa delle disgrazie del mondo arabo.
Lo stesso panarabismo è scomparso come slogan, nonostante gli eventi mostrino che vi è una realtà politica del mondo arabo.
Queste nuove generazioni sono pluraliste, forse, perché sono anche più individualiste. Studi sociologici mostrano che queste generazioni sono più istruite delle precedenti, hanno meno figli, ma, allo stesso tempo, sono disoccupate, o meglio, vivono nel declassamento sociale. Sono più informate e hanno, spesso, accesso ai mezzi di comunicazione moderni, che permettono di connettersi in rete da individuo a individuo, senza passare per la mediazione dei partiti politici, in ogni caso vietati.
I giovani sanno che i regimi islamici sono divenuti dittature: non sono affascinati né dall’Iran, né dall’Arabia Saudita. Quelli che manifestano in Egitto sono gli stessi che manifestano in Iran contro Mahmud Ahmadinejad. Per ragioni di propaganda, il regime di Tehran finge di sostenere il movimento, in Egitto, ma è un regolamento di conti con Mubarak. Sono, forse, credenti, ma separano la religione dalla politica: in questo senso, i movimenti sono secolari.
La pratica religiosa si è individualizzata.
I valori cui si richiamano sono universali.
Manifestano, innanzitutto, per la dignità, per il rispetto: questo slogan è partito dall’Algeria, alla fine degli anni 1990.
Ma la democrazia che si chiede, oggi, non è più un prodotto di importazione, come la promozione di democrazia, fatta dall’amministrazione Bush, nel 2003, che non era accettabile, poiché non aveva alcuna legittimità politica ed era associata a un intervento militare. Paradossalmente, l’indebolimento degli Stati Uniti in Medio-Oriente e il pragmatismo dell’amministrazione di Barak Obama, oggi, permettono a una domanda autoctona di democrazia di esprimersi in tutta legittimità.
Ciò detto, una rivolta non fa una rivoluzione.
Il movimento non ha leaders, né partiti politici, né assetto, coerentemente alla sua natura, ma pone il problema della istituzionalizzazione della democrazia. È poco probabile che la scomparsa di una dittatura porti automaticamente all’insediamento di una democrazia liberale.
Iraq docet!
Vi è in ogni paese arabo, come altrove, un paesaggio politico complesso che è stato occultato dalla dittatura. Ora, infatti, a parte gli islamici e, molto sovente, i sindacati, perfino indeboliti, non vi è gran cosa. Noi chiamiamo islamici quelli che vedono nell’islam una ideologia politica in grado di risolvere tutti i problemi della società. I più radicali hanno lasciato la scena per la Jihad internazionale e non sono più là: sono nel deserto con al-Qaida, nel Maghreb islamico (AQM), in Pakistan o nella periferia di Londra. Non hanno base sociale o politica. La Jihad globale è completamente scollegata dai movimenti sociali e dalle lotte nazionali. Cerca di presentare il movimento come l’avanguardia di tutta la comunità musulmana contro l’oppressione occidentale, ma non è così: al-Qaida recluta giovani jihadisti deterritorializzati, senza base sociale, che hanno tagliato totalmente con il loro entourage e con la loro famiglia.
Al-Qaida resta chiusa nella sua logica di propaganda.
Non si è mai preoccupata di costruire una struttura politica in seno alle società musulmane. Poiché l’azione di al-Qaida si svolge soprattutto in Occidente o mira a bersagli indicati come occidentali, il suo impatto nelle società reali è nullo.
Un’altra illusione ottica è collegare la reislamizzazione massiva che sembra abbiano conosciuto le società del mondo arabo, nel corso degli ultimi trenta anni, con una radicalizzazione politica.
Se le società arabe sono, più visibilmente, islamiche rispetto a trenta o quaranta anni fa, come spiegare l’assenza di slogans islamici nelle manifestazioni attuali?
È il paradosso della islamizzazione: ha largamente spoliticizzato l’islam.
La reislamizzazione sociale e culturale (l’obbligo del velo, il numero delle moschee, la moltiplicazione dei predicatori, dei canali televisivi religiosi) si è fatta al di fuori dei militanti islamici, ha anche aperto un “mercato religioso”, di cui più nessuno ha il monopolio. In breve, gli islamici hanno perduto il monopolio della parola religiosa nello spazio pubblico, che avevano negli anni 1980.
Da una parte, le dittature hanno sovente, ma non in Tunisia, favorito un islam conservatore, visibile ma poco politico, ossessionato dal controllo dei costumi. Per quanto paradossale possa apparire, la reislamizzazione ha trascinato una banalizzazione e una spoliticizzazione del marcatore religioso: quando tutto è religioso, più niente è religioso.
Un altro errore è concepire le dittature come campioni del secolarismo contro il fanatismo religioso. I regimi autoritari non hanno secolarizzato le società, al contrario, eccezione fatta per la Tunisia , si sono adattati a una reislamizzazione di tipo neofondamentalista.
Il grado di libertà varia fortemente da uno Stato all’altro del Mare Nostrum.
Nessuno è in grado di prevedere l’esito delle rivolte, applaudite da Bruxelles, Washington e Tehran.
Se queste rivolte appaiono post-islamiche – cosa che converrà confermare ulteriormente – non appaiono né post-storiche né post-nazionali, ma sociali e portatrici di una critica politica.
Diversi Paesi del Sud dell’Europa contano, egualmente, una gioventù che conosce disoccupazione ed esclusione, disgustata dalla indegnità dei suoi leaders.
È una ragione, secondo i punti di vista, per assumersi la responsabilità o occultare questi elementi propri alle rivolte arabe.
Che fare?
Alzare il volume della musica per coprire il rumore esterno o fare capolino dalla finestra e, perfino, scendere in strada e confrontare le idee?
Anche se la Grecia e, perfino, l’Italia conoscono delle contestazioni, la situazione resta relativamente sterile in questi Paesi.
Le contestazioni in Grecia e in Italia hanno lasciato apparire una grande frustrazione, una totale opposizione ai leaders, ma anche una mancanza di convinzioni e di proposte, al contrario dei manifestanti arabi, che mirano chiaramente a una rimozione dei propri leaders e una liberalizzazione dei regimi, capaci di marciare su un quartier generale reale o simbolico, al prezzo della vita.
Daniela Zini
Copyright © 30 marzo 2011
Copyright © 30 marzo 2011