“…né
cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione
non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco
Polo.”
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux
Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò
sarebbe accaduto.
La mondializzazione ha
modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni
tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni
tra le persone, le culture.
Ma se le genti si
incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro,
alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili
rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità
affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È
identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia
senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi
legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche
a Marco Polo.
Così è nata l’idea di
questo viaggio.
XVI. GENOVA
la Superba affonda in un mare di intrighi
Il ventuno maggio
prossimo, la Polizia di Stato compirà centosessanta anni di attività. In questo
lungo lasso di tempo, migliaia di donne e di uomini hanno sacrificato la propria vita
nell'interesse della collettività.
“Piacciavi richiamare
alla memoria quel tempo in cui felicissimi voi eravate tra tutti i popoli dell’Italia.
Ero allora fanciullo, e le cose vedute, quasi che sognate le avessi,
confusamente rammento: ma viva sempre al pensiero ho la memoria dell’incantevole
aspetto che di sé porgeva a Levante e a Ponente la vostra Riviera bella così da parere meglio celeste che non
terrena dimora, simile a quella che la fantasia de’ poeti dette dei campi Elisi
stanza a’ beati, fra colli ameni, e deliziosi sentieri aperti nel seno delle
verdeggianti convalli. Stupende a riguardarsi nell’alto torreggiavan le moli di
superbi palagi: sorgevano a piè delle rupi le mermoree magioni de’ vostri
cittadini splendide al pari delle più splendide reggie, e a qual si voglia
città nobilissima invidiabil decoro: mentre vincitrice della natura l’arte
vestiva gli sterili gioghi de’ vostri monti di cedri, di viti, di olivi,
spiegando all’occhio la pompa di una perpetua verdura. Aperti con ammirando
artificio fra le rupi e gli scogli fermavan lo sguardo del navigante vaghissimi
spechi, che sorretti da travi dorate echeggiavano al suono de’ flutti, i quali
spumeggiando si rompevano in sull’ingresso, e dentro ne spruzzavano le muscose
pareti: ed ammirato il nocchiero alla novità dello spettacolo lasciavasi cadere
il remo dalle mani, e fermava per meraviglia la barca in mezzo il corso. Che se
per terra cammin facendo alcun traversasse le popolose vostre contrade, di
quale stupore non lo colpivano le sontuosissime vesti, e la maestosa persona
dei vostri cittadini, e delle vostre matrone, o il vedere nel mezzo de’ boschi
e delle remote campagne lusso e delizie da disgranare le urbane magnificenze?
Che se dentro le mura della vostra città finalmente ponesse il piede, in una
città di re, siccome di Roma fu scritto, ed in un tempo sacro alla felicità e
all’allegrezza d’essere entrato s’avvisava.”
Francesco Petrarca
di
Daniela Zini
a mio Padre
In principio era la violenza.
Il Vecchio Testamento si apre con un
fratricidio: Caino uccide Abele.
Il Nuovo Testamento si chiude con un
martirio e una esecuzione, quella di Gesù Cristo.
La violenza si manifesta in ogni dove,
in natura. Tra le specie, fino dalla creazione, la lotta è incessante e, anche
all’interno di ciascuna di esse, vi sono scontri continui. Il genere umano non
si sottrae alla regola, ma, nel corso dei secoli, assumendo comportamenti
nuovi, meno istintivi, si trasforma. Se, dal suo antenato di Cro-Magnon l’uomo
non è molto cambiato geneticamente, da un punto di vista culturale l’evoluzione
è stata immensa e il repertorio dei comportamenti si è arricchito in misura
considerevole.
L’uomo moderno, se da una parte,
respinge la violenza, dall’altra, se ne lascia come affascinare: la letteratura
sadica ha, ancora, i suoi adepti.
La violenza, dunque, non è nata con
questo secolo. L’uomo è un primate aggressivo, come ha scritto l’etologo Konrad
Lorenz. Si batte, senza tregua, per difendere il suo spazio, la sua condizione,
la sua egemonia. Rispetto a quelle animali, le società umane sono stratificate,
gerarchizzate e lo spazio in cui si muovono è, rigorosamente, segmentato, contrassegnato.
All’interno di esso, ogni individuo dispone, poi, di un ambito fisso,
riconosciuto e ha una posizione sociale precisa, codificata. La famiglia ha la
sua casa, il villaggio le sue terre, la banda il suo quartiere, la minoranza
etnica il suo ghetto, lo Stato il suo territorio. Talune gerarchie sono
classiche e si ritrovano in tutte le società umane; è il caso, a esempio, dei
rapporti fondati sul sesso e sull’età. Gli uomini adulti dominano le donne
adulte; gli adulti, in genere, dominano i bambini; i bambini più grandi
dominano i più piccoli. Di volta in volta, secondo le occasioni e le
circostanze, ognuno è in posizione di dominante o di suddito. Se le regole
annesse vengono violate, tuttavia, non sempre, si ha uno scontro violento. Con
il linguaggio, i comportamenti si diversificano, la ragione diventa emergente e
l’astuzia finisce per prevalere.
La violenza scompare con l’avvento del
dialogo. La violenza arretra solo quando lo Stato di diritto sostituisce quello
di natura. Fino al secolo XVIII, la tortura è pratica corrente in tutti i Paesi
occidentali e le esecuzioni capitali sono precedute da orribili supplizi. La
tortura viene considerata uno strumento legittimo per estorcere la confessione;
rappresenta l’imporsi della forza, un metodo di governo. Con l’inquisizione,
poi, si fa istituzione: gli eretici vengono bruciati, annegati, fatti a pezzi
sulla ruota. Gli sforzi per impedire il massacro rimangono a lungo vani, tanta
è l’intolleranza e irrefrenabile il bisogno morale di combattere il Maligno; i
corpi dei peccatori vengono perseguitati, umiliati, mutilati anche dopo la
morte...
Queste pratiche barbare scompaiono solo
nel corso dei Lumi, infine, dissolte dal vento della tolleranza e della
ragione, per ricomparire, in modo sporadico, quando lo Stato di natura viene
reintegrato nei suoi diritti, in occasione di guerre o disordini.
In nome di idee e di ideologie, milioni
di individui continuano a morire, imprigionati, schiacciati, martirizzati. Le
tecniche sono cambiate. La panoplia primitiva è ancora usata, ma non è più la
sola, dopo l’avvento della elettricità, della farmacologia, della psicologia.
Solo le intenzioni non sono mutate: si tratta, sempre, di ridurre l’opposizione,
di esorcizzare il MALE.
L’Italia non ha una lunga tradizione
democratica. Prima dell’unità nazionale, raggiunta, nel 1871, a prezzo di dure
lotte, il Paese aveva conosciuto secoli di anarchia sanguinosa. Dopo il 1871 la
sua democrazia continua a essere tale solo sulla carta; la minoranza liberale
al potere non è rappresentativa di una popolazione composta di contadini, nella
grande maggioranza, analfabeti. Immediatamente dopo la prima guerra mondiale,
la confusione politica raggiunge il parossismo e apre la strada al fascismo. L’Italia
diviene, così, il primo dei Paesi occidentali a sperimentare gli effetti di una
svolta totalitaria; a partire dal 1923, il potere è tutto nelle mani di un
dittatore che rimarrà per più di venti anni alla testa del Paese.
I casi “individuali” di disobbedienza
restarono inefficaci. È impossibile sapere quanto più efficace sarebbe stata la
disobbedienza se fosse stata generalizzata. Appare, tuttavia, probabile che, se
la cooperazione non vi fosse stata, o almeno non su scala così ampia, le
complesse operazioni di abuso di massa avrebbero posto agli amministratori
problemi gestionali, tecnici e finanziari di ben altre dimensioni.
Nel suo studio sulla criminalità
italiana, De la criminalité en France et en Italie, scritto
nel 1884, Albert Bournet fa una constatazione che, con pochi aggiustamenti,
potrebbe essere applicata anche al momento presente.
“Un Paese non riconquista la sua unità nazionale come ha
fatto l’Italia, non riprende un serio posto sulla carta d’Europa, dove figurava
come semplice espressione geografica, senza che gli rimanga molto da fare dal
punto di vista della sua trasformazione morale. Non si può chiedere a
popolazioni mal governate per secoli l’ordine e il rispetto della legge, che
sono il risultato di una lunga abitudine alla pace e alla regolarità.”
1. Genova, la
tentacolare Repubblica Marinara che strappò alla Serenissima il controllo dell’Oriente
“Dal molo e dal porto di questa città di Genova possono uscire
insieme in mare ottanta o cento navi, con dieci o dodici carrache, per andare a
mercanteggiare o a conquistare terre fino in Grecia, in Turchia, in Terrasanta
ed ovunque per il mondo. E in passato, come ho appreso dalle parole e dalle
informazioni di alcuni mercanti e di altri genovesi degni di fede e come ho
letto negli annali delle loro gesta, questi genovesi con potenti flotte seppero
prendere Gerusalemme, Antiochia, Negroponte, Metellino, Modone con Candia e
Chio, che ancora occupano, con molte altre isole e paesi della Grecia e dell’Oltremare
e più volte assediarono Venezia, ridotta alla ragione. In conclusione l’abilità
nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i
genovesi sono detti signori del mare.”
Porpora,
indaco, sete raffinate, broccati d’oro, armi intarsiate, essenze e droghe. Le
galee liguri caricano ad Antiochia, merci preziose che verranno, poi, scambiate
e rivendute con incalcolabili profitti per Genova. Il vasto impero coloniale
ligure era iniziato da questa città turca, opulenta e commerciale, espugnata da
Boemondo di Taranto, dopo un difficile assedio, durato dall’ottobre del 1097 al
giugno del 1098. Boemondo l’aveva chiesta, come ricompensa, ai crociati,
minacciando di abbandonarli nelle altre imprese.
Ma, quando, il 3 giugno, la città desiderata
cadeva, veniva assegnata, provvisoriamente, sia ai normanni sia ai provenzali.
Nel febbraio successivo, rompendo i patti, Boemondo tornava e, con l’intervento
della marina ligure, occupava Antiochia. Compensata con larghe concessioni,
libertà di accesso a strade e approdi della città, Genova vi organizzava i suoi
primi grandiosi traffici coloniali con i proventi dei quali poteva prepararsi a
più grandi conquiste.
Dopo aver
abbandonato le caverne sui monti, abitate per secoli, gli antichi liguri erano
scesi verso il mare, costruendo pianure degradanti, dove erano sorti i centri
abitati di Genova e Savona. Sopraffatti dalle popolazioni migratorie dell’Asia,
del Tirreno e dai fenici, i liguri avevano appreso l’uso di strumenti di ferro
e di bronzo e anche una forma di pirateria mascherata da commercio. Più tardi
erano stati assoldati, per le loro conquiste, dai cartaginesi, che li avevano
definiti:
“Asciutti, robusti,
muscolosi, bravi navigatori e soldati.”
Anche le
donne, sembra, avessero la stessa “forza delle fiere” degli
uomini. Venuti a conoscenza di questa buona razza, i romani avevano cercato di
distoglierli dagli accordi presi con i cartaginesi, che avevano giurato sugli
altari guerra eterna a Roma. Quando il giovane Magone, fratello di Annibale, era
sbarcato e aveva saccheggiato la riviera di Ponente, distruggendo Genova,
Publio Scipione era andato a fronteggiarlo, lo aveva vinto e, in due soli anni,
ottomila romani avevano riedificato la città, guadagnandosi l’ammirazione dei
liguri che erano divenuti i loro “soldati di acciaio”, tracciando importantissime
strade ancora oggi esistenti, e contribuendo a molte vittorie romane,
ricompensate spesso con altissime cariche.
Genova diveniva,
così, il più importante centro marittimo-commerciale della Liguria romana.
Dissoltosi
l’impero, i liguri conoscono invasioni barbare, gote, longobarde, franche e
greche. Nella sua lunga storia Genova conosce solo brevi periodi di benessere,
cancellati da un lungo secolo di aggressioni e occupazioni normanne sulla
riviera di Levante e saracene su quella di Ponente. Saccheggi e difese
disperate addestrano i liguri all’attacco e alla difesa, preparandoli a un
avvenire coloniale incredibilmente vasto. L’ultimo saccheggio saraceno, subito
da Genova, spingerà, arditamente, i suoi navigli fino a Tunisi e in Sicilia non
solo per vendetta, ma in cerca di mezzi per ricostruirsi. Applicati gli stessi
sistemi subiti, i liguri imporranno grevi gabelle e, facendosi pagare forti
somme, potranno erigere intorno alla loro città solide mura, per difenderla e
potenziare anche la marina pronta, ormai, a dare battaglia a re saraceni, a
sultani e ad africani.
Nel 1034,
Genova occupa Bona e, nel 1087, spronata da papa Vittore III, sbarca le sue
truppe in Africa, invadendo, insieme ai pisani, molti territori e costringendo
il re di Tripoli e quello di Tunisi a pagare forti tributi alla Santa Sede. Per
evitare altre guerre, quei sovrani sborseranno ingenti somme, concedendo anche
larghi privilegi doganali.
Nell’anno 1095,
papa Urbano II bandisce la prima guerra contro i turchi e chiede assistenza
alla marina genovese. Intravedendo nella nobile impresa anche l’utile
commerciale, i liguri armano dodici navi e, nel mese di luglio del 1097,
volgono le vele verso Oriente. La parte crociata più fanatica trova il martirio
tra genti barbare e non tocca neppure la Terra Santa. Il resto
della spedizione si divide in due parti. Quella inoltratasi in Armenia,
sfuggita ai turchi, passa l’Eufrate e conquista Odessa. Il capo crociato
Baldovino, conte di Fiandra, non andrà oltre, facendosi proclamare re. La parte
più numerosa dell’esercito giunge in Siria, ma non riesce a occupare la ricca
Antiochia. Sarà un assedio fino alla fame, felicemente risolto dall’arrivo di
altre galee liguri con vettovaglie e macchine da guerra. Strenua è la difesa
turca, ma un traditore apre le porte ai genovesi, che entrano in città, l’ultimo
di maggio del 1098, “saccheggiandola in modo orrendo”.
Nel 1103,
Genova sbarca uomini da quaranta galee, occupa Accarona, Gibelletto, Tortosa,
Tolemaide e San Giovanni d’Acri.
Nel 1108, ottanta
suoi navigli si presentano nel porto di Tripoli.
La
resistenza è tenace ma, fuggito il sultano, la città si arrende, il 13 luglio.
Un anno
dopo, di fronte a una squadra di ventidue galee genovesi, anche Beirut (allora
Barutu) capitola.
Verranno
imposti ai principi locali obbedienza, privilegi esclusivi, tributi
considerevoli, possedimenti su quindici città e altre contrade di Gerusalemme.
Tra il 1116
e il 1120, la Spagna,
che non possiede una grande flotta armata, chiede l’aiuto della marina
genovese. I saraceni, con naviglio forte e bene organizzato, si sono
impadroniti delle Isole Baleari, di Minorca e di Almeria (città del regno di
Granada) e, partendo da queste basi, infestano il Mediterraneo e i mari
confinanti con le coste iberiche, devastando e occupando villaggi e città.
La Spagna non riesce
più a contrastare il flagello saraceno e stringe con Genova un trattato militare,
che permetterà a quelle popolazioni costiere di vivere più tranquille e
protette.
Costruita
dai più abili operai dell’epoca, comandata da esperti ufficiali, la grande
flotta genovese corre i mari da sparviera, collegando le colonie alla patria, proteggendo
se stessa e i suoi alleati, concludendo, in tredici anni, instancabile e
ardita, nove spedizioni in Siria con mutevoli vantaggi coloniali e mercantili.
Nessuno può ignorare, ormai, la sua potenza in Asia, Africa, Oriente. Una
potenza seguita, con esasperata ostilità, da Pisa e da Venezia e che porterà i
tre Comuni marittimi d’Italia a conflitti disastrosi e secolari. Il Comune
genovese era sorto, nel secolo XI, poco dopo quello di Pisa, condividendone la
supremazia sul Tirreno, per impedirvi l’affermarsi dei musulmani. L’antagonismo
tra le due Repubbliche diviene esasperato quando le crociate permettono a
Genova di conquistarsi, nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero, scali e
territori. Nella divisione delle colonie e dei bottini, Genova e Pisa si erano,
sempre, disputate, ma la causa che provocherà il primo vero conflitto sarà l’ostinato
tentativo di Genova nel volersi impossessare della Corsica.
I pisani l’avevano
occupata, dietro istigazione di papa Gregorio VII, che voleva sottrarla ai
franchi e papa Urbano II aveva, poi, donato l’isola alla Chiesa pisana, con
grande rammarico di Genova, essendo la Corsica un’importante base di controllo navale e
un punto obbligato di passaggio.
Dopo un
anno di continue provocazioni senza risultati, i genovesi avevano deciso di
affrettare i tempi. Scrivono le Cronache:
“Allestirono un forte
esercito di ventiduemila guerrieri tra cavalleria e fanteria, vestiti di
corazze di ferro bianco come la neve, ottanta galere, trentaquattro gatte
(bastimenti con castelli coperti per nascondere i soldati) ventotto golabi
(piccole navi a due alberi) e quattro grandi navi cariche di macchine e di
tutti gli altri strumenti necessari alla guerra e andarono al porto pisano.”
Era il 14
settembre 1120.
Colti di
sorpresa e sbigottiti dinanzi a tanto spiegamento di forze, ai pisani non resta
che chiedere la pace e accettare tutte le condizioni che a Genova piace loro
imporre, compreso il divieto di navigazione nel Mediterraneo. Pisa, aiutata,
nascostamente, dalla Repubblica Veneta, resisterà, tuttavia, ancora un secolo e
mezzo, dando alla sua nemica molto filo da torcere tra ribellioni sanguinose,
ingenti danni, aggressioni e rapine navali reciproche. Solo, nel 1284, Genova
riuscirà a distruggerla, per sempre, nella cruenta battaglia della Meloria, un’isoletta
del Tirreno.
La guerra
con Pisa non distrae la marina ligure dalla caccia alle galee saracene, spesso,
cariche di grandi quantità di oro. A Bugia (Bugea), capitale dei mori, ne catturano
una.
“L’ingente bottino”,
scrive il cronista,
“spartito tra le
dodici galee, darà ad ognuna l’equivalente di una somma favolosa.”
Queste
aggressioni inaspriscono le guerre con i saraceni e Genova decide di
distruggere Minorca, il loro covo. È il 1146 e la Repubblica arma ventidue
galee, sei golette fornite di macchine belliche e castelli di legno per
abbattere le mura ed espugnare la città.
Gettate le
ancore nel porto, solo pochi uomini restano a guardia delle navi. Quelli che
sbarcano organizzano scorribande devastatrici per tutta l’isola. Un saccheggio
che dura quattro giorni. Carri pieni di ricchezze vengono trascinati alle navi,
insieme a giovani prigionieri, da vendere come schiavi durante il ritorno. Al
reimbarco, tuttavia, una spiacevole sorpresa attende i genovesi: trecento
cavalieri mori, affiancati da molti soldati. La battaglia è dura, ma i liguri
non perdono la testa e riescono a caricare il bottino sulle navi con poca
perdita di uomini.
Levate le
ancore, raggiungono e saccheggiano Polenza, la capitale di Minorca, poi,
volgono le vele verso Almeria, nel cui porto trovano molte navi cariche d’oro e
se ne impadroniscono. Alzate le torri di legno, conquistano anche la città, che
daranno, poi, in feudo, per trenta anni, a un certo Otto de Bonvillano, con l’obbligo
di consegnare metà degli introiti commerciali al Comune di Genova.
Potente e
insaziabile, la Repubblica
genovese possiede ormai un impero vastissimo e accetta, con molte riserve,
anche le proposte papali di partecipare a nuove crociate contro i saraceni. Con
una parte di questi ha, già, fatto vantaggiosi accordi e non desidera romperli
né esporre le proprie colonie a rappresaglie. Non rinuncia, tuttavia, a trarre
utili dalle crociate e, senza correre rischi, fa di Genova il centro di
partenza, ordinando ai propri consoli di incitare le popolazioni e i
principi della cristianità a partecipare alla liberazione di Gerusalemme ogni
qualvolta cada, nuovamente, in mani saracene.
Divisi i
regni conquistati in signorie feudali, la Repubblica ne evita spese e noie, concedendoli a
facoltose famiglie liguri con l’obbligo di incrementarne i commerci e versare a
Genova ingenti somme annuali. La contea di Tripoli era divenuta, così, da
diverse generazioni, signoria degli embrici, il cui primo componente,
Guglielmo, grande condottiero soprannominato “Testa di Maglio”, aveva
capitanato, nel 1099, una celebre spedizione navale in soccorso della prima
crociata. Ma Guglielmo era divenuto famoso, soprattutto, per una sua invenzione,
usata per la presa di Laodicea. Vi si era fermato per liberare Boemondo di
Taranto, caduto prigioniero dei turchi, e, trovata una forte resistenza, aveva
avuto un’idea geniale, che aveva risolto presto la situazione. Fatta costruire
una grandissima torre di legno facilmente divisibile e trasportabile, la aveva
fatta disporre in modo che il nemico non potesse danneggiare il funzionamento e
aveva aspettato il grande attacco turco, che era avvenuto il 14 luglio 1099. Accostata
la torre alle mura di Laodicea, i genovesi avevano lanciato dall’alto di essa
dardi, saette e fuoco…
I turchi vi
avevano gettato contro fiaccole per incendiare l’incredibile congegno i cui
fianchi, tuttavia, erano stati fasciati di corame. Non riuscendo nell’intento,
i turchi avevano alzato una grossa antenna, alla quale avevano attaccato una
larga trave, che lanciavano, ripetutamente, come un ariete, contro la torre per
fracassarla. Prontissimi, i genovesi la avevano afferrata, ne avevano reciso le
corde e, fissandola come un ponte tra la torre e le mura, la avevano
attraversata, velocemente, invadendo e saccheggiando la città.
“Con il bottino
ricchissimo ed ingente”,
riportano
le Cronache,
“fu traslato a Genova,
in trionfo, anche il catino.”
Si credeva
che fosse smeraldo e che Gesù vi avesse mangiato l’agnello pasquale. È
conservato, ancora oggi, tra i tesori della bella Cattedrale di San Lorenzo, a
Genova.
L’eliminazione
della Repubblica pisana era stata deplorata da Venezia, che non aveva
dimenticato l’aggressione genovese di Costantinopoli. Dopo la quarta crociata,
Venezia aveva fondato nell’incantevole città del Bosforo, insieme ai francesi,
l’impero latino, minacciato, più volte, senza fortuna, anche dai greci i quali,
non possedendo una grande flotta, si erano, poi, intesi con Genova, giurandosi
a Nicea, il 13 marzo 1261, alleanza perpetua ai danni della Repubblica veneta.
Le promesse
greche ai liguri erano vantaggiosissime: “ampia libertà di commerci in tutte le terre e
porti dell’impero, abolizione di ogni dazio sia all’entrata sia all’uscita, un
palazzo, una loggia, una chiesa, un bagno, un forno e altrettante case per i
mercanti nelle città di Anea, Smirne, Adramitto, nelle isole di Scio e Lesbo, a
Costantinopoli stessa, a Salonicco, Cassandra, Creta e Negroponte, insieme al
diritto di tenere in ciascuna città un console con i più ampi poteri amministrativi,
giudiziari, civili e criminali”.
I genovesi
chiederanno anche il recupero di quanto avevano posseduto nel passato a
Costantinopoli, più l’esclusione dai porti di ogni Nazione nemica, la Chiesa di Santa Maria, le
logge che la circondavano e il castello-fortezza dei veneti. Vorranno anche la
città e il porto di Smirne, dieci galee, sei navi, doni annuali in danaro, palli
preziosi al Comune e al Duomo di San Lorenzo a Genova.
I loro
obblighi verso i greci?
L’appoggio
della flotta. Gliela faranno anche desiderare, giungendo quasi a cose fatte, ma
in tempo giusto per pretendere quanto era stato pattuito. Costantinopoli cade
nella notte del 25 luglio 1261, ma l’imperatore Balduino II, fuggito con i
veneziani a Negroponte, preparati i rinforzi, torna a dare battaglia agli
occupanti. Papa Urbano IV richiama, severamente, Genova all’ordine. La Repubblica rifiuta di
restituire quanto ha, già, preso e non intende, neppure, rinunciare al resto
promessole dai greci. Verrà interdetta con il divieto ai suoi sacerdoti di
celebrare la messa.
Per pronta
risposta, Martin Boccanegra arma la sua flotta, si porta a Costantinopoli e ne
prende possesso, assicurando sul trono il capo greco Michele VIII Paleologo,
che manterrà tutte le promesse. In città, intanto, i liguri danno la caccia
fino all’ultimo veneto, distruggendo il castello, il monastero, la chiesa.
In segno di
vittoria si porteranno, a Genova, le pietre per costruirvi il Palazzo di San
Giorgio. Gli sfarzi di Venezia saranno superati con il trasferire nell’arcipelago
varie famiglie principesche i cui rampolli, tra vizi, arroganza e soprusi,
daranno molti guai a Genova, rovinandone i rapporti con l’aristocrazia locale.
La
bruciante disfatta di Costantinopoli toglie a Venezia il predominio in Oriente
e non potrà essere dimenticata. Per tenere impegnata Genova, la Serenissima ne
aiuta, nascostamente, i nemici, perseguitandola attraverso questi nelle colonie
e sui mari più lontani.
Come
risposta, la Superba
taglia il naso o cava gli occhi ai prigionieri veneti, non risparmiando
umiliazioni alla più antica Repubblica. Le due rivali tenteranno di
distruggersi a vicenda, per un secolo circa, attraverso tre guerre sanguinose
dagli esiti incerti. Genova non riuscirà, tuttavia, a mantenere, per sempre, il
primato. I feroci conflitti tra le grandi famiglie Doria, Fieschi, Spinola e
Grimaldi, le lotte continue tra le altre numerose e potenti casate bramose di
superarsi nei fasti e nel predominio delle cose del governo dividono la
popolazione in irriducibili violente fazioni. Rioni e quartieri ne sono
insanguinati, castelli e palazzi distrutti, la giustizia e l’autorità dello
Stato indebolite dai ricatti e dalle intimidazioni.
La
dissoluzione dei valori mina la grande Repubblica Marinara proprio in patria.
Venezia lo sa e non si lascia sfuggire l’occasione battendola, definitivamente,
a Chioggia, nel 1378, dopo una violentissima battaglia. L’imperialismo marinaro
veneto sopravvivrà a quello ligure, per poco più di un secolo, distrutto, in
patria, dai lussi e dalle sregolatezze, in Oriente, dall’occupazione turca di
Costantinopoli, avvenuta nel 1453, e anche dalla scoperta dell’America (1492).
Con le
colonie saccheggiate dai corsari catalani, sempre sconvolta dalle fazioni e con
il territorio insidiato e occupato in parte dai fiorentini, Genova resterà
sottomessa ai Visconti e agli Sforza di Milano, dal 1396 al 1409, senza
riuscire a porre fine alle sanguinose rivolte interne.
Nel 1402,
Tamerlano assale e distrugge, all’improvviso, l’opulenta colonia ligure di Tana
e neppure Caffa sfugge al saccheggio.
Morto poco
dopo il grande conquistatore, mongoli e tartari se ne dividono l’impero,
ignorando ogni convenzione stipulata dai genovesi, ai quali occuperanno e
saccheggeranno le più ricche colonie, strenuamente e inutilmente difese dagli
stessi coloni, non più protetti da una patria temuta e potente. Genova
colleziona sconfitte, chiede la protezione del re di Francia, poi, il grande
ammiraglio Andrea Doria, con l’aiuto di Carlo V, riesce a restaurare, nel 1528,
una Repubblica indipendente, che spagnoli e sabaudi tenteranno, in tre riprese,
di conquistare.
Nel 1684,
Luigi XIV re di Francia, ordina su Genova un disastroso bombardamento navale.
Nel 1746,
gli austriaci invadono la città, ma sono cacciati, a furor di popolo, dopo soli
tre mesi. Ormai, al tramonto, nel 1768, la Repubblica genovese
cede la sua ultima colonia ribelle, la Corsica, alla Francia. Occupata dalle truppe
napoleoniche, nel 1796, Bonaparte la annette all’impero francese, il 4 giugno
1805. Dieci anni più tardi, unita al Regno di Sardegna, ne diventa la seconda
città. Genova non è, ormai, più una Repubblica indipendente e diverrà soltanto
una Città del Regno d’Italia, costituitosi nel 1861.
2.
Genova 2012: la
memoria indignata
“Il faut avoir un haut sentiment d’impunité pour
se livrer à des actes indignes d’un Etat de droit.”
Eric Fottorino, ex-directeur du Monde, novembre 2008
Dopo Venezia (1987) e Napoli (1994),
il G8, il Forum dei governi degli
otto Paesi più industrializzati del mondo (Giappone, Gran Bretagna, Stati
Uniti, Francia, Italia, Canada, Germania, Russia), torna in Italia, a Genova. A
gestire il Summit è il governo
Berlusconi II, insediatosi l’11 giugno 2001.
Per l’Italia, per il nuovo governo,
per il capo della polizia, Giovanni De Gennaro, per il sindaco di Genova,
Giuseppe Pericu, e per il prefetto di Genova, Antonio Di Giovine, è un
appuntamento importante, un’occasione di prestigio.
“È nostra intenzione far sì che l’effetto G8 abbia una eco
prolungata nel tempo e che il patrimonio culturale e artistico della città, che
in quell’occasione verrà fatto conoscere su scala internazionale, possa
continuare ad essere apprezzato sempre di più e sempre meglio.”
Tre giorni, dal 20 al 22 luglio,
durante i quali i riflettori italiani e internazionali saranno puntati su
quell’incontro e in cui, invece, si verificherà, secondo Amnesty International, “la più grave
sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”.
Ne scoppierà uno scandalo politico e
mediatico e un lungo processo.
L’uccisione di Carlo Giuliani, 23
anni [http://www.ansa.it/web/notizie/collection/rubriche_speciali/07/10/visualizza_new.html_787800496.html], il 20 luglio, e l’irruzione della
polizia nel complesso scolastico Diaz-Pertini, dove si trova il centro di
convergenza dei media alternativi, poco prima della mezzanotte del 21 luglio, sono gli episodi più dolorosi. Organizzata come un luogo di riposo e di
riunione per una parte dei manifestanti stranieri, la scuola diverrà la scena
di “un’operazione di
macelleria messicana”.
Il verbale
della polizia parlerà di “perquisizione”, perché sospetta la presenza di black bloc all’interno dell’edificio.
La mattina del 22 luglio, la
portavoce della questura di Genova, in conferenza stampa, diramerà il
seguente comunicato:
“Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della
polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso,
previa informazione all’autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione
della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano
bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz
sono stati trovati 92 giovani [di fatto, erano 93: 92, all’interno della scuola
Diaz-Pertini, più 1, Mark Covell, 33 anni,
inglese, giornalista di Indymedia.uk,
davanti al cancello della stessa scuola, ndr, http://www.youtube.com/watch?v=4Mo2tm6IpLY&feature=fvwrel,
http://www.youtube.com/watch?v=D8wgUhguFtY],
in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse
contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi,
oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in
questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei
giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per
associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e
detenzione di bottiglie molotov. All’atto dell’irruzione uno degli occupanti ha
colpito con un coltello un agente di polizia che non ha riportato lesioni
perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure
in ospedali cittadini.”
Il primo agosto, verrà istituito un
comitato parlamentare per un’indagine conoscitiva sui fatti accaduti a Genova,
in occasione dello svolgimento del vertice G8, composto da 36 membri [18
deputati e 18 senatori], i cui lavori scompariranno dalle cronache l’11
settembre, dopo il crollo delle Twin
Towers. Da quel momento in poi, dalla politica non verrà alcun contributo
di verità.
Le responsabilità di ciò che accadde,
quei giorni, nella scuola Diaz-Pertini [http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2010/05/18/visualizza_new.html_1793976725.html, http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/topnews/2012/04/27/Diaz-nominato-Pg-udienza-Cassazione_6786714.html]
e nella caserma
di Bolzaneto [http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/liguria/2010/03/05/visualizza_new.html_1730313231.html], non sono, mai, state chiarite. Senza le
inchieste dei pubblici ministeri di Genova, Enrico Zucca,
Francesco Cardona Albini (processo scuola Diaz-Pertini), Vittorio
Ranieri Miniati, Monica Parentini e Patrizia Petruzziello (processo caserma di
Bolzaneto), non
avremmo saputo quasi nulla e, ancora, sappiamo poco di quello che avvenne nelle
strade: chi ordinò la carica di via Tolemaide, che cambiò la giornata del 20
luglio, provocando gli scontri in cui fu ucciso Carlo Giuliani.
Undici anni
sono trascorsi dal G8 del 2001.
Vi è stato l’11
settembre, il terrorismo e l’antiterrorismo, le guerre di Oriente e le
manifestazioni per la pace, le folle pacifiche riunite, a Firenze, nel novembre
del 2002, il semi-fallimento mediatico delle manifestazioni contro il G8 di
Evian, le immagini delle torture della prigione irachena di Abu Ghraib, la
primavera araba.
Di fronte a
questa nuova iconografia della violenza quanto potrebbe pesare qualche bavure delle forze dell’ordine?
Tuttavia,
durante il Forum Social Européen a Saint-Denis,
nell’ottobre del 2003, come in molte altre occasioni, la morte di Carlo
Giuliani e la sorte di tutti coloro che tornarono da Genova, allungati su
barelle, sono state commemorate solennemente; attestando, una volta di più, la
sopravvivenza simbolica degli eventi dell’estate del 2001.
Io non cercherò
di ricostruire e analizzare i violenti episodi delle tre giornate di
manifestazioni di strada, l’irruzione notturna nella scuola Diaz-Pertini e le
violenze perpetrate dalle forze dell’ordine sui fermati, proseguite nella
caserma di Bolzaneto. Altre ricerche vi si sono, già, applicate, che hanno,
principalmente, mobilitato i metodi classici della sociologia dell’azione
collettiva per mostrare come la scalata alla violenza si spieghi con diverse
cause concomitanti.
Io eviterò
anche di sostituirmi alle procedure giudiziarie in corso all’ora attuale,
designando responsabilità individuali, anche se le prime sentenze non mancano
di suscitare interrogativi sulle possibilità della magistratura e la volontà
del governo a fare luce sui fatti.
Di certo, delle
centinaia di persone che transitarono a Bolzaneto e/o alle quali venne
notificata una detenzione provvisoria, nessuna è stata oggetto di azioni giudiziarie
da parte della magistratura, tanto i motivi del loro arresto apparvero,
nell’immediato, inconsistenti. Parimenti, la denuncia contro i 93 giovani
presenti nella scuola Diaz-Pertini, che li vedeva accusati di essere un
focolaio eversivo e di aver attaccato le forze dell’ordine, era
classificata, manifestamente, infondata e una procedura istruttoria era avviata
contro le forze dell’ordine per i fatti
di quella notte e per la falsificazione di prove.
In un certo
senso, le giornate genovesi del 2001 attendono ancora una analisi che, alla
maniera di quella di Serge Berstein (Le 6
février 1934, 1975) sulla sommossa parigina del 6 febbraio 1934 [http://www.youtube.com/watch?v=L9B6PEDkC1Q], renda conto
degli eventi, raccogliendo, analizzando e ricombinando, in modo coerente,
l’insieme delle fonti disponibili, compresi gli archivi amministrativi e
giudiziari: analisi che non potrà, verosimilmente, farsi che nel contesto calmo
di una futura retrospettiva storica. Il 6 febbraio 1934 è restato nel cuore di molti
francesi, a suggello di un sogno rimasto impossibile: il superamento delle
ideologie per il bene comune. Furono in molti a battersi per quell’idea di
bene, da una parte e dall’altra della barricata eretta dalla seconda guerra
mondiale: maquisards e collabos, uniti dall’amore per la loro
terra, alla ricerca confusa di una identica appartenenza. E, per almeno uno di
loro, il 6 febbraio fu il destino: Robert Brasillach, accusato di
collaborazionismo e condannato a morte, fu fucilato, al forte di Montrouge,
proprio il 6 febbraio del 1945, un altro martedì…
Mon pays m’a fait mal par
ses routes trop pleines,
Par ses enfants jetés sous les aigles de sang,
Par ses soldats tirant dans les déroutes vaines,
Et par le ciel de juin sous le soleil brûlant.
Mon pays m’a fait mal sous les sombres années,
Par les serments jurés que l’on ne tenait pas,
Par son harassement et par sa destinée,
Et par les lourds fardeaux qui pesaient sur ses pas.
Mon pays m’a fait mal par tous ses doubles jeux,
Par l’océan ouvert aux noirs vaisseaux chargés,
Par ses marins tombés pour apaiser les dieux,
Par ses liens tranchés d’un ciseau trop léger.
Mon pays m’a fait mal par tous ses exilés,
Par ses cachots trop pleins, par ses enfants perdus,
Ses prisonniers parqués entre les barbelés,
Et tous ceux qui sont loin et qu’on ne connaît plus.
Mon pays m’a fait mal par ses villes en flammes,
Mal sous ses ennemis et mal sous ses alliés,
Mon pays m’a fait mal dans son corps et son âme,
Sous les carcans de fer dont il était lié.
Mon pays m’a fait mal par toute sa jeunesse
Sous des draps étrangers jetée aux quatre vents,
Perdant son jeune sang pour tenir les promesses
Dont ceux qui les faisaient restaient insouciants,
Mon pays m’a fait mal par ses fosses creusées
Par ses fusils levés à l’épaule des frères,
Et par ceux qui comptaient dans leurs mains méprisées
Le prix des reniements au plus juste salaire.
Mon pays m’a fait mal par ses fables d’esclave,
Par ses bourreaux d’hier et par ceux d’aujourd’hui,
Mon pays m’a fait mal par le sang qui le lave,
Mon pays me fait mal. Quand sera-t-il guéri?
Robert Brasillach, 18 novembre 1944
Nel carcere di Fresnes, Brasillach
continuò a essere ciò che era: un poeta. E, il 4 febbraio 1945, quarantotto ore
prima di morire, rivolse un pensiero ai morti di quel febbraio che sembrava
così lontano, ai “suoi morti”:
Les derniers coups de feu
continuent de briller
Dans le jour indistinct où sont tombés les nôtres.
Sur onze ans de retard, serai-je donc des vôtres ?
Je pense à vous ce soir, ô morts de Février.
Molto tempo fa, ho appreso anche io a
pensare a quei morti.
Alcuni fatti, particolarmente gravi,
non possono e non debbono essere dimenticati.
Debbono essere di monito, perché non
si ripetano.
Ecco perché il G8 di Genova non deve
essere dimenticato.
Io non ero a Genova, nel 2001.
Io non ho una conoscenza dei fatti
come possono averla gli attori sociali che hanno vissuto la questione
“dall’interno” (le vittime e i loro parenti da un lato, gli indagati
dall’altro) o gli inquirenti che hanno investigato da vicino sulla questione.
Ciò mi porta a precisare perché io ne
scriva.
Io intervengo quale cittadina
italiana.
L’articolo 19 della Costituzione me
ne dà facoltà.
E mi chiedo:
“Quanto è stata “politica” l’azione delle forze dell’ordine,
a Genova?
Esiste una azione pianificata, sistematica e permanente,
basata su parametri di professionalità o prevale l’improvvisazione e l’episodicità?
Le forze dell’ordine sapevano di commettere abusi e contro
chi li commettevano?
Le forze dell’ordine possono rifiutarsi di obbedire a ordini
superiori, che, oggettivamente, violino i diritti umani, senza incorrere nel
reato di rifiuto o ritardo di obbedienza [art. 329 c.p.], punito con la
reclusione fino a due anni?
Perché le forze dell’ordine non hanno fatto pulizia nei
propri ranghi, senza aspettare i provvedimenti della magistratura: liberandosi
di tutti coloro che, in quei giorni, hanno disonorato la loro divisa?
Perché le forze dell’ordine sono giunte a “giustificare
l’ingiustificabile”, per riprendere una formula di George Orwell, in nome di un
certo “spirito di corpo” e una solidarietà intrinseca, che cementa l’unione di
gruppo e, solitamente, viene chiamata “cameratismo”?”
È partendo da questi interrogativi
che svilupperò la mia discettazione.
Una caratteristica di forma,
riconducibile a una strategia di potere, è ciò che si potrebbe, opportunamente,
definire “l’insabbiamento” delle arene pubbliche, antica tecnica di gestione
del giudiziario, che consiste a ritardare, indefinitamente, la fine di un
processo, diffondendo, attraverso i media, una versione dei fatti, che li
presenta come un episodio attestato, ma, a poco a poco, edulcorato. É un mélange di temporeggiamento e di
disinformazione sottile, che anestetizza, progressivamente, l’indignazione
iniziale. L’evento è, così, classificato negli archivi e diviene oggetto
riservato della storia globale dello Stato, mentre vittime e colpevoli
scompaiono dietro una sofferenza e una responsabilità che non saprebbero essere
che collettive. Così è stato per i responsabili della strage di Piazza Fontana
(Milano 12 dicembre 1969), che aprì gli Anni di Piombo: nonostante la
responsabilità dell’organizzazione neo-fascista Ordine Nuovo sia stata
stabilita e sia, ormai, conosciuta da tutti, decine di verdetti contraddittori
non hanno, infine, permesso di riconoscere la colpevolezza di alcuno. In modo
similare, se agenti della forza pubblica sono stati incriminati, al termine
dell’istruttoria sui fatti del centro di primo arrivo e identificazione di
Bolzaneto, l’inizio del processo non è stato fissato che molto tardivamente;
mentre è molto probabile che gli accusati, appartenenti a quattro corpi diversi
(carabinieri, polizia, polizia penitenziaria e personale medico) senza ordine
integrato, abbiano costruito la loro difesa in modo da impedire
l’individuazione dei fatti e degli atti di ciascuno, salvo a rigettarsi la responsabilità da una unità
all’altra.
Si riduce, insomma, il fatto allo status di evento sfortunato, nel senso
letterale della parola: la malasorte, il destino, la fatalità – e non un fatto
contingente, che dovrebbe non avere luogo, che potrebbe non avere luogo e che
non si è reso necessario che per un certo ordine sociale e politico che non ha,
in sé, niente di necessario. Qualificare il fatto di bavure significa, in altri termini, dire che noi possiamo
deplorarlo, ma non rifiutare, denunciare, combattere – come lo ha sottolineato
Hannah Arendt:
“Il furore non è, in alcun modo, una reazione automatica di
fronte alla miseria e alla sofferenza in quanto tale. Nessuno si infuria
davanti a una malattia incurabile o a un terremoto, né di fronte a condizioni
sociali che sembrano impossibili da modificare. È solo nel caso in cui vi siano
buone ragioni per credere che queste condizioni possano essere cambiate e non
lo siano che il furore esplode.”
Per la maggior parte dei
manifestanti, in particolare per le generazioni nate negli anni 1970 o nella
prima metà degli anni 1980 – senza parlare di tutti coloro che manifestavano
per la prima volta – un tale scatenamento era, semplicemente, inconcepibile;
così, come la maggior parte delle vittime furono, paradossalmente, i
manifestanti meno politicizzati, meno consumati, in termini di dimostrazioni di
strada, quelli che non avevano visto arrivare le manovre di accerchiamento da
parte delle forze dell’ordine e che, non avendo niente di reprensibile, non si
attendevano di essere arrestati o picchiati per il solo fatto della loro
presenza sui luoghi. Perché si tratta di insistere sull’appartenenza delle
vittime a una collettività più vasta possibile: non di no-global, di giovani militanti o di
simpatizzanti di una sinistra radicale, ma di cittadini di ogni estrazione
sociale, laica e religiosa, e, semplicemente, uomini e donne.
L’esperienza di Genova, dopo quella
di Göteborg, apre in
seno al movimento altermondialista, un dibattito, talvolta, difficile sulla
violenza. Ma mostra, soprattutto, la capacità delle giovani generazioni a
resistere alla repressione. Questa capacità sarà preziosa quando, qualche mese
più tardi, a seguito degli attentati dell’11 settembre, il movimento
altermondialista sarà oggetto di un tentativo di remise au pas in nome della lotta anti-terrorista.
Genova segnava l’inizio di un periodo
di forti proteste sociali contro il governo Berlusconi.
Era una vera “generazione Genova” che
nasceva, in Italia, in quella occasione.
In parte come risultato di questo
lungo processo, nell’aprile del 2006, le forze del centro-sinistra arrivavano
al potere, dopo una vittoria elettorale strappata con i denti alla destra
condotta da Silvio Berlusconi. Ma i due anni di governo Prodi lasciavano dietro
di sé un triste bilancio in politica economica, sociale ed estera, provocando
la disillusione, la demoralizzazione e la smobilitazione sociale… che
lastricavano il cammino per il ritorno al potere trionfale del Cavaliere,
nell’aprile del 2008.
Poco dopo gli eventi di Genova, gli
attentati dell’11 settembre, a New York, significavano, a loro volta, l’inizio
di un nuovo periodo internazionale, segnato dalla “guerra
globale contro il terrorismo”. La protesta contro la guerra doveva prendere forza in seno
alla critica della globalizzazione, aprendo la via allo sviluppo di un
movimento anti-guerra massivo, il cui punto culminante era la giornata
internazionale di mobilitazione del 15 febbraio 2003, alla vigilia
dell’invasione dell’Iraq. A partire di là, il movimento altermondialista
entrava in una nuova fase, segnata dalla perdita di centralità delle sue mobilitazioni,
della sua capacità di articolazioni e da una più grande dispersione delle lotte
sociali, in un contesto molto difensivo nell’insieme dell’Unione Europea. Ciò è
durato fino allo scoppio della “grande crisi” del 2008, che determinava la
situazione internazionale dopo quattro anni e di fronte alla quale si assiste,
oggi, a una risalita delle lotte sociali.
Undici anni dopo il Summit di Genova, il ciclo aperto dal
movimento altermondialista si è chiuso, ma un altro si apre davanti a noi.
Non è, dunque, un anniversario
nostalgico di un movimento che fu, ma che non è più.
È un anniversario la cui memoria
indignata di quelle giornate mitiche ci permette di richiamare alla memoria il
passato per guardare l’avvenire. Dove il ricordo dell’assalto alla “zona rossa” si mescola con quelli molto recenti delle occupazioni delle
piazze, delle assemblee di quartiere e del blocco del parlamento catalano. E
dove la memoria di Carlo Giuliani non fa che accrescere la rabbia e
l’indignazione di coloro che, con ancora più ragioni di undici anni fa,
continuano ad affermare che un “altro mondo è
possibile” e che “noi non siamo merce nelle mani dei politici e dei banchieri”.
L’undicesimo anniversario delle
giornate di Genova arriva nel momento in cui l’Unione Europea attraversa forti
turbolenze e i venti che hanno elettrizzato il mondo arabo, dalla fine del
2010, soffiano, con sempre più intensità, sul Vecchio Continente. Le
mobilitazioni sostenute in Grecia e l’irruzione del movimento degli indignados nello Stato spagnolo, senza
dimenticare la vittoria del referendum
sull’acqua in Italia, sono tra i sintomi più significativi della ascesa di un
nuovo periodo di lotte contro lo stesso modello di sviluppo, sempre guidato dal
potere economico: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Banca
Centrale Europea, un modello che mette al centro il mercato al servizio del
profitto delle banche e degli speculatori e il cui l’obiettivo è di
internazionalizzare e di “europeizzare” le resistenze emergenti.
A Genova, undici anni fa, si è detto,
per la prima volta, che l’acqua non può essere trasformata in merce e che, con
un tale modello di sviluppo, possono nascere conflitti per l’accaparramento
dell’energia, e, nel corso di questi undici anni, guerre hanno avuto luogo in
Afghanistan, in Iraq e in Libia per il possesso del petrolio e dei gasdotti.
Oggi, noi possiamo dire che le idee
del movimento erano premonitrici. In effetti, tutto ciò che era stato
annunciato, allora, come conseguenza del neo-liberismo si è rivelato vero, in
larga parte, vero. In Italia, in Europa e nel mondo intero, si è assistito a un
arretramento dei diritti acquisiti. La fragile democrazia è sempre più soggetta
alla volontà del potere economico a detrimento della volontà del popolo. Così,
a esempio, la linea ad alta velocità (TAV), nella Val di Susa: una spesa di 20
miliardi di euro, che aumenterà il debito pubblico, anche per le generazioni
future, per far arrivare 27 minuti prima la merce da Torino a Lione, devastando
una bellissima valle e dando luogo a un rischio di uranio e di amianto per gli
abitanti.
[http://video.corriere.it/uranio-amianto-valsusa-tav-fronte-scontro-salute/ed05f7dc-686f-11e1-864f-609f02e90fa8]
Ognuno di noi, in un modo o nell’altro,
ha una esperienza, diretta o indiretta, della violenza.
Ognuno di noi, quindi, pretende di
conoscere su di essa la sua parte di verità.
Ma la somma di queste verità
individuali, soggettive, non dà come risultato la verità sociale, storica.
Nel linguaggio quotidiano, come sulla
bocca dei responsabili della giustizia e dell’ordine, la nozione di violenza
rimane vaga, imprecisa, elastica, estensibile a piacere.
L’atteggiamento istituzionale di fronte
ai casi di malapolizia è di totale chiusura, quando non di attacco frontale nei
confronti delle voci critiche. Non pare accettata l’idea, tra le forze dell’ordine,
di essere messi in discussione, di “riscoprirsi diversi” da ciò che si pensa di
essere.
Scrivendo in questo momento della
nostra storia, azzardo una previsione che è la proiezione dei miei valori.
Si arriverà a una fine.
La storia in sé non è una predizione,
ma la selezione di azioni, parole e personaggi significativi che debbono essere
ricordati, un dramma più che un processo.
“Ricordate! Ricordate! Ricordate!”,
è la formula magica di Edmund Burke dopo
che il suo processo contro Warren Hastings si è concluso in una sconfitta.
Se ciò che è contenuto in queste pagine
sopravviverà nella memoria, sarà valsa la pena scrivere questo articolo.
È, certamente, un invito alla
riflessione per tutti gli ipocriti, per tutti i sepolcri intonacati che sulla
giustizia e sull’ordine tuonano.
Spesso, non è possibile dimostrare i
danni provocati da coloro che gettano discredito sulle istituzioni. Le loro
azioni compromettono, sempre, quella fiducia che accompagna le cariche
pubbliche e distingue tra carica ed esercizio arbitrario del potere.
Per gli ebrei, i musulmani e i
cristiani, come per coloro che condividono la loro eredità morale, il concetto
di corruzione non è moralmente neutro.
Daniela Zini
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