Diario
dal Fronte Occidentale
USA E GETTA
IL PIANO YINON
“Certamente tutti
dicono di essere a favore della Pace. Hitler diceva che era per la Pace. Tutti
sono per la Pace. La domanda è quale tipo di Pace?”
Noam Chomsky
Nel 1974, lo shah Mohammad Reza Pahlavi aveva contrattato con gli Stati
Uniti d’America e la Francia un ambizioso programma nucleare e l’Iran era
entrato con il 10% di capitale nel Consorzio Eurodif di arricchimento dell’uranio,
ma le pretese egemoniche avevano reso lo shah scomodo a Washington, che,
insieme a Parigi, ne preparò il rovesciamento.
Fu, allora, che la CIA scelse di giocare la carta dell’Islamismo
radicale dei Mollah contro il Comunismo e le correnti laiche alleate dell’Unione
Sovietica.
Subito dopo la firma degli Accordi di Camp David [17 settembre 1978], Ruhollah Mostafavi Mosavi
Khomeyni, allora
un oscuro personaggio, fu portato a Parigi per venire formato e lanciato
politicamente, ma l’illusione di Jimmy Carter di poterlo controllare e
manovrare durò poco: si aprì, così, uno dei decenni più convulsi e intricati
del dopoguerra.
Dalla vicenda degli ostaggi americani del 1979, come pressione di
Tehran per la ripresa delle forniture militari e del programma nucleare, alla
disastrosa operazione per liberarli, che segnò la fine di Carter, all’Irangate,
alla Guerra Iran-Iraq voluta da Washington, alla terribile serie di attentati
della Jihad, che, dal 1984 al 1990, ebbe come retroscena il rispetto da parte
della Francia dei precedenti accordi nucleari, la questione nucleare rivestì un
ruolo centrale.
Come aveva giocato Ronald Reagan contro Carter, Khomeyni giocò, poi,
Jacques Chirac contro François Mitterand, finché, nel 1991, la Francia
sottoscrisse l’accordo che confermava l’azionariato dell’Iran in Eurodif e il
diritto di ritirare la quota corrispondente di uranio arricchito.
Quello che vale la pena di rilevare è come la Casa Bianca abbia voluto
la prosecuzione del programma nucleare di un Paese che, al tempo stesso,
denuncia come appartenente all’Asse del Male. La versione ufficiale, secondo la
quale, dal 1979, gli Stati Uniti d’America hanno interrotto ogni commercio
nucleare con l’Iran, non è che una grande impostura.
Washington non poteva, certo, proseguirlo alla luce del sole, e,
oramai, anche la Francia era nel mirino, così, lo fece attraverso la Cina –
che, come la Francia, aveva aderito, nel 1992, al NTP – e Mosca. Riprendendo la
costruzione della Centrale di Busher, la Russia, sostituitasi alla Germania,
prima di nascondersi dietro l’Argentina e, poi, di tentare di passare
attraverso la Repubblica Ceca, aveva operato per conto degli Stati Uniti d’America,
che si fingevano preoccupati per la collaborazione nucleare di Mosca con
Tehran.
L’ultimo decennio del secolo scorso ha visto l’ultima, almeno per ora,
raffica di test nucleari: ma anche per questi le cose stanno ben diversamente
dalla versione ufficiale.
Nel 1990, Chirac eseguì dei tests anche per conto degli Stati Uniti d’America,
con i quali aveva appena stipulato un accordo riservato di scambio di dati per
sperimentare una carica nucleare a potenza variabile.
Alcuni tests dell’India, nel 1998, vennero eseguiti per conto di
Israele e alcuni tests del Pakistan, che, in realtà, possedeva la bomba, già,
dalla fine degli Anni ‘70, erano fatti per conto dell’Iran.
Appare veramente complesso sbrogliare l’intricatissima matassa dei
reali interessi economici, strategici e geopolitici, dietro la cortina fumogena
abilmente sollevata e mantenuta, con innumerevoli complicità, sull’opinione
pubblica.
Fronte Occidentale, 6 gennaio 2020
Nell’articolo
pubblicato, il 12 febbraio 1982, ossia qualche mese dopo la Prima Guerra
Israelo-Libanese, sulla rivista Kivunim
[Direzioni] del Dipartimento di
Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale, con il titolo Una strategia per Israele negli Anni ‘80,
il giornalista israeliano Oded Yinon, che aveva lavorato per il Ministero degli
Affari Esteri israeliano, sosteneva che la strategia israeliana dovesse essere
modellata nel favorire lo smembramento degli Stati arabi su base confessionale
o etnica.
Il
documento poneva in evidenza la svolta storica degli Anni Ottanta, le
trasformazioni politiche, economiche, militari, la necessità di nuove strategie
e di un quadro politico, militare, culturale nuovo.
Secondo
Yinon, il cui piano si proponeva, appunto, di “smembrare
tutti gli Stati arabi esistenti e di riorganizzare la regione in piccole entità
fragili, più malleabili e incapaci di far fronte agli Israeliani”,
i pericoli erano
due: l’URSS come superpotenza mondiale e il nazionalismo arabo, in un mondo
arabo che monopolizzava le risorse petrolifere, a scapito degli Stati Occidentali.
“Senza petrolio né il reddito da esso
prodotto, con l’enorme spesa pubblica cui fare fronte, nelle condizioni attuali
non saremo in grado di passare il 1982, e dovremo agire al fine di ritornare
alla situazione che esisteva nel Sinai prima della visita di Sadat e dell’errato
accordo di pace firmato con lui nel marzo 1979. Israele ha due vie principali
attraverso cui realizzare questo scopo, una diretta e l’altra indiretta. L’opzione
diretta è quella meno realistica a causa della natura del regime e del governo
di Israele, così come la saggezza di Sadat che ha ottenuto il nostro ritiro dal
Sinai, che è stato, dopo la Guerra del 1973, il suo successo più importante da
quando ha preso il potere. Israele non romperà il trattato unilateralmente, né
oggi, né nel 1982, a meno che sia duramente incalzato economicamente e
politicamente, e l’Egitto non ci fornisca per la quarta volta la scusa per
invadere di nuovo il Sinai. Ciò che rimane, dunque, è l’opzione indiretta. La
situazione economica in Egitto, la natura del regime e la sua politica
pan-araba, porterà a una situazione dopo l’aprile 1982, nella quale Israele
sarà costretto ad agire direttamente o indirettamente, al fine di riprendere il
controllo del Sinai come riserva strategica, economica ed energetica per il
lungo periodo.”
Occorreva,
pertanto, impedire a qualsiasi altro Stato/Potenza di competere nella regione
con armi atomiche e assicurare il controllo del flusso e dei prezzi delle
risorse energetiche per l’Occidente.
“Il potere del nucleare e delle armi
convenzionali, la loro quantità, la loro precisione e la loro qualità
rivolteranno la maggior parte del nostro mondo a testa in giù nel giro di pochi
anni, e noi, in Israele, dobbiamo allinearci in modo da poter affrontare questa
trasformazione, che è, poi, la principale minaccia per la nostra esistenza e
quella del mondo occidentale. La guerra per le risorse del mondo, il monopolio
arabo sul petrolio, e la necessità dell’Occidente di importare la maggior parte
delle materie prime dal Terzo Mondo, stanno trasformando la realtà che
conosciamo, dato che uno dei principali obiettivi dell’URSS è quello di
sconfiggere l’Occidente per ottenere il controllo sulle gigantesche risorse del
Golfo Persico e della parte meridionale dell’Africa, in cui la maggior parte
dei minerali mondiali sono situati. Possiamo immaginare le dimensioni del
confronto globale, che si dovrà affrontare in futuro. La dottrina Gorshkov
richiede il controllo sovietico degli oceani e delle zone ricche di minerali
del Terzo Mondo insieme all’attuale dottrina nucleare sovietica che sostiene
che sia possibile gestire, vincere e sopravvivere a una guerra nucleare, nel
corso della quale l’Occidente potrebbe benissimo essere distrutto e i suoi
abitanti fatti schiavi al servizio del marxismo-leninismo, sono il principale
pericolo per la pace nel mondo e per la nostra stessa esistenza. Dal 1967, i
sovietici hanno trasformato l’aforisma di Clausewitz in La guerra è la
continuazione della politica con mezzi nucleari e ne hanno fatto il motto che
guida tutte le loro politiche. Già oggi sono occupati a effettuare i loro
obiettivi nella nostra regione e in tutto il mondo e la necessità di
affrontarli diventa l’elemento centrale nella politica di sicurezza del nostro Paese
e, naturalmente, in quella del resto del mondo libero. Questa è la nostra
grande priorità di politica estera. Il mondo arabo musulmano, quindi, non è il
principale problema strategico che dovremo affrontare negli Anni Ottanta, nonostante
il fatto che esso eserciti la principale minaccia contro Israele, a causa della
sua crescente potenza militare. Questo mondo, con le sue minoranze etniche, le
fazioni e le crisi interne, che è sorprendentemente autodistruttivo, come
possiamo vedere in Libano, nell’Iran non arabo e ora anche in Siria, è incapace
di affrontare con successo i problemi fondamentali e, quindi, non costituisce
una minaccia reale per lo Stato di Israele, nel lungo periodo, ma solo nel
breve periodo in cui il suo potere militare immediato è di grande importanza.
Nel lungo periodo, questo mondo non sarà in grado di esistere nel suo quadro
presente nelle zone intorno a noi, senza dover passare per veri cambiamenti
rivoluzionari. Il mondo arabo musulmano è costruito come una casa temporanea,
fatta di carte messe insieme da Francia e Gran Bretagna negli Anni Venti, senza
che i desideri dei suoi abitanti venissero presi in considerazione. È stato,
arbitrariamente, diviso in 19 Stati, tutti composti da combinazioni di gruppi
etnici e minoranze ostili gli uni agli altri, in modo che ogni Stato arabo
musulmano al giorno d’oggi deve affrontare la distruzione etnica sociale al suo
interno e in alcuni una guerra civile è già in corso. La maggior parte degli
arabi, 118 milioni su 170, vivono in Africa, soprattutto, in Egitto, oggi 45
milioni. A parte l’Egitto, tutti gli Stati del Maghreb sono costituiti da un
misto di arabi e berberi non arabi. In Algeria vi è già una guerra civile tra
le due etnie nel Paese, che infuria sui Monti di Kabila. Marocco e Algeria sono
in guerra tra loro per il Sahara spagnolo, oltre alle lotte interne in ciascuno
di essi. L’Islam militante mette in pericolo l’integrità della Tunisia e
Gheddafi organizza
guerre che sono distruttive dal punto di vista arabo, per un Paese scarsamente
popolato e che non potrà diventare una Nazione potente. È per questo che in
passato egli tentò l’unificazione con gli Stati che sono più genuini, come l’Egitto
e la Siria. Il Sudan, lo Stato più lacerato del mondo musulmano arabo di oggi è
costruito su quattro gruppi ostili gli uni agli altri, una minoranza araba
sunnita che governa la maggioranza degli africani non arabi, pagani e
cristiani.”
Certo, riconosceva Yinon, era stato un tragico errore,
nel giugno del 1967, non “avere dato la Giordania
ai Palestinesi”, ossia inviarli tutti oltre confine. Ed era una
grande perdita dovere abbandonare l’occupazione del Canale di Suez e i ricchi
giacimenti di petrolio e di gas del Sinai. Si dovevano, pertanto, operare
grandi cambiamenti in quel decennio:
“Dobbiamo ritornare in Sinai alla
situazione precedente la “visita” di Sadat e all’errore fatto con gli Accordi
del 1979 [per il ritorno del Sinai all’Egitto].”
E aggiungeva:
“Negli Stati del Golfo, in Arabia
Saudita, in Libia e in Egitto vi è la più grande accumulazione di denaro e di
petrolio al mondo, ma quelli che ne godono sono piccole élites che non hanno
una larga base di sostegno e di fiducia, qualcosa che nessun esercito può
garantire. L’esercito saudita con tutta la sua attrezzatura non può difendere
il regime da pericoli reali in casa o all’estero, e ciò che ha avuto luogo a La
Mecca nel 1980, è solo un esempio. Una situazione triste e molto burrascosa
circonda Israele e crea sfide per esso, problemi, rischi, ma anche ampie
opportunità per la prima volta dal 1967. Le probabilità sono le occasioni perse
in quel momento, ma che diventeranno realizzabili negli Anni Ottanta in misura
e secondo dimensioni che non possiamo nemmeno immaginare oggi. La politica di
pace e la restituzione dei territori, attraverso una dipendenza dagli Stati
Uniti d’America, preclude la realizzazione della nuova opzione creata per noi.
Dal 1967, tutti i Governi di Israele hanno limitato i nostri obiettivi
nazionali fino a restringerne le esigenze politiche da un lato, mentre dall’altro
i pareri distruttivi in casa neutralizzano le nostre capacità, sia in patria
che all’estero. Non riuscire a prendere provvedimenti nei confronti della
popolazione araba nei nuovi territori, acquisiti nel corso di una guerra cui ci
hanno costretto, è il grande errore strategico commesso da Israele, la mattina
dopo la Guerra dei Sei Giorni. Avremmo potuto salvare noi stessi tutto il
conflitto aspro e pericoloso fin da allora, se avessimo dato la Giordania ai
palestinesi che vivono a Ovest del fiume Giordano. Così facendo avremmo
neutralizzato il problema palestinese che abbiamo oggi di fronte, al quale
abbiamo trovato soluzioni che non rappresentano veramente nessuna soluzione,
come il compromesso territoriale o l’autonomia che costituisce, nei fatti, la
stessa cosa. Oggi, ci troviamo improvvisamente ad affrontare immense
opportunità per trasformare a fondo la situazione e dobbiamo farlo nel prossimo
decennio, altrimenti non potremo sopravvivere come Stato.
Nel corso degli Anni Ottanta, lo Stato
di Israele dovrà passare attraverso cambiamenti di vasta portata nel suo regime
politico ed economico nazionale, insieme a cambiamenti radicali nella sua
politica estera, al fine di resistere alle sfide globali e regionali di questa
nuova epoca. La perdita dei campi petroliferi del Canale di Suez, dell’immenso
potenziale di petrolio, gas e delle altre risorse naturali nella Penisola del
Sinai, che è geomorfologicamente identica ai ricchi Paesi produttori di
petrolio della regione, si tradurrà in una perdita di energia nel prossimo
futuro che distruggerà la nostra economia nazionale: un quarto del nostro
presente PIL così come un terzo del budget che viene utilizzato per l’acquisto
di petrolio. La ricerca di materie prime nel Negev e sulla costa non potrà, in
un prossimo futuro, modificare tale stato di cose.
Riconquistare la Penisola del Sinai con
le sue risorse attuali e potenziali è, dunque, una priorità politica,
ostacolata da Camp David e dagli accordi di pace. La colpa si trova,
naturalmente, con l’attuale Governo israeliano e con i Governi che hanno aperto
la strada alla politica del compromesso territoriale, Governi allineati fino
dal 1967.”
L’Egitto non
costituiva un problema a livello militare, poiché non era più una potenza
politica guida nel mondo arabo. Occorreva frammentare l’Egitto in regioni
distinte, così si sarebbe potuto destabilizzare e frammentare la Libia e il Sudan
in tanti staterelli religiosi.
“L’Egitto non costituisce un problema
strategico militare a causa dei conflitti interni e potrebbe essere guidato
indietro alla situazione di guerra post 1967 in non più di un giorno. Il mito
dell’Egitto quale leader forte del mondo arabo è stato demolito nel 1956 e
sicuramente non è sopravvissuto al 1967, ma la nostra politica della
restituzione del Sinai è servita a trasformare il mito in realtà. Tuttavia, il
potere dell’Egitto in proporzione sia al solo Israele sia nei confronti del
resto del mondo arabo si è ridotto di circa il 50% dal 1967. L’Egitto non è più
il principale potere politico nel mondo arabo ed è sull’orlo di una crisi
economica. Senza assistenza straniera la crisi arriverà domani.”
Dal
documento di Yinon, che analizza punto per punto la situazione dei vari Stati Mediorientali,
la loro debolezza per la situazione interna dovuta alle minoranze religiose ed
etniche, ne emerge una instabilità regionale totale, un grande divario tra ricchi
e poveri, tra maggioranza sunnita e altre minoranze, soprattutto sciiti e
curdi.
Yinon
sosteneva, inoltre, che il piano di divisione del Libano in piccoli cantoni
confessionali, al quale gli Israeliani lavoravano dalla fine degli Anni Sessanta[1], con la
complicità di alcuni estremisti maroniti, dovesse essere applicato a tutto il
mondo arabo, massimamente all’Iraq [tre Stati: sunnita, curdo e sciita]; alla
Siria [tre Stati: alauita, druso, sunnita]; alla Giordania [una parte per i
beduini, un’altra per i Palestinesi] e all’Arabia Saudita, che doveva essere
privata delle sue province petrolifere e riportata alle dimensioni di un
mosaico tribale.
“La dissoluzione totale del Libano in cinque province, serve da precedente per
tutto il mondo arabo, inclusi Egitto, Siria, Iraq e Penisola Arabica, e sta già
seguendo quell’orientamento. La dissoluzione di Siria e Iraq in aree
etnicamente o religiosamente uniche come in Libano, è l’obiettivo primario di
Israele sul Fronte Orientale nel lungo periodo, mentre la dissoluzione del
potere militare di questi Stati costituisce l’obiettivo primario a breve
termine. La Siria cadrà a pezzi, in conformità con la sua struttura etnica e
religiosa, divisa in diversi Stati, come oggi il Libano, in modo che vi sarà
uno Stato sciita alawita lungo la sua costa, uno Stato sunnita nella zona di
Aleppo, un altro Stato sunnita a Damasco ostile al suo vicino del Nord, e i
drusi che si insedieranno in uno Stato, forse, anche nel nostro Golan, e
certamente nell’Hauran e nel Nord della Giordania. Questo stato di cose sarà la
garanzia per la pace e la sicurezza nella zona, nel lungo periodo, e questo
obiettivo è già alla nostra portata oggi.”
L’Iraq con
le sue grandi risorse di petrolio, ma internamente caotico, era un obiettivo di
Israele. La sua dissoluzione era, perfino, più importante di quella della
Siria, perché era più forte e costituiva la più grande minaccia per Israele.
Una guerra Iran-Iraq avrebbe messo da parte l’Iraq e causato all’interno la sua
caduta politica, prima di essere in grado di organizzare un conflitto contro Israele.
“L’Iraq, ricco di petrolio da una parte
e lacerato internamente dall’altra, è un candidato garantito per gli obiettivi
di Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della
Siria. L’Iraq è più forte della Siria. Nel breve periodo è il potere iracheno
che costituisce la più grande minaccia per Israele. Una Guerra Iraq-Iran
ridurrà in pezzi l’Iraq e provocherà la sua caduta, anche prima che sia in
grado di organizzare un ampio fronte di lotta contro di noi. Ogni tipo di
confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada verso
l’obiettivo più importante, dividere l’Iraq come in Siria e in Libano. In Iraq,
una divisione in province lungo linee etnico-religiose, come in Siria durante
il periodo ottomano è possibile. Così, tre o più Stati esisteranno attorno alle
tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul.”
E il
documento continua in modo ossessivo…
Così sarebbe
stato per la Giordania, anche se non nell’immediato, perché non costituiva una
immediata minaccia. Semmai si può pensare a un trasferimento di potere alla
maggioranza palestinese.
“La Giordania costituisce un
obiettivo strategico immediato nel breve periodo ma non nel lungo periodo,
poiché non costituisce una minaccia reale nel lungo periodo dopo il suo
scioglimento, la cessazione del lungo dominio del re Hussein e il trasferimento
del potere ai palestinesi nel breve periodo.”
Anche l’Arabia
Saudita si sarebbe potuta dividere, ma più tardi...
“L’intera Penisola Arabica è un
candidato naturale alla dissoluzione a causa delle pressioni interne ed
esterne, e la questione è inevitabile, soprattutto, in Arabia Saudita,
indipendentemente dal fatto che la sua forza economica a base di petrolio
rimanga intatta o se invece venga diminuita nel lungo periodo, le divisioni
interne e le disgregazioni sono uno sviluppo chiaro e naturale alla luce dell’attuale
struttura politica.”
Questa teoria
geopolitica, che avrebbe dovuto modificare l’equilibrio delle forze nel Medio
Oriente in favore di Israele, viene ripresa e sviluppata da Richard Perle e dal
gruppo di neoconservatori dell’Institute
for Advanced Strategic and Political Studies, in un memorandum del 2006, destinato al primo ministro israeliano Benjamin
Netanyahu.
Nell’autunno
del 1982, ossia qualche mese dopo l’invasione israeliana del Libano, la Rivista di Studi Palestinesi pubblicava
l’articolo di Oded Yinon, tradotto, il 13 giugno 1982, dal professor Israel
Shahak[2], con una
sua breve introduzione al documento di
Yinon:
“L’articolo che segue di Oded Yinon presenta, mi sembra, in modo
esatto e dettagliato, il progetto del regime sionista – il regime di
Sharon e Eytan – circa il Medio Oriente, vale a dire la
divisione della regione in piccoli Stati e lo smantellamento di tutti gli Stati
arabi.
Io vorrei, come preambolo, attirare l’attenzione del lettore su
alcuni punti:
1.
L’idea che tutti gli Stati arabi debbano essere frammentati in
piccole unità, a opera di Israele, è un’idea ricorrente nel pensiero strategico
israeliano.
2.
Si percepisce molto chiaramente il legame stretto che esiste tra
questo progetto e il pensiero neoconservatore americano, particolarmente nelle
note dell’autore al suo articolo. Ma, nonostante un
riferimento puramente formale alla “difesa dell’Occidente” di fronte al potere sovietico, l’obiettivo reale dell’autore e
del regime israeliano attuale è ben chiaro: fare di un Israele imperialista una
potenza mondiale. In altri termini, Israele si propone di ingannare gli
americani dopo avoir joué il mondo intero.
3.
Evidentemente, molti fatti nelle note come nello stesso testo,
sono distorti o omessi, come l’aiuto finanziario degli Stati Uniti d’America a
Israele. Altri pretesi fatti sono pure invenzioni. Ma non si dovrebbe,
tuttavia, guardare questo progetto come privo di qualsiasi significato
pratico, o irrealizzabile, almeno nel breve
termine.
Il progetto riproduce, fedelmente, le teorie geopolitiche che
erano in voga nella Germania degli Anni 1890-1933 e che furono adottate tali e
quali da Adolf Hitler e dal nazismo e ispirarono la loro politica nell’Europa
dell’Est.
Gli
obiettivi fissati da queste teorie, in particolare lo smantellamento degli
Stati esistenti, videro un inizio di realizzazione dal 1939 al 1941 e
solo una coalizione su scala mondiale ne impedì l’applicazione a lungo termine.”
Nel 1983, la scrittrice e giornalista
ebrea/palestinese Livia Rokach[3], figlia
dell’ex-ministro degli interni Israel Rokach, in Israele nel Libano: testimonianze del genocidio, commentava, così,
l’articolo di Yinon:
“L’Operazione Libano, iniziata quattro mesi dopo la pubblicazione di
questo piano, è stata
realizzata, e
continua a essere eseguita,
esattamente lungo le direttive tracciate in questo scritto.”
Nella sua prefazione, Israel Shahak aveva attirato l’attenzione dei lettori sulla convergenza tra questa “strategia per Israele” e il pensiero neoconservatore americano, ispiratore della politica estera degli Stati Uniti d’America con l’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca.
La
deflagrazione dell’Iraq, le tensioni comunitarie nella maggioranza dei Paesi
arabi, l’annessione di Gerusalemme e di buona parte della Cisgiordania conferiscono
all’articolo di Oded Yinon, trentotto anni dopo la sua pubblicazione, una
funesta attualità.
In
una intervista rilasciata a Paul Balta, pubblicata su Le Monde, il 17 agosto 1982, Tarek Aziz prediceva:
“Perché questo piano di atomizzazione possa riuscire pienamente,
bisogna aggredire il punto centrale del dispositivo, vale a dire l’Iraq, l’unico
Paese che possiede insieme l’acqua e il petrolio e che persegue l’obiettivo del
proprio sviluppo con determinazione. Occorre, dunque, cominciare con lo
smembrare l’Iraq, ed è quello che già si sta tentando di fare da più di venti
anni.”
Il
Piano Yinon è stato di tutto punto
ripreso e attualizzato dai circoli neoconservatori che hanno ispirato la
diplomazia dell’Amministrazione Bush.
Il
progetto di rimodellamento del Medio Oriente attraverso una politica di “caos costruttore”
viene, infatti, elaborato negli Anni Novanta, e, poi, illustrato da George
W. Bush[4] in un
discorso pronunciato il 26 febbraio 2003 [https://www.youtube.com/watch?v=hJyhqlkaHB0,
https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2003/02/20030226-11.html,
https://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/02_Febbraio/27/bushattacco.shtml],
pochi giorni prima dell’aggressione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti d’America.
“Un Iraq liberato può mostrare il potere della libertà di trasformare
quella regione, portando speranza di progresso nella vita di milioni di
persone.”,
aveva
argomentato Bush l’invasione americana in Iraq.
Il
progetto, conosciuto con il nome di Greater
Middle East Initiative [Iniziativa per il Grande Medio Oriente], mira al
rimodellamento di un preteso Grande Medio Oriente, che comprende un vasto
insieme di Stati, dal Marocco alla frontiera cinese, con i Paesi arabi,
Israele, la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan.
Se
questa teoria – che mira in definitiva a consolidare, con l’aiuto di Israele, l’egemonia
statunitense in questa parte del mondo che detiene il 65% delle riserve di
petrolio e quasi un terzo delle riserve di gas – è stata oggetto di molti
commenti, ne sono meno noti, invece, i progetti di ricomposizione geografica
che sottintende.
Tuttavia,
fin dagli inizi degli Anni Novanta, gli esperti conoscono l’esistenza di nuove
carte geografiche del Grande Medio Oriente.
Nell’edizione
del mese di giugno del 2006, il mensile militare statunitense Armed Forces Journal pubblicò un
articolo dal titolo evocatore: How a
better Middle East would look [Come migliorare il Medio oriente] [http://armedforcesjournal.com/blood-borders/],
nel quale il tenente colonnello della riserva Ralph Peters, un ex-specialista
dell’Intelligence ed esponente del think tank neoconservatore Project for the New American Century,
proponeva che le nuove frontiere dei Paesi ivi compresi dovessero “essere rimodellate su basi etniche e confessionali”.
A tale proposito, Peters proponeva una mappa che presentava molte similitudini
con la mappa di Yinon: costituzione di un Grande Libano [inglobante la costa
mediterranea della Siria fino alla frontiera turca]; creazione di uno Stato curdo
[comprendente il Nord dell’Iraq, il Nord-Ovest dell’Iran e il Sud-Est anatolico];
frantumazione dell’Iraq che, oltre a perdere la regione settentrionale,
dovrebbe essere ulteriormente diviso tra un piccolo Stato sunnita arabo e un
grande Stato sciita comprensivo anche della regione saudita di Hasa [tra l’Emirato
del Kuwait e la Penisola del Qatar], dove peraltro gli sciiti non sono
maggioranza, dell’Arabistan [l’attuale Khuzestan iraniano, popolato da arabi
sunniti] e della zona di Bushehr; formazione di una grande Giordania a
detrimento dell’Arabia Saudita, che dovrebbe perdere anche la regione delle Città
Sante di La Mecca e Medina [Stato autonomo] e l’Asir [a profitto di uno Yemen
ingrandito]. Oltre alla sua regione curda, l’Iran dovrebbe perdere il Belucistan
che dovrebbe diventare indipendente, ma recuperando la regione afghana di
Herat. Il Pakistan si ridurrebbe considerevolmente, con la perdita del Belucistan
e una estensione dell’Afghanistan nelle sue regioni pashtun.
Peters
si manteneva prudente sulle nuove frontiere di Israele, ma si comprendeva che
qualsiasi prospettiva di uno Stato palestinese restava esclusa.
I
due grandi perdenti sarebbero stati l’Iraq e l’Arabia Saudita, ossia i due più
importanti Paesi arabi.
Nel 2006, Ralph Peters faceva parte del Project for the New American Century, un
think tank neoconservatore e filo
israeliano presieduto da William Kristol, il cui obiettivo era la promozione
del dominio americano e i cui membri erano i più importanti esponenti
dell’Amministrazione Bush: Dick Cheney, vice-presidente degli Stati Uniti d’America;
Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa; Elliot Abrams, incaricato della Casa
Bianca per il Medio Oriente; Lewis Libby, amico di Benjamin Netanyahu, e Paul
Wolfowitz, che è stato il fulcro dell’aggressione e dell’occupazione dell’Iraq.
Queste carte [Before:
situazione nel 2006 e After:
situazione dopo il rimodellamento] sono state pubblicate nella rivista militare
americana AFJ [Armed Forces Journal],
nel giugno del 2006[5],
dal tenente colonnello a riposo, Ralph Peters, che ha militato in una divisione
di fanteria meccanizzata, dal 1976, per proseguire, poi, la sua attività nella Intelligence militare, nel 1980. Autore
di molti saggi di strategia delle relazioni internazionali, Ralph Peters si è
ritirato dall’esercito nel 1999, mantenendovi, tuttavia, stretti legami e facendo
parte della redazione di AFJ, il mensile,
fondato nel 1863, che si rivolge agli ufficiali americani, trattando di varie
questioni, quali la tecnologia militare, la logistica, la strategia, la
dottrina e la tattica.
Il
mondo arabo dovrebbe, dunque, essere suddiviso attraverso tagli surrealisti,
produttivi di tensioni e divisioni senza fine.
Di
fatto, questo nuovo Grande Medio Oriente, concepito su basi confessionali,
nazionali ed etniche del tutto arbitrarie, non sarebbe affatto più sicuro di
quello attuale, al contrario, diverrebbe una vera e propria polveriera. Ma la
cosa non preoccupava Peters – all’epoca membro di un think tank dal nome evocatore, Project
for the New American Century, che considerava vitale per gli Stati Uniti d’America
intensificare le guerre per assicurare il loro dominio – e, nel 1997, nel corso
di una conferenza dichiarava:
“Il ruolo affidato de facto agli Stati Uniti d’America
consisterà [in futuro] nel gestire il mondo a salvaguardia della nostra
economia, mantenendolo aperto alla nostra influenza culturale. Per fare ciò noi
dovremo fare un bel po’ di massacri”.
Peters
è anche l’autore di un’altra formula lapidaria, che ben riassume l’ideologia
dei neoconservatori:
“The hearts-and-minds myth: Sorry, but
winning means killing.”
Armed Forces Journal, September 2006 [http://www.armedforcesjournal.com/2006/09/1947271/, https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/03071840903097563?needAccess=true]
Sfortunatamente,
queste parole non sono quelle di un invasato che ha tracannato qualche cassa di
whisky per dimenticare che abita nel
primo Paese occidentale del crimine organizzato, ma quelle di un portavoce dei think tank vicini alla Casa Bianca.
Pierre
Hillard, autore di diverse pubblicazioni di geopolitica, rammentò, allora, che:
“Le proposte di
Ralph Peters e gli inviti a realizzare cambiamenti radicali delle frontiere del
Medio Oriente non sono evidentemente il frutto delle riflessioni di un solo
uomo impegnato a occupare in qualche modo il proprio tempo. Molti altri studi
sono stati realizzati da organismi militari statunitensi e da molti think tank,
per rivedere i limiti frontalieri di questi Stati.”
Se il Progetto
per un nuovo secolo americano è scomparso, le idee pericolose che veicolava
sono state riprese da altri, come il clan
Clinton e sono ancora presenti nelle boîtes
à penser atlantiste
vicine al potere statunitense.
Dagli Stati Uniti d’America, miliardari finanziano associazioni
che organizzano flussi migratori verso l’Europa.
E, dal 2011, miliardari e leaders atlantisti europei conducono la stessa campagna, al fine di
favorire una grande ondata di immigrazione verso l’Europa.
Perché miliardari e leaders politici muovono queste processioni di miseria in una
Unione Europea che conta, già, 123 milioni di cittadini a rischio di povertà?
Daniela Zini
Copyright © 6 gennaio 2020 ADZ
Una strategia per Israele negli Anni Ottanta
di
Oded Yinon è, originariamente, apparso in ebraico su Kivunim [Direzioni], un
Giornale per il Giudaismo e il Sionismo, N° 14 Inverno, 5742, febbraio 1982.
Editore:
Yoram Beck.
Comitato
Editoriale: Eli Eyal, Yoram Beck, Amnon Hadari, Yohanan Manor, Elieser Schweid.
Pubblicato
dal Dipartimento di Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale,
Gerusalemme.
1
All’inizio degli Anni Ottanta lo Stato di Israele ha bisogno di
una nuova prospettiva per il suo posto, i suoi scopi e gli obiettivi nazionali,
in patria e all’estero. Questa esigenza è diventata ancora più importante a
causa di una serie di processi centrali che il Paese, la regione e il mondo
stanno attraversando. Oggi viviamo le fasi iniziali di una nuova epoca della
storia umana, che non è del tutto simile a quella precedente, e le sue caratteristiche
sono totalmente diverse da quello che abbiamo finora conosciuto. Ecco perché,
da un lato abbiamo bisogno di una comprensione dei processi centrali che
caratterizzano questa epoca storica e dall’altro lato abbiamo bisogno di una
visione del mondo e di una strategia operativa conforme alle nuove condizioni.
L’esistenza, la prosperità e la stabilità dello Stato ebraico dipenderanno
dalla sua capacità di adottare un nuovo quadro di riferimento per i suoi affari
interni ed esteri.
2
Questa epoca è caratterizzata da numerosi tratti che possiamo
già diagnosticare, e che simboleggiano una vera e propria rivoluzione nel
nostro stile di vita attuale. Il processo dominante è la rottura della
prospettiva umanista razionalista considerata la pietra angolare di supporto
alla vita e alle conquiste della civiltà occidentale a partire dal
Rinascimento. Le opinioni politiche, sociali ed economiche emanate da questo
fondamento si basavano su diverse verità che stanno attualmente scomparendo,
per esempio, l’idea che l’uomo come individuo è il centro dell’universo e di
tutto ciò che esiste al fine di realizzare il suo bisogni materiali di base.
Questa posizione viene invalidata nel presente, quando è diventato chiaro che
la quantità delle risorse nel cosmo non soddisfa i requisiti dell’uomo, i suoi
bisogni economici o i suoi vincoli demografici. In un mondo in cui ci sono
quattro miliardi di esseri umani e le risorse economiche ed energetiche che non
crescono in proporzione per soddisfare le necessità degli uomini, non è
realistico aspettarsi di soddisfare il requisito principale della società
occidentale, cioè, il desiderio e l’aspirazione per un consumo illimitato. Il
punto di vista che l’etica non abbia alcun ruolo nel determinare la direzione
dell’Uomo, ma invece l’abbiano i suoi bisogni materiali sta diventando
prevalente oggi, mentre viviamo in un mondo in cui quasi tutti i valori stanno
scomparendo. Stiamo perdendo la capacità di valutare le cose più semplici,
soprattutto se riguardano la semplice questione di ciò che è bene e ciò che è
male.
3
La visione delle aspirazioni illimitate dell’uomo e delle sue
abilità si restringe di fronte ai tristi fatti della vita, quando assistiamo
alla disgregazione dell’ordine nel mondo che ci circonda. La visione che
promette la libertà al genere umano sembra assurda alla luce del triste fatto
che tre quarti del genere umano vive sotto regimi totalitari. I punti di vista
riguardanti l’uguaglianza e la giustizia sociale sono stati trasformati dal
socialismo e soprattutto dal comunismo in uno zimbello. Non vi è alcun
argomento a supporto della verità di queste due idee, ma è chiaro che non sono
state messe in pratica correttamente e che la maggior parte del genere umano ha
perso la libertà e la possibilità di vivere nell’uguaglianza e nella giustizia.
In questo mondo nucleare in cui ancora viviamo in relativa pace da 30 anni, il
concetto di pace e convivenza tra le nazioni non ha significato quando una
superpotenza come l’URSS detiene una tale dottrina militare e politica: indi
per cui, non sia solo possibile una guerra nucleare, ma necessaria per
conseguire l’estinzione del marxismo, e che sia possibile sopravvivere dopo,
per non parlare del fatto che si possa essere vittoriosi.
4
I concetti fondamentali della società umana, soprattutto quelli
d’Occidente, stanno subendo un cambiamento a causa di trasformazioni politiche,
militari ed economiche. Così, la potenza nucleare e convenzionale dell’Urss ha
trasformato l’epoca che si è appena conclusa in un ultima tregua prima della
grande saga che sarà demolire gran parte del nostro mondo in una guerra globale
multidimensionale, rispetto a cui le guerre del mondo passato sembreranno un
gioco da ragazzi. Il potere del nucleare e delle armi convenzionali, la loro
quantità, la loro precisione e la loro qualità rivolteranno la maggior parte
del nostro mondo a testa in giù nel giro di pochi anni, e noi, in Israele,
dobbiamo allinearci in modo da poter affrontare questa trasformazione. Che è,
poi, la principale minaccia per la nostra esistenza e quella del mondo
occidentale. La guerra per le risorse del mondo, il monopolio arabo sul
petrolio, e la necessità dell’Occidente di importare la maggior parte delle
materie prime dal terzo mondo, stanno trasformando la realtà che conosciamo,
dato che uno dei principali obiettivi dell’URSS è quello di sconfiggere l’Occidente
per ottenere il controllo sulle gigantesche risorse del Golfo Persico e della
parte meridionale dell’Africa, in cui la maggior parte dei minerali mondiali
sono situati. Possiamo immaginare le dimensioni del confronto globale, che si
dovrà affrontare in futuro.
5
La dottrina Gorshkov richiede il controllo sovietico degli
oceani e delle zone ricche di minerali del Terzo Mondo. Insieme all’attuale
dottrina nucleare sovietica che sostiene che sia possibile gestire, vincere e
sopravvivere ad una guerra nucleare, nel corso della quale l’Occidente potrebbe
benissimo essere distrutto ed i suoi abitanti fatti schiavi al servizio del
marxismo-leninismo; sono il principale pericolo per la pace nel mondo e per la
nostra stessa esistenza. Dal 1967, i sovietici hanno trasformato l’aforisma di
Clausewitz in La guerra è la
continuazione della politica con mezzi nucleari, e ne hanno fatto il
motto che guida tutte le loro politiche. Già oggi sono occupati ad effettuare i
loro obiettivi nella nostra regione e in tutto il mondo, e la necessità di
affrontarli diventa l’elemento centrale nella politica di sicurezza del nostro Paese
e, naturalmente, in quella del resto del mondo libero. Questa è la nostra
grande priorità di politica estera.
6
Il mondo arabo musulmano, quindi, non è il principale problema
strategico che dovremo affrontare negli anni Ottanta, nonostante il fatto che
esso eserciti la principale minaccia contro Israele, a causa della sua
crescente potenza militare. Questo mondo, con le sue minoranze etniche, le
fazioni e le crisi interne, che è sorprendentemente autodistruttivo, come
possiamo vedere in Libano, nell’Iran non arabo e ora anche in Siria, è incapace
di affrontare con successo i problemi fondamentali e quindi non costituisce una
minaccia reale per lo Stato di Israele, nel lungo periodo, ma solo nel breve
periodo in cui il suo potere militare immediato è di grande importanza. Nel
lungo periodo, questo mondo non sarà in grado di esistere nel suo quadro
presente nelle zone intorno a noi, senza dover passare per veri cambiamenti
rivoluzionari. Il mondo arabo musulmano è costruito come una casa temporanea,
fatta di carte messe insieme da Francia e Gran Bretagna negli anni venti, senza
che i desideri dei suoi abitanti venissero presi in considerazione. È
arbitrariamente diviso in 19 Stati, tutti composti da combinazioni di gruppi
etnici e minoranze ostili gli uni agli altri, in modo che ogni stato arabo
musulmano al giorno d’oggi deve affrontare la distruzione etnica sociale al suo
interno, e in alcuni una guerra civile è già in corso. La maggior parte degli
arabi, 118 milioni su 170, vivono in Africa, soprattutto in Egitto, oggi 45
milioni.
7
A parte l’Egitto, tutti gli Stati del Maghreb sono costituiti da
un misto di arabi e berberi non arabi. In Algeria vi è già una guerra civile
tra le due etnie nel Paese, che infuria nelle montagna di Kabile. Marocco e
Algeria sono in guerra tra loro per il Sahara spagnolo, oltre alle lotte
interne in ciascuno di essi. L’Islam militante mette in pericolo l’integrità
della Tunisia e Gheddafi organizza guerre che sono distruttive dal punto di
vista arabo, per un Paese scarsamente popolato e che non potrà diventare una
nazione potente. È per questo che in passato egli tentò l’unificazione con gli
Stati che sono più genuini, come l’Egitto e la Siria. Il Sudan, lo Stato più
lacerato del mondo musulmano arabo di oggi è costruito su quattro gruppi ostili
gli uni agli altri, una minoranza araba sunnita che governa la maggioranza
degli africani non arabi, pagani e cristiani. In Egitto c’è una maggioranza
musulmana sunnita di fronte a una grande minoranza di cristiani che è dominante
nell’Alto Egitto, circa 7 milioni. Anche Sadat, nel suo intervento dell’8
maggio, espresse il timore che possano aspirare ad un loro proprio stato,
qualcosa come un secondo Libano cristiano in Egitto.
8
Tutti gli Stati arabi a est di Israele sono lacerati, spezzati e
crivellati da conflitto interiori ancor più di quelli del Maghreb. La Siria
fondamentalmente non differisce dal Libano salvo che per il forte regime
militare che la governa. Ma la vera e propria guerra civile che si svolge
attualmente tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita alawita, un mero
12% della popolazione, che però domina il Paese, testimonia la gravità del
problema nazionale.
9
L’Iraq non è diverso nella sostanza dai suoi vicini, anche se la
sua maggioranza è sciita e la minoranza sunnita è quella dominante. Il
sessantacinque per cento della popolazione non ha voce in politica, dove una
élite di 20 per cento detiene il potere. Inoltre c’è una grande minoranza curda
nel nord del Paese, e se non fosse per la forza del regime al potere, l’esercito
e le entrate petrolifere, il futuro dello stato iracheno non sarebbe diverso da
quello del Libano in passato, o della Siria oggi. I semi del conflitto interno
e della guerra civile sono evidenti già oggi, soprattutto dopo l’ascesa di
Khomeini al potere in Iran, un leader che gli sciiti in Iraq vedono come il
loro leader naturale.
10
Tutti i principati del Golfo e l’Arabia Saudita sono costruiti
su di una delicata casa di sabbia in cui vi è solo petrolio. In Kuwait, i
kuwaitiani costituiscono solo un quarto della popolazione. In Bahrain, gli
sciiti sono la maggioranza, ma sono privi di potere. Negli Emirati Arabi Uniti,
gli sciiti sono ancora una volta la maggioranza, ma i sunniti sono al potere.
Lo stesso è vero per l’Oman e lo Yemen del Nord. Anche nello Yemen marxista del
Sud c’è una considerevole minoranza sciita. In Arabia Saudita la metà della
popolazione è straniera, egiziana e yemenita, ma una minoranza saudita detiene
il potere.
11
La Giordania è in realtà palestinese, governata da una minoranza
beduina Trans-Giordana, ma la maggior parte delle forze armate e di certo la
burocrazia sono ora palestinesi. È un dato di fatto che Amman sia palestinese
come Nablus. Tutti questi Paesi hanno eserciti potenti, relativamente parlando.
Ma c’è un problema anche lì. L’esercito siriano è oggi per lo più sunnita con
un corpo ufficiali alawita, l’esercito iracheno è sciita con comandanti
sunniti. Questo ha un grande significato nel lungo periodo, ed è per questo che
non sarà possibile conservare la fedeltà dell’esercito per un lungo periodo a
meno che si tratta del solo comune denominatore: l’ostilità nei confronti di
Israele, ma oggi anche questo è insufficiente.
12
Accanto agli arabi, divisi come sono, l’altro stato musulmano
condivide una situazione simile. La metà della popolazione iraniana è
costituita da un gruppo di lingua persiana e l’altra metà da un gruppo etnico
turcomanno. La popolazione turca dispone di una maggioranza musulmano sunnita
pari a circa il 50%, e di due grandi minoranze, 12 milioni di sciiti alawiti e
6 milioni di sunniti curdi. In Afghanistan ci sono 5 milioni di sciiti, che
costituiscono un terzo della popolazione. Nel Pakistan sunnita ci sono 15
milioni di sciiti, che mettono in pericolo l’esistenza di quello stato.
13
Questa immagine delle minoranze etniche nazionali che si estende
dal Marocco all’India e dalla Somalia alla Turchia, sottolinea la mancanza di
stabilità e la possibilità di una rapida degenerazione in tutta la regione.
Quando questo quadro si aggiunge a quello economico, vediamo come l’intera
regione è costruita come un castello di carte, incapace di sopportare i suoi
gravi problemi.
14
In questo mondo gigantesco e fratturato ci sono alcuni gruppi di
ricchi e una massa enorme di persone povere. La maggior parte degli arabi hanno
un reddito medio annuo di 300 dollari. Questa è la situazione in Egitto, nella
maggior parte dei Paesi del Maghreb, tranne per la Libia, e in Iraq. Il Libano
è lacerato e la sua economia sta cadendo a pezzi. E’ uno stato in cui non vi è
alcun potere centralizzato, ma solo 5 autorità sovrane de facto; i cristiani
nel nord, sostenuti dai siriani e sotto il dominio del clan Franjieh, in
Oriente una zona di conquista diretta siriana, nel centro un’enclave falangista
controllata dai cristiani, nel sud e fino al fiume Litani una regione
prevalentemente palestinese controllata dall’OLP e dallo stato dei cristiani
del maggiore Haddad infine mezzo milione di sciiti. La Siria è in una
situazione ancora più grave e anche l’assistenza che otterrebbe in futuro, dopo
l’unificazione con la Libia non sarà sufficiente per affrontare i problemi
fondamentali dell’esistenza e il mantenimento di un grande esercito. L’Egitto è
nella situazione peggiore: milioni di persone sono sull’orlo della fame, la
metà della forza lavoro è disoccupata, e l’alloggio è scarso in questa zona più
densamente popolata del mondo. Fatta eccezione per l’esercito, non vi è un
singolo reparto operativo in modo efficiente e lo Stato è in una condizione
permanente di fallimento e dipende interamente dall’assistenza estera americana
garantita dalla pace.
15
Negli Stati del Golfo, l’Arabia Saudita, la Libia e l’Egitto vi
è la più grande accumulazione di denaro e di petrolio al mondo, ma quelli che
ne godono sono piccole élites che non hanno una larga base di sostegno e di
fiducia, qualcosa che nessun esercito può garantire. L’esercito saudita con
tutta la sua attrezzatura non può difendere il regime da pericoli reali in casa
o all’estero, e ciò che ha avuto luogo a La Mecca nel 1980, è solo un esempio.
Una situazione triste e molto burrascosa circonda Israele e crea sfide per
esso, problemi, rischi, ma anche ampie opportunità per la prima volta dal 1967.
Le probabilità sono le occasioni perse in quel momento, ma che diventeranno
realizzabili negli anni Ottanta in misura e secondo dimensioni che non possiamo
nemmeno immaginare oggi.
16
La politica di pace e la restituzione dei territori, attraverso
una dipendenza dagli Stati Uniti d’America, preclude la realizzazione della
nuova opzione creata per noi. Dal 1967, tutti i governi di Israele hanno
limitato i nostri obiettivi nazionali fino a restringerne le esigenze politiche
da un lato, mentre dall’altro i pareri distruttivi in casa neutralizzano le
nostre capacità, sia in patria che all’estero. Non riuscire a prendere
provvedimenti nei confronti della popolazione araba nei nuovi territori,
acquisiti nel corso di una guerra a cui ci hanno costretto, è il grande errore
strategico commesso da Israele, la mattina dopo la Guerra dei Sei Giorni.
Avremmo potuto salvare noi stessi tutto il conflitto aspro e pericoloso fin da
allora, se avessimo dato la Giordania ai palestinesi che vivono a ovest del
fiume Giordano. Così facendo avremmo neutralizzato il problema palestinese che
abbiamo oggi di fronte, al quale abbiamo trovato soluzioni che non
rappresentano veramente nessuna soluzione, come il compromesso territoriale o l’autonomia
che costituisce, nei fatti, la stessa cosa. Oggi, ci troviamo improvvisamente
ad affrontare immense opportunità per trasformare a fondo la situazione e
dobbiamo farlo nel prossimo decennio, altrimenti non potremo sopravvivere come
stato.
17
Nel corso degli anni Ottanta, lo Stato di Israele dovrà passare
attraverso cambiamenti di vasta portata nel suo regime politico ed economico
nazionale, insieme a cambiamenti radicali nella sua politica estera, al fine di
resistere alle sfide globali e regionali di questa nuova epoca. La perdita dei
campi petroliferi del Canale di Suez, dell’immenso potenziale di petrolio, gas
e delle altre risorse naturali nella penisola del Sinai, che è
geomorfologicamente identica ai ricchi Paesi produttori di petrolio della
regione, si tradurrà in una perdita di energia nel prossimo futuro che
distruggerà la nostra economia nazionale: un quarto del nostro presente PIL
così come un terzo del budget che viene utilizzato per l’acquisto di petrolio.
La ricerca di materie prime nel Neghev e sulla costa non potrà, in un prossimo
futuro, modificare tale stato di cose.
18
Riconquistare la penisola del Sinai con le sue risorse attuali e
potenziali è dunque una priorità politica ostacolata da Camp David e dagli
accordi di pace. La colpa si trova, naturalmente, con l’attuale governo
israeliano e con i governi che hanno aperto la strada alla politica del
compromesso territoriale, governi allineati fin dal 1967. Gli egiziani non
avranno alcun bisogno di mantenere il trattato di pace dopo la restituzione del
Sinai, e faranno tutto il possibile per tornare all’ovile del mondo arabo e
dell’URSS al fine di ottenerne sostegno e assistenza militare. Gli aiuti
americani sono garantiti solo per un breve periodo, entro i termini della pace
e l’indebolimento degli Stati Uniti d’America, sia in patria che all’estero
porterà ad una riduzione degli aiuti. Senza petrolio ne il reddito da esso
prodotto, con l’enorme spesa pubblica a cui far fronte, nelle condizioni
attuali non saremo in grado di passare il 1982, e dovremo agire al fine di
ritornare alla situazione che esisteva nel Sinai prima della visita di Sadat e
dell’errato accordo di pace firmato con lui nel marzo 1979.
19
Israele ha due vie principali attraverso cui realizzare questo
scopo, una diretta e l’altra indiretta. L’opzione diretta è quella meno
realistica a causa della natura del regime e del governo di Israele, così come
la saggezza di Sadat che ha ottenuto il nostro ritiro dal Sinai, che è stato,
dopo la guerra del 1973, il suo successo più importante da quando ha preso il
potere. Israele non romperà il trattato unilateralmente, né oggi, né nel 1982,
a meno che sia duramente incalzato economicamente e politicamente, e l’Egitto
non ci fornisca per la quarta volta la scusa per invadere di nuovo il Sinai.
Ciò che rimane dunque, è l’opzione indiretta. La situazione economica in
Egitto, la natura del regime e la sua politica pan-araba, porterà a una
situazione dopo l’aprile 1982, nella quale Israele sarà costretto ad agire
direttamente o indirettamente, al fine di riprendere il controllo del Sinai
come riserva strategica, economica ed energetica per il lungo periodo. L’Egitto
non costituisce un problema strategico militare a causa dei conflitti interni e
potrebbe essere guidato indietro alla situazione di guerra post 1967 in non più
di un giorno.
20
Il mito dell’Egitto quale leader forte del mondo arabo è stato
demolito nel 1956 e sicuramente non è sopravvissuto al 1967, ma la nostra
politica, della restituzione del Sinai, è servita a trasformare il mito in
realtà. Tuttavia, il potere dell’Egitto in proporzione sia al solo Israele sia
nei confronti del resto del mondo arabo si è ridotto di circa il 50 per cento
dal 1967. L’Egitto non è più il principale potere politico nel mondo arabo ed è
sull’orlo di una crisi economica. Senza assistenza straniera la crisi arriverà
domani. Nel breve periodo, a causa della restituzione del Sinai, l’Egitto
guadagnerà parecchi vantaggi a nostre spese, ma solo nel breve periodo fino al
1982, e non riuscirà a cambiare gli equilibri di potere a suo vantaggio, e
possibilmente porterà alla sua caduta. L’Egitto, nel suo attuale quadro
politico interno, è già cadavere, tanto più se si tiene conto della crescente
spaccatura tra musulmani e cristiani. Dividere l’Egitto territorialmente in
regioni geografiche distinte è l’obiettivo politico di Israele negli anni
Ottanta sul fronte occidentale.
21
L’Egitto è diviso e lacerato da molti focolai di autorità. Se l’Egitto
va in pezzi, Paesi come la Libia, il Sudan o anche gli Stati più lontani non
continueranno ad esistere nella forma attuale e si uniranno alla rovina e alla
dissoluzione dell’Egitto. La visione di uno Stato cristiano copto in Egitto
insieme a un certo numero di Stati più deboli con potenza molto localizzata e
senza un governo centralizzato come è stato fino ad oggi, è la chiave per uno
sviluppo storico che è stato solo rallentato con l’accordo di pace, ma che
sembra inevitabile nel lungo periodo.
22
Il fronte occidentale, che in superficie appare più
problematico, è di fatto meno complicato del fronte orientale, dove la maggior
parte degli eventi che dettano i titoli ai giornali hanno avuto luogo di
recente. La dissoluzione totale del Libano in cinque province, serve da
precedente per tutto il mondo arabo, inclusi Egitto, Siria, Iraq e penisola
arabica, e sta già seguendo quell’orientamento. La dissoluzione di Siria e Iraq
in aree etnicamente o religiosamente uniche come in Libano, è l’obiettivo
primario di Israele sul fronte orientale nel lungo periodo, mentre la
dissoluzione del potere militare di questi Stati costituisce l’obiettivo
primario a breve termine. La Siria cadrà a pezzi, in conformità con la sua
struttura etnica e religiosa, divisa in diversi Stati, come in oggi il Libano,
in modo che ci sarà uno stato sciita alawita lungo la sua costa, uno stato
sunnita nella zona di Aleppo, un altro stato sunnita a Damasco ostile al suo
vicino del nord, e i drusi che si insedieranno in uno stato forse anche nel
nostro Golan, e certamente nel’Hauran e nel nord della Giordania. Questo stato
di cose sarà la garanzia per la pace e la sicurezza nella zona, nel lungo
periodo, e questo obiettivo è già alla nostra portata oggi.
23
L’Iraq, ricco di petrolio da una parte e lacerato internamente
dall’altra, è un candidato garantito per gli obiettivi di Israele. La sua
dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è
più forte della Siria. Nel breve periodo è il potere iracheno che costituisce
la più grande minaccia per Israele. Una guerra Iraq-Iran ridurrà in pezzi l’Iraq
e provocherà la sua caduta, anche prima che sia in grado di organizzare un
ampio fronte di lotta contro di noi. Ogni tipo di confronto inter-arabo ci
aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada verso l’obiettivo più
importante, dividere l’Iraq come in Siria e in Libano. In Iraq, una divisione
in province lungo linee etnico-religiose, come in Siria durante il periodo
ottomano è possibile. Così, tre o più Stati esisteranno attorno alle tre
principali città: Bassora, Baghdad e Mosul. Le zone sciite nel sud separate da
quelle sunnita e curda del nord. E’ possibile che l’attuale scontro
iraniano-iracheno approfondisca questa polarizzazione.
24
L’intera penisola arabica è un candidato naturale alla dissoluzione
a causa delle pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile
soprattutto in Arabia Saudita, indipendentemente dal fatto che la sua forza
economica a base di petrolio rimanga intatta o se invece venga diminuita nel
lungo periodo, le divisioni interne e le disgregazioni sono uno sviluppo chiaro
e naturale alla luce dell’attuale struttura politica.
25
La Giordania costituisce un obiettivo strategico immediato nel
breve periodo ma non nel lungo periodo, poiché non costituisce una minaccia
reale nel lungo periodo dopo il suo scioglimento, la cessazione del lungo
dominio del re Hussein e il trasferimento del potere ai palestinesi nel breve
periodo.
26
Non vi è alcuna possibilità che la Giordania continui ad
esistere nella sua struttura attuale per molto tempo, e la politica di Israele,
sia in guerra che in pace, deve essere orientata alla liquidazione della
Giordania sotto l’attuale regime e il trasferimento del potere alla maggioranza
palestinese. La modifica del regime a est del fiume causerà anche la
risoluzione del problema dei territori densamente popolati dagli arabi ad ovest
del Giordano. Sia in guerra che in condizioni di pace, l’emigrazione dai
territori e il loro congelamento economico e demografico, sono le garanzie per
il prossimo cambiamento su entrambe le rive del fiume, e noi dobbiamo essere
attivi al fine di accelerare questo processo nel prossimo futuro. Il piano per
l’autonomia dovrebbe essere respinto, così come ogni compromesso o divisione
dei territori, a causa dei piani del’Olp e di quelli degli stessi arabi
israeliani, il piano Shefa’amr del settembre del 1980, non è possibile andare a
vivere in questo Paese nella situazione attuale, senza separare le due nazioni,
gli arabi in Giordania e gli ebrei nelle zone ad ovest del fiume. La
coesistenza genuina e la pace regnerà sulla terra solo quando gli arabi
capiranno che senza dominio ebraico tra il Giordano e il mare non avranno
alcuna esistenza né sicurezza. Una loro nazione sarà possibile solo in
Giordania.
27
All’interno di Israele, la distinzione tra i confini del ‘67 e i
territori al di là di essi, quelli del ‘48, è sempre stata priva di significato
per gli arabi e al giorno d’oggi non ha più alcun significato neanche per noi.
Il problema deve essere visto nella sua interezza, senza la linea verde del ‘67.
Dovrebbe essere chiaro, in ogni futura situazione politica e militare, che la
soluzione del problema degli arabi indigeni arriverà solo quando riconosceranno
l’esistenza di Israele nei confini sicuri fino al fiume Giordano e al di là di
esso, come un nostro bisogno esistenziale in questa difficile epoca, l’epoca
nucleare in cui presto entreremo. Non è più possibile vivere con tre quarti
della popolazione ebraica concentrata sulla battigia, è molto pericoloso in un
epoca nucleare.
28
La dispersione della popolazione è quindi un obiettivo
strategico nazionale di primissimo ordine, in caso contrario, dovremo cessare
di esistere entro i confini. Giudea, Samaria e Galilea sono la nostra unica
garanzia per l’esistenza nazionale, e se non diventiamo maggioranza nelle zone
di montagna, non riusciremo a governare questo Paese e saremo come i Crociati,
che l’hanno perso perché non era loro in ogni caso, ma soprattutto perché erano
stranieri. Riequilibrare il Paese demograficamente, strategicamente ed
economicamente è l’obiettivo più alto e più centrale di oggi. Cominciando dallo
spartiacque montagnoso da Bersabea all’Alta Galilea, si realizza l’obiettivo
nazionale generato da una maggiore considerazione strategica che sta sistemando
la parte montuosa del Paese, che è vuota di ebrei oggi.
29
Realizzare i nostri obiettivi sul fronte orientale dipende in
primo luogo dalla realizzazione di questo obiettivo strategico interno. La
trasformazione della struttura politica ed economica, in modo da consentire la
realizzazione di questi obiettivi strategici, è la chiave per raggiungere l’intera
variazione. Abbiamo bisogno di cambiare un’economia centralizzata in cui il
governo è ampiamente coinvolto, in un mercato aperto e libero, nonché di cambiare
con le nostre mani la dipendenza dal contribuente degli Stati Uniti d’America,
in una vera e propria infrastruttura economica produttiva. Se non siamo in
grado di fare questo cambiamento liberamente e volontariamente, saremo
costretti in esso dagli sviluppi mondiali, in particolare in materia di
economia, energia e politica, e dal nostro isolamento crescente.
30
Da un punto di vista militare e strategico, l’Occidente guidato
dagli Stati Uniti d’America non è in grado di resistere alle pressioni globali
dell’URSS in tutto il mondo, e Israele deve quindi stare da solo negli anni
Ottanta, senza alcuna assistenza estera, militare o economica, e questo rientra
nelle nostre capacità di oggi, senza compromessi. I rapidi cambiamenti del
mondo porteranno un cambiamento anche nella condizione della comunità ebraica
mondiale per cui Israele diventerà non solo l’ultima istanza, ma l’unica
opzione esistenziale. Non possiamo supporre che gli ebrei degli Stati Uniti d’America,
e le comunità di Europa e America Latina continuino ad esistere nella loro
forma attuale in futuro.
31
La nostra esistenza in questo Paese è certa, e non vi è alcuna
forza che potrebbe mandarci via da qui ne con la forza ne con l’inganno [come
ha fatto Sadat]. Nonostante le difficoltà dell’errata politica di pace, del
problema degli arabi israeliani e di quelli dei territori, siamo in grado di
affrontare efficacemente questi problemi nel prossimo futuro.
[1] Già dal 1957, il primo ministro
israeliano David Ben Gurion coltivava l’idea di spezzettare il Libano su base
confessionale.
Nel 1943, i nazisti lo deportano insieme alla madre
nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Scampati alla Shoah, nel 1945, emigrano in Palestina.
Fa il servizio di leva presso una unità di élite dell’esercito israeliano e
frequenta la Hebrow University, a
Gerusalemme, dove si laurea in chimica, nel 1961.
Fino da giovane è critico verso numerosi aspetti
deleteri dell’ebraismo classico [compreso il razzismo], verso la natura
reazionaria del sionismo e l’oppressivo carattere sionista dello Stato di
Israele.
Era apprezzato in Israele e nel resto del mondo, anche
presso gli Arabi.
Per più di trenta anni denunciò strenuamente la
negazione dei diritti umani in Israele e l’oppressione del Popolo palestinese,
sostenendo, in quanto sopravvissuto alla Shoah,
che gli oppressi possono divenire a loro volta oppressori.
Per Edward Said era “un uomo coraggioso che dovrebbe essere onorato per i servizi che ha reso
all’umanità” e per Gore Vidal “l’ultimo,
ma non l’ultimo dei grandi profeti’’.
Shahak non amava le organizzazioni ebraiche negli Stati
Uniti d’America e criticava il loro cieco allineamento alla politica del Governo
israeliano nei confronti degli arabi e in particolare dei palestinesi. Li
accusava di esercitare pressioni per soffocare il dissenso e di servirsi dell’Olocausto
per ottenere finanziamenti e sostegno politico. A causa di ciò fu anche
minacciato di morte.
In Open Secrets:
Israeli Nuclear and Foreign Policies, Shahak analizza la politica estera
israeliana, tra il 1992 ed il 1995, tesa a condurre una pratica segreta di
espansionismo su molti fronti per conseguire il controllo della Palestina e
dell’intero Medio Oriente.
A Israel Shahak si deve la traduzione dall’ebraico all’inglese
del Piano Yinon.
[3] Livia Rokach lavorava in Italia
per la radio israeliana, che la licenziò per le notizie “non allineate” che
aveva dato sulla Guerra dei Sei giorni. Scelse di restare in Italia e
svolse una intensa opera pubblicistica contro l’imperialismo e tutte le
ingiustizie. Morì suicida a Roma nel 1984. Nessuno volle pubblicare il suo
libro, Vivere con la spada, in
Italia. Grazie a Noam Chomsky, il libro uscì negli Stati Uniti d’America,
nonostante le minacce di azione giudiziaria dello Stato d’Israele.
[4] Nel 2005, dopo anni di
silenzio, l’ex-segretario della Difesa Donald Rumsfeld, uno dei più accaniti
difensori della Guerra in Iraq, in una intervista al Times londinese aveva, a sorpresa, criticato, duramente, l’ex-presidente
George W. Bush:
“L’idea
che si possa modellare una democrazia in Iraq mi sembrava irreale. Ero
preoccupato quando sentii quelle parole.”
E aveva aggiunto:
“Io
non sono un americano che pensa che il nostro particolare modello di Democrazia
possa essere replicato da altri paesi in ogni momento della loro Storia.”
[http://america24.com/news/rumsfeld-bush-ha-sbagliato-assurda-idea-di-portare-la-democrazia-in-iraq]
[5] The Military Times Media
Group pubblica: Army
Times, Navy Times, Air Force Times e Marine Corps Times.
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