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lunedì 6 gennaio 2020

Diario dal Fronte Occidentale USA E GETTA IL PIANO YINON di Daniela Zini


Diario dal Fronte Occidentale


USA E GETTA

IL PIANO YINON

“Certamente tutti dicono di essere a favore della Pace. Hitler diceva che era per la Pace. Tutti sono per la Pace. La domanda è quale tipo di Pace?”
Noam Chomsky


Nel 1974, lo shah Mohammad Reza Pahlavi aveva contrattato con gli Stati Uniti d’America e la Francia un ambizioso programma nucleare e l’Iran era entrato con il 10% di capitale nel Consorzio Eurodif di arricchimento dell’uranio, ma le pretese egemoniche avevano reso lo shah scomodo a Washington, che, insieme a Parigi, ne preparò il rovesciamento.
Fu, allora, che la CIA scelse di giocare la carta dell’Islamismo radicale dei Mollah contro il Comunismo e le correnti laiche alleate dell’Unione Sovietica.
Subito dopo la firma degli Accordi di Camp David [17 settembre 1978], Ruhollah Mostafavi Mosavi Khomeyni, allora un oscuro personaggio, fu portato a Parigi per venire formato e lanciato politicamente, ma l’illusione di Jimmy Carter di poterlo controllare e manovrare durò poco: si aprì, così, uno dei decenni più convulsi e intricati del dopoguerra.
Dalla vicenda degli ostaggi americani del 1979, come pressione di Tehran per la ripresa delle forniture militari e del programma nucleare, alla disastrosa operazione per liberarli, che segnò la fine di Carter, all’Irangate, alla Guerra Iran-Iraq voluta da Washington, alla terribile serie di attentati della Jihad, che, dal 1984 al 1990, ebbe come retroscena il rispetto da parte della Francia dei precedenti accordi nucleari, la questione nucleare rivestì un ruolo centrale.
Come aveva giocato Ronald Reagan contro Carter, Khomeyni giocò, poi, Jacques Chirac contro François Mitterand, finché, nel 1991, la Francia sottoscrisse l’accordo che confermava l’azionariato dell’Iran in Eurodif e il diritto di ritirare la quota corrispondente di uranio arricchito.
Quello che vale la pena di rilevare è come la Casa Bianca abbia voluto la prosecuzione del programma nucleare di un Paese che, al tempo stesso, denuncia come appartenente all’Asse del Male. La versione ufficiale, secondo la quale, dal 1979, gli Stati Uniti d’America hanno interrotto ogni commercio nucleare con l’Iran, non è che una grande impostura.
Washington non poteva, certo, proseguirlo alla luce del sole, e, oramai, anche la Francia era nel mirino, così, lo fece attraverso la Cina – che, come la Francia, aveva aderito, nel 1992, al NTP – e Mosca. Riprendendo la costruzione della Centrale di Busher, la Russia, sostituitasi alla Germania, prima di nascondersi dietro l’Argentina e, poi, di tentare di passare attraverso la Repubblica Ceca, aveva operato per conto degli Stati Uniti d’America, che si fingevano preoccupati per la collaborazione nucleare di Mosca con Tehran.
L’ultimo decennio del secolo scorso ha visto l’ultima, almeno per ora, raffica di test nucleari: ma anche per questi le cose stanno ben diversamente dalla versione ufficiale.
Nel 1990, Chirac eseguì dei tests anche per conto degli Stati Uniti d’America, con i quali aveva appena stipulato un accordo riservato di scambio di dati per sperimentare una carica nucleare a potenza variabile.
Alcuni tests dell’India, nel 1998, vennero eseguiti per conto di Israele e alcuni tests del Pakistan, che, in realtà, possedeva la bomba, già, dalla fine degli Anni ‘70, erano fatti per conto dell’Iran.
Appare veramente complesso sbrogliare l’intricatissima matassa dei reali interessi economici, strategici e geopolitici, dietro la cortina fumogena abilmente sollevata e mantenuta, con innumerevoli complicità, sull’opinione pubblica.   


Fronte Occidentale, 6 gennaio 2020

Nell’articolo pubblicato, il 12 febbraio 1982, ossia qualche mese dopo la Prima Guerra Israelo-Libanese, sulla rivista Kivunim [Direzioni] del Dipartimento di Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale, con il titolo Una strategia per Israele negli Anni ‘80, il giornalista israeliano Oded Yinon, che aveva lavorato per il Ministero degli Affari Esteri israeliano, sosteneva che la strategia israeliana dovesse essere modellata nel favorire lo smembramento degli Stati arabi su base confessionale o etnica.
Il documento poneva in evidenza la svolta storica degli Anni Ottanta, le trasformazioni politiche, economiche, militari, la necessità di nuove strategie e di un quadro politico, militare, culturale nuovo.
Secondo Yinon, il cui piano si proponeva, appunto, di “smembrare tutti gli Stati arabi esistenti e di riorganizzare la regione in piccole entità fragili, più malleabili e incapaci di far fronte agli Israeliani”, i pericoli erano due: l’URSS come superpotenza mondiale e il nazionalismo arabo, in un mondo arabo che monopolizzava le risorse petrolifere, a scapito degli Stati Occidentali.

“Senza petrolio né il reddito da esso prodotto, con l’enorme spesa pubblica cui fare fronte, nelle condizioni attuali non saremo in grado di passare il 1982, e dovremo agire al fine di ritornare alla situazione che esisteva nel Sinai prima della visita di Sadat e dell’errato accordo di pace firmato con lui nel marzo 1979. Israele ha due vie principali attraverso cui realizzare questo scopo, una diretta e l’altra indiretta. L’opzione diretta è quella meno realistica a causa della natura del regime e del governo di Israele, così come la saggezza di Sadat che ha ottenuto il nostro ritiro dal Sinai, che è stato, dopo la Guerra del 1973, il suo successo più importante da quando ha preso il potere. Israele non romperà il trattato unilateralmente, né oggi, né nel 1982, a meno che sia duramente incalzato economicamente e politicamente, e l’Egitto non ci fornisca per la quarta volta la scusa per invadere di nuovo il Sinai. Ciò che rimane, dunque, è l’opzione indiretta. La situazione economica in Egitto, la natura del regime e la sua politica pan-araba, porterà a una situazione dopo l’aprile 1982, nella quale Israele sarà costretto ad agire direttamente o indirettamente, al fine di riprendere il controllo del Sinai come riserva strategica, economica ed energetica per il lungo periodo.”

Occorreva, pertanto, impedire a qualsiasi altro Stato/Potenza di competere nella regione con armi atomiche e assicurare il controllo del flusso e dei prezzi delle risorse energetiche per l’Occidente.

“Il potere del nucleare e delle armi convenzionali, la loro quantità, la loro precisione e la loro qualità rivolteranno la maggior parte del nostro mondo a testa in giù nel giro di pochi anni, e noi, in Israele, dobbiamo allinearci in modo da poter affrontare questa trasformazione, che è, poi, la principale minaccia per la nostra esistenza e quella del mondo occidentale. La guerra per le risorse del mondo, il monopolio arabo sul petrolio, e la necessità dell’Occidente di importare la maggior parte delle materie prime dal Terzo Mondo, stanno trasformando la realtà che conosciamo, dato che uno dei principali obiettivi dell’URSS è quello di sconfiggere l’Occidente per ottenere il controllo sulle gigantesche risorse del Golfo Persico e della parte meridionale dell’Africa, in cui la maggior parte dei minerali mondiali sono situati. Possiamo immaginare le dimensioni del confronto globale, che si dovrà affrontare in futuro. La dottrina Gorshkov richiede il controllo sovietico degli oceani e delle zone ricche di minerali del Terzo Mondo insieme all’attuale dottrina nucleare sovietica che sostiene che sia possibile gestire, vincere e sopravvivere a una guerra nucleare, nel corso della quale l’Occidente potrebbe benissimo essere distrutto e i suoi abitanti fatti schiavi al servizio del marxismo-leninismo, sono il principale pericolo per la pace nel mondo e per la nostra stessa esistenza. Dal 1967, i sovietici hanno trasformato l’aforisma di Clausewitz in La guerra è la continuazione della politica con mezzi nucleari e ne hanno fatto il motto che guida tutte le loro politiche. Già oggi sono occupati a effettuare i loro obiettivi nella nostra regione e in tutto il mondo e la necessità di affrontarli diventa l’elemento centrale nella politica di sicurezza del nostro Paese e, naturalmente, in quella del resto del mondo libero. Questa è la nostra grande priorità di politica estera. Il mondo arabo musulmano, quindi, non è il principale problema strategico che dovremo affrontare negli Anni Ottanta, nonostante il fatto che esso eserciti la principale minaccia contro Israele, a causa della sua crescente potenza militare. Questo mondo, con le sue minoranze etniche, le fazioni e le crisi interne, che è sorprendentemente autodistruttivo, come possiamo vedere in Libano, nell’Iran non arabo e ora anche in Siria, è incapace di affrontare con successo i problemi fondamentali e, quindi, non costituisce una minaccia reale per lo Stato di Israele, nel lungo periodo, ma solo nel breve periodo in cui il suo potere militare immediato è di grande importanza. Nel lungo periodo, questo mondo non sarà in grado di esistere nel suo quadro presente nelle zone intorno a noi, senza dover passare per veri cambiamenti rivoluzionari. Il mondo arabo musulmano è costruito come una casa temporanea, fatta di carte messe insieme da Francia e Gran Bretagna negli Anni Venti, senza che i desideri dei suoi abitanti venissero presi in considerazione. È stato, arbitrariamente, diviso in 19 Stati, tutti composti da combinazioni di gruppi etnici e minoranze ostili gli uni agli altri, in modo che ogni Stato arabo musulmano al giorno d’oggi deve affrontare la distruzione etnica sociale al suo interno e in alcuni una guerra civile è già in corso. La maggior parte degli arabi, 118 milioni su 170, vivono in Africa, soprattutto, in Egitto, oggi 45 milioni. A parte l’Egitto, tutti gli Stati del Maghreb sono costituiti da un misto di arabi e berberi non arabi. In Algeria vi è già una guerra civile tra le due etnie nel Paese, che infuria sui Monti di Kabila. Marocco e Algeria sono in guerra tra loro per il Sahara spagnolo, oltre alle lotte interne in ciascuno di essi. L’Islam militante mette in pericolo l’integrità della Tunisia e Gheddafi organizza guerre che sono distruttive dal punto di vista arabo, per un Paese scarsamente popolato e che non potrà diventare una Nazione potente. È per questo che in passato egli tentò l’unificazione con gli Stati che sono più genuini, come l’Egitto e la Siria. Il Sudan, lo Stato più lacerato del mondo musulmano arabo di oggi è costruito su quattro gruppi ostili gli uni agli altri, una minoranza araba sunnita che governa la maggioranza degli africani non arabi, pagani e cristiani.”

Certo, riconosceva Yinon, era stato un tragico errore, nel giugno del 1967, non “avere dato la Giordania ai Palestinesi”, ossia inviarli tutti oltre confine. Ed era una grande perdita dovere abbandonare l’occupazione del Canale di Suez e i ricchi giacimenti di petrolio e di gas del Sinai. Si dovevano, pertanto, operare grandi cambiamenti in quel decennio:

“Dobbiamo ritornare in Sinai alla situazione precedente la “visita” di Sadat e all’errore fatto con gli Accordi del 1979 [per il ritorno del Sinai all’Egitto].”

E aggiungeva:

“Negli Stati del Golfo, in Arabia Saudita, in Libia e in Egitto vi è la più grande accumulazione di denaro e di petrolio al mondo, ma quelli che ne godono sono piccole élites che non hanno una larga base di sostegno e di fiducia, qualcosa che nessun esercito può garantire. L’esercito saudita con tutta la sua attrezzatura non può difendere il regime da pericoli reali in casa o all’estero, e ciò che ha avuto luogo a La Mecca nel 1980, è solo un esempio. Una situazione triste e molto burrascosa circonda Israele e crea sfide per esso, problemi, rischi, ma anche ampie opportunità per la prima volta dal 1967. Le probabilità sono le occasioni perse in quel momento, ma che diventeranno realizzabili negli Anni Ottanta in misura e secondo dimensioni che non possiamo nemmeno immaginare oggi. La politica di pace e la restituzione dei territori, attraverso una dipendenza dagli Stati Uniti d’America, preclude la realizzazione della nuova opzione creata per noi. Dal 1967, tutti i Governi di Israele hanno limitato i nostri obiettivi nazionali fino a restringerne le esigenze politiche da un lato, mentre dall’altro i pareri distruttivi in casa neutralizzano le nostre capacità, sia in patria che all’estero. Non riuscire a prendere provvedimenti nei confronti della popolazione araba nei nuovi territori, acquisiti nel corso di una guerra cui ci hanno costretto, è il grande errore strategico commesso da Israele, la mattina dopo la Guerra dei Sei Giorni. Avremmo potuto salvare noi stessi tutto il conflitto aspro e pericoloso fin da allora, se avessimo dato la Giordania ai palestinesi che vivono a Ovest del fiume Giordano. Così facendo avremmo neutralizzato il problema palestinese che abbiamo oggi di fronte, al quale abbiamo trovato soluzioni che non rappresentano veramente nessuna soluzione, come il compromesso territoriale o l’autonomia che costituisce, nei fatti, la stessa cosa. Oggi, ci troviamo improvvisamente ad affrontare immense opportunità per trasformare a fondo la situazione e dobbiamo farlo nel prossimo decennio, altrimenti non potremo sopravvivere come Stato.
Nel corso degli Anni Ottanta, lo Stato di Israele dovrà passare attraverso cambiamenti di vasta portata nel suo regime politico ed economico nazionale, insieme a cambiamenti radicali nella sua politica estera, al fine di resistere alle sfide globali e regionali di questa nuova epoca. La perdita dei campi petroliferi del Canale di Suez, dell’immenso potenziale di petrolio, gas e delle altre risorse naturali nella Penisola del Sinai, che è geomorfologicamente identica ai ricchi Paesi produttori di petrolio della regione, si tradurrà in una perdita di energia nel prossimo futuro che distruggerà la nostra economia nazionale: un quarto del nostro presente PIL così come un terzo del budget che viene utilizzato per l’acquisto di petrolio. La ricerca di materie prime nel Negev e sulla costa non potrà, in un prossimo futuro, modificare tale stato di cose.
Riconquistare la Penisola del Sinai con le sue risorse attuali e potenziali è, dunque, una priorità politica, ostacolata da Camp David e dagli accordi di pace. La colpa si trova, naturalmente, con l’attuale Governo israeliano e con i Governi che hanno aperto la strada alla politica del compromesso territoriale, Governi allineati fino dal 1967.”

L’Egitto non costituiva un problema a livello militare, poiché non era più una potenza politica guida nel mondo arabo. Occorreva frammentare l’Egitto in regioni distinte, così si sarebbe potuto destabilizzare e frammentare la Libia e il Sudan in tanti staterelli religiosi.

“L’Egitto non costituisce un problema strategico militare a causa dei conflitti interni e potrebbe essere guidato indietro alla situazione di guerra post 1967 in non più di un giorno. Il mito dell’Egitto quale leader forte del mondo arabo è stato demolito nel 1956 e sicuramente non è sopravvissuto al 1967, ma la nostra politica della restituzione del Sinai è servita a trasformare il mito in realtà. Tuttavia, il potere dell’Egitto in proporzione sia al solo Israele sia nei confronti del resto del mondo arabo si è ridotto di circa il 50% dal 1967. L’Egitto non è più il principale potere politico nel mondo arabo ed è sull’orlo di una crisi economica. Senza assistenza straniera la crisi arriverà domani.”

Dal documento di Yinon, che analizza punto per punto la situazione dei vari Stati Mediorientali, la loro debolezza per la situazione interna dovuta alle minoranze religiose ed etniche, ne emerge una instabilità regionale totale, un grande divario tra ricchi e poveri, tra maggioranza sunnita e altre minoranze, soprattutto sciiti e curdi.
Yinon sosteneva, inoltre, che il piano di divisione del Libano in piccoli cantoni confessionali, al quale gli Israeliani lavoravano dalla fine degli Anni Sessanta[1], con la complicità di alcuni estremisti maroniti, dovesse essere applicato a tutto il mondo arabo, massimamente all’Iraq [tre Stati: sunnita, curdo e sciita]; alla Siria [tre Stati: alauita, druso, sunnita]; alla Giordania [una parte per i beduini, un’altra per i Palestinesi] e all’Arabia Saudita, che doveva essere privata delle sue province petrolifere e riportata alle dimensioni di un mosaico tribale.

“La dissoluzione totale del Libano in cinque province, serve da precedente per tutto il mondo arabo, inclusi Egitto, Siria, Iraq e Penisola Arabica, e sta già seguendo quell’orientamento. La dissoluzione di Siria e Iraq in aree etnicamente o religiosamente uniche come in Libano, è l’obiettivo primario di Israele sul Fronte Orientale nel lungo periodo, mentre la dissoluzione del potere militare di questi Stati costituisce l’obiettivo primario a breve termine. La Siria cadrà a pezzi, in conformità con la sua struttura etnica e religiosa, divisa in diversi Stati, come oggi il Libano, in modo che vi sarà uno Stato sciita alawita lungo la sua costa, uno Stato sunnita nella zona di Aleppo, un altro Stato sunnita a Damasco ostile al suo vicino del Nord, e i drusi che si insedieranno in uno Stato, forse, anche nel nostro Golan, e certamente nell’Hauran e nel Nord della Giordania. Questo stato di cose sarà la garanzia per la pace e la sicurezza nella zona, nel lungo periodo, e questo obiettivo è già alla nostra portata oggi.”

L’Iraq con le sue grandi risorse di petrolio, ma internamente caotico, era un obiettivo di Israele. La sua dissoluzione era, perfino, più importante di quella della Siria, perché era più forte e costituiva la più grande minaccia per Israele. Una guerra Iran-Iraq avrebbe messo da parte l’Iraq e causato all’interno la sua caduta politica, prima di essere in grado di organizzare un conflitto contro Israele.

“L’Iraq, ricco di petrolio da una parte e lacerato internamente dall’altra, è un candidato garantito per gli obiettivi di Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. Nel breve periodo è il potere iracheno che costituisce la più grande minaccia per Israele. Una Guerra Iraq-Iran ridurrà in pezzi l’Iraq e provocherà la sua caduta, anche prima che sia in grado di organizzare un ampio fronte di lotta contro di noi. Ogni tipo di confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada verso l’obiettivo più importante, dividere l’Iraq come in Siria e in Libano. In Iraq, una divisione in province lungo linee etnico-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano è possibile. Così, tre o più Stati esisteranno attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul.”

E il documento continua in modo ossessivo…
Così sarebbe stato per la Giordania, anche se non nell’immediato, perché non costituiva una immediata minaccia. Semmai si può pensare a un trasferimento di potere alla maggioranza palestinese.

“La Giordania costituisce un obiettivo strategico immediato nel breve periodo ma non nel lungo periodo, poiché non costituisce una minaccia reale nel lungo periodo dopo il suo scioglimento, la cessazione del lungo dominio del re Hussein e il trasferimento del potere ai palestinesi nel breve periodo.”

Anche l’Arabia Saudita si sarebbe potuta dividere, ma più tardi...

“L’intera Penisola Arabica è un candidato naturale alla dissoluzione a causa delle pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile, soprattutto, in Arabia Saudita, indipendentemente dal fatto che la sua forza economica a base di petrolio rimanga intatta o se invece venga diminuita nel lungo periodo, le divisioni interne e le disgregazioni sono uno sviluppo chiaro e naturale alla luce dell’attuale struttura politica.”

Questa teoria geopolitica, che avrebbe dovuto modificare l’equilibrio delle forze nel Medio Oriente in favore di Israele, viene ripresa e sviluppata da Richard Perle e dal gruppo di neoconservatori dell’Institute for Advanced Strategic and Political Studies, in un memorandum del 2006, destinato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Nell’autunno del 1982, ossia qualche mese dopo l’invasione israeliana del Libano, la Rivista di Studi Palestinesi pubblicava l’articolo di Oded Yinon, tradotto, il 13 giugno 1982, dal professor Israel Shahak[2], con una sua  breve introduzione al documento di Yinon:

“L’articolo che segue di Oded Yinon presenta, mi sembra, in modo esatto e dettagliato, il progetto del regime sionista – il regime di Sharon e Eytan –  circa il Medio Oriente, vale a dire la divisione della regione in piccoli Stati e lo smantellamento di tutti gli Stati arabi.
Io vorrei, come preambolo, attirare l’attenzione del lettore su alcuni punti:
1.        L’idea che tutti gli Stati arabi debbano essere frammentati in piccole unità, a opera di Israele, è un’idea ricorrente nel pensiero strategico israeliano.
2.        Si percepisce molto chiaramente il legame stretto che esiste tra questo progetto e il pensiero neoconservatore americano, particolarmente nelle note dell’autore al suo articolo. Ma, nonostante un riferimento puramente formale alla “difesa dell’Occidente” di fronte al potere sovietico, l’obiettivo reale dell’autore e del regime israeliano attuale è ben chiaro: fare di un Israele imperialista una potenza mondiale. In altri termini, Israele si propone di ingannare gli americani dopo avoir joué il mondo intero.
3.        Evidentemente, molti fatti nelle note come nello stesso testo, sono distorti o omessi, come l’aiuto finanziario degli Stati Uniti d’America a Israele. Altri pretesi fatti sono pure invenzioni. Ma non si dovrebbe, tuttavia, guardare questo progetto come privo di qualsiasi significato pratico, o irrealizzabile, almeno nel breve termine.
Il progetto riproduce, fedelmente, le teorie geopolitiche che erano in voga nella Germania degli Anni 1890-1933 e che furono adottate tali e quali da Adolf Hitler e dal nazismo e ispirarono la loro politica nell’Europa dell’Est.
Gli obiettivi fissati da queste teorie, in particolare lo smantellamento degli Stati esistenti, videro un inizio di realizzazione dal 1939 al 1941 e solo una coalizione su scala mondiale ne impedì l’applicazione a lungo termine.”

Nel 1983, la scrittrice e giornalista ebrea/palestinese Livia Rokach[3], figlia dell’ex-ministro degli interni Israel Rokach, in Israele nel Libano: testimonianze del genocidio, commentava, così, l’articolo di Yinon:

“L’Operazione Libano, iniziata quattro mesi dopo la pubblicazione di questo piano, è stata realizzata, e continua a essere eseguita, esattamente lungo le direttive tracciate in questo scritto.”

Nella sua prefazione, Israel Shahak aveva attirato l’attenzione dei lettori sulla convergenza tra questa “strategia per Israele” e il pensiero neoconservatore americano, ispiratore della politica estera degli Stati Uniti d’America con l’elezione di George W. Bush alla Casa Bianca.
La deflagrazione dell’Iraq, le tensioni comunitarie nella maggioranza dei Paesi arabi, l’annessione di Gerusalemme e di buona parte della Cisgiordania conferiscono all’articolo di Oded Yinon, trentotto anni dopo la sua pubblicazione, una funesta attualità. 
In una intervista rilasciata a Paul Balta, pubblicata su Le Monde, il 17 agosto 1982, Tarek Aziz prediceva:

“Perché questo piano di atomizzazione possa riuscire pienamente, bisogna aggredire il punto centrale del dispositivo, vale a dire l’Iraq, l’unico Paese che possiede insieme l’acqua e il petrolio e che persegue l’obiettivo del proprio sviluppo con determinazione. Occorre, dunque, cominciare con lo smembrare l’Iraq, ed è quello che già si sta tentando di fare da più di venti anni.”

Il Piano Yinon è stato di tutto punto ripreso e attualizzato dai circoli neoconservatori che hanno ispirato la diplomazia dell’Amministrazione Bush.
Il progetto di rimodellamento del Medio Oriente attraverso una politica di “caos costruttore” viene, infatti, elaborato negli Anni Novanta, e, poi, illustrato da George W.  Bush[4] in un discorso pronunciato il 26 febbraio 2003 [https://www.youtube.com/watch?v=hJyhqlkaHB0, https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2003/02/20030226-11.html, https://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/02_Febbraio/27/bushattacco.shtml], pochi giorni prima dell’aggressione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti d’America.

“Un Iraq liberato può mostrare il potere della libertà di trasformare quella regione, portando speranza di progresso nella vita di milioni di persone.”

aveva argomentato Bush l’invasione americana in Iraq.
Il progetto, conosciuto con il nome di Greater Middle East Initiative [Iniziativa per il Grande Medio Oriente], mira al rimodellamento di un preteso Grande Medio Oriente, che comprende un vasto insieme di Stati, dal Marocco alla frontiera cinese, con i Paesi arabi, Israele, la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan.
Se questa teoria – che mira in definitiva a consolidare, con l’aiuto di Israele, l’egemonia statunitense in questa parte del mondo che detiene il 65% delle riserve di petrolio e quasi un terzo delle riserve di gas – è stata oggetto di molti commenti, ne sono meno noti, invece, i progetti di ricomposizione geografica che sottintende.
Tuttavia, fin dagli inizi degli Anni Novanta, gli esperti conoscono l’esistenza di nuove carte geografiche del Grande Medio Oriente.
Nell’edizione del mese di giugno del 2006, il mensile militare statunitense Armed Forces Journal pubblicò un articolo dal titolo evocatore: How a better Middle East would look [Come migliorare il Medio oriente] [http://armedforcesjournal.com/blood-borders/], nel quale il tenente colonnello della riserva Ralph Peters, un ex-specialista dell’Intelligence ed esponente del think tank neoconservatore Project for the New American Century, proponeva che le nuove frontiere dei Paesi ivi compresi dovessero “essere rimodellate su basi etniche e confessionali”. A tale proposito, Peters proponeva una mappa che presentava molte similitudini con la mappa di Yinon: costituzione di un Grande Libano [inglobante la costa mediterranea della Siria fino alla frontiera turca]; creazione di uno Stato curdo [comprendente il Nord dell’Iraq, il Nord-Ovest dell’Iran e il Sud-Est anatolico]; frantumazione dell’Iraq che, oltre a perdere la regione settentrionale, dovrebbe essere ulteriormente diviso tra un piccolo Stato sunnita arabo e un grande Stato sciita comprensivo anche della regione saudita di Hasa [tra l’Emirato del Kuwait e la Penisola del Qatar], dove peraltro gli sciiti non sono maggioranza, dell’Arabistan [l’attuale Khuzestan iraniano, popolato da arabi sunniti] e della zona di Bushehr; formazione di una grande Giordania a detrimento dell’Arabia Saudita, che dovrebbe perdere anche la regione delle Città Sante di La Mecca e Medina [Stato autonomo] e l’Asir [a profitto di uno Yemen ingrandito]. Oltre alla sua regione curda, l’Iran dovrebbe perdere il Belucistan che dovrebbe diventare indipendente, ma recuperando la regione afghana di Herat. Il Pakistan si ridurrebbe considerevolmente, con la perdita del Belucistan e una estensione dell’Afghanistan nelle sue regioni pashtun.
Peters si manteneva prudente sulle nuove frontiere di Israele, ma si comprendeva che qualsiasi prospettiva di uno Stato palestinese restava esclusa.
I due grandi perdenti sarebbero stati l’Iraq e l’Arabia Saudita, ossia i due più importanti Paesi arabi.

Nel 2006, Ralph Peters faceva parte del Project for the New American Century, un think tank neoconservatore e filo israeliano presieduto da William Kristol, il cui obiettivo era la promozione del dominio americano  e i cui membri erano i più importanti esponenti dell’Amministrazione Bush: Dick Cheney, vice-presidente degli Stati Uniti d’America; Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa; Elliot Abrams, incaricato della Casa Bianca per il Medio Oriente; Lewis Libby, amico di Benjamin Netanyahu, e Paul Wolfowitz, che è stato il fulcro dell’aggressione e dell’occupazione dell’Iraq.

Queste carte [Before: situazione nel 2006 e After: situazione dopo il rimodellamento] sono state pubblicate nella rivista militare americana AFJ [Armed Forces Journal], nel giugno del 2006[5], dal tenente colonnello a riposo, Ralph Peters, che ha militato in una divisione di fanteria meccanizzata, dal 1976, per proseguire, poi, la sua attività nella Intelligence militare, nel 1980. Autore di molti saggi di strategia delle relazioni internazionali, Ralph Peters si è ritirato dall’esercito nel 1999, mantenendovi, tuttavia, stretti legami e facendo parte della redazione di AFJ, il mensile, fondato nel 1863, che si rivolge agli ufficiali americani, trattando di varie questioni, quali la tecnologia militare, la logistica, la strategia, la dottrina e la tattica.

Il mondo arabo dovrebbe, dunque, essere suddiviso attraverso tagli surrealisti, produttivi di tensioni e divisioni senza fine.
Di fatto, questo nuovo Grande Medio Oriente, concepito su basi confessionali, nazionali ed etniche del tutto arbitrarie, non sarebbe affatto più sicuro di quello attuale, al contrario, diverrebbe una vera e propria polveriera. Ma la cosa non preoccupava Peters – all’epoca membro di un think tank dal nome evocatore, Project for the New American Century, che considerava vitale per gli Stati Uniti d’America intensificare le guerre per assicurare il loro dominio – e, nel 1997, nel corso di una conferenza dichiarava: 
“Il ruolo affidato de facto agli Stati Uniti d’America consisterà [in futuro] nel gestire il mondo a salvaguardia della nostra economia, mantenendolo aperto alla nostra influenza culturale. Per fare ciò noi dovremo fare un bel po’ di massacri”.

Peters è anche l’autore di un’altra formula lapidaria, che ben riassume l’ideologia dei neoconservatori:

“The hearts-and-minds myth: Sorry, but winning means killing.”

Sfortunatamente, queste parole non sono quelle di un invasato che ha tracannato qualche cassa di whisky per dimenticare che abita nel primo Paese occidentale del crimine organizzato, ma quelle di un portavoce dei think tank vicini alla Casa Bianca.
Pierre Hillard, autore di diverse pubblicazioni di geopolitica, rammentò, allora, che:

“Le proposte di Ralph Peters e gli inviti a realizzare cambiamenti radicali delle frontiere del Medio Oriente non sono evidentemente il frutto delle riflessioni di un solo uomo impegnato a occupare in qualche modo il proprio tempo. Molti altri studi sono stati realizzati da organismi militari statunitensi e da molti think tank, per rivedere i limiti frontalieri di questi Stati.”

Se il Progetto per un nuovo secolo americano è scomparso, le idee pericolose che veicolava sono state riprese da altri, come il clan Clinton e sono ancora presenti nelle boîtes à penser atlantiste vicine al potere statunitense.
Dagli Stati Uniti d’America, miliardari finanziano associazioni che organizzano flussi migratori verso l’Europa.
E, dal 2011, miliardari e leaders atlantisti europei conducono la stessa campagna, al fine di favorire una grande ondata di immigrazione verso l’Europa.
Perché miliardari e leaders politici muovono queste processioni di miseria in una Unione Europea che conta, già, 123 milioni di cittadini a rischio di povertà?




Daniela Zini
Copyright © 6 gennaio 2020 ADZ




Una strategia per Israele negli Anni Ottanta

di Oded Yinon è, originariamente, apparso in ebraico su Kivunim [Direzioni], un Giornale per il Giudaismo e il Sionismo, N° 14 Inverno, 5742, febbraio 1982.
Editore: Yoram Beck.
Comitato Editoriale: Eli Eyal, Yoram Beck, Amnon Hadari, Yohanan Manor, Elieser Schweid.
Pubblicato dal Dipartimento di Informazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale, Gerusalemme.

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All’inizio degli Anni Ottanta lo Stato di Israele ha bisogno di una nuova prospettiva per il suo posto, i suoi scopi e gli obiettivi nazionali, in patria e all’estero. Questa esigenza è diventata ancora più importante a causa di una serie di processi centrali che il Paese, la regione e il mondo stanno attraversando. Oggi viviamo le fasi iniziali di una nuova epoca della storia umana, che non è del tutto simile a quella precedente, e le sue caratteristiche sono totalmente diverse da quello che abbiamo finora conosciuto. Ecco perché, da un lato abbiamo bisogno di una comprensione dei processi centrali che caratterizzano questa epoca storica e dall’altro lato abbiamo bisogno di una visione del mondo e di una strategia operativa conforme alle nuove condizioni. L’esistenza, la prosperità e la stabilità dello Stato ebraico dipenderanno dalla sua capacità di adottare un nuovo quadro di riferimento per i suoi affari interni ed esteri.

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Questa epoca è caratterizzata da numerosi tratti che possiamo già diagnosticare, e che simboleggiano una vera e propria rivoluzione nel nostro stile di vita attuale. Il processo dominante è la rottura della prospettiva umanista razionalista considerata la pietra angolare di supporto alla vita e alle conquiste della civiltà occidentale a partire dal Rinascimento. Le opinioni politiche, sociali ed economiche emanate da questo fondamento si basavano su diverse verità che stanno attualmente scomparendo, per esempio, l’idea che l’uomo come individuo è il centro dell’universo e di tutto ciò che esiste al fine di realizzare il suo bisogni materiali di base. Questa posizione viene invalidata nel presente, quando è diventato chiaro che la quantità delle risorse nel cosmo non soddisfa i requisiti dell’uomo, i suoi bisogni economici o i suoi vincoli demografici. In un mondo in cui ci sono quattro miliardi di esseri umani e le risorse economiche ed energetiche che non crescono in proporzione per soddisfare le necessità degli uomini, non è realistico aspettarsi di soddisfare il requisito principale della società occidentale, cioè, il desiderio e l’aspirazione per un consumo illimitato. Il punto di vista che l’etica non abbia alcun ruolo nel determinare la direzione dell’Uomo, ma invece l’abbiano i suoi bisogni materiali sta diventando prevalente oggi, mentre viviamo in un mondo in cui quasi tutti i valori stanno scomparendo. Stiamo perdendo la capacità di valutare le cose più semplici, soprattutto se riguardano la semplice questione di ciò che è bene e ciò che è male.

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La visione delle aspirazioni illimitate dell’uomo e delle sue abilità si restringe di fronte ai tristi fatti della vita, quando assistiamo alla disgregazione dell’ordine nel mondo che ci circonda. La visione che promette la libertà al genere umano sembra assurda alla luce del triste fatto che tre quarti del genere umano vive sotto regimi totalitari. I punti di vista riguardanti l’uguaglianza e la giustizia sociale sono stati trasformati dal socialismo e soprattutto dal comunismo in uno zimbello. Non vi è alcun argomento a supporto della verità di queste due idee, ma è chiaro che non sono state messe in pratica correttamente e che la maggior parte del genere umano ha perso la libertà e la possibilità di vivere nell’uguaglianza e nella giustizia. In questo mondo nucleare in cui ancora viviamo in relativa pace da 30 anni, il concetto di pace e convivenza tra le nazioni non ha significato quando una superpotenza come l’URSS detiene una tale dottrina militare e politica: indi per cui, non sia solo possibile una guerra nucleare, ma necessaria per conseguire l’estinzione del marxismo, e che sia possibile sopravvivere dopo, per non parlare del fatto che si possa essere vittoriosi.

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I concetti fondamentali della società umana, soprattutto quelli d’Occidente, stanno subendo un cambiamento a causa di trasformazioni politiche, militari ed economiche. Così, la potenza nucleare e convenzionale dell’Urss ha trasformato l’epoca che si è appena conclusa in un ultima tregua prima della grande saga che sarà demolire gran parte del nostro mondo in una guerra globale multidimensionale, rispetto a cui le guerre del mondo passato sembreranno un gioco da ragazzi. Il potere del nucleare e delle armi convenzionali, la loro quantità, la loro precisione e la loro qualità rivolteranno la maggior parte del nostro mondo a testa in giù nel giro di pochi anni, e noi, in Israele, dobbiamo allinearci in modo da poter affrontare questa trasformazione. Che è, poi, la principale minaccia per la nostra esistenza e quella del mondo occidentale. La guerra per le risorse del mondo, il monopolio arabo sul petrolio, e la necessità dell’Occidente di importare la maggior parte delle materie prime dal terzo mondo, stanno trasformando la realtà che conosciamo, dato che uno dei principali obiettivi dell’URSS è quello di sconfiggere l’Occidente per ottenere il controllo sulle gigantesche risorse del Golfo Persico e della parte meridionale dell’Africa, in cui la maggior parte dei minerali mondiali sono situati. Possiamo immaginare le dimensioni del confronto globale, che si dovrà affrontare in futuro.

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La dottrina Gorshkov richiede il controllo sovietico degli oceani e delle zone ricche di minerali del Terzo Mondo. Insieme all’attuale dottrina nucleare sovietica che sostiene che sia possibile gestire, vincere e sopravvivere ad una guerra nucleare, nel corso della quale l’Occidente potrebbe benissimo essere distrutto ed i suoi abitanti fatti schiavi al servizio del marxismo-leninismo; sono il principale pericolo per la pace nel mondo e per la nostra stessa esistenza. Dal 1967, i sovietici hanno trasformato l’aforisma di Clausewitz in La guerra è la continuazione della politica con mezzi nucleari, e ne hanno fatto il motto che guida tutte le loro politiche. Già oggi sono occupati ad effettuare i loro obiettivi nella nostra regione e in tutto il mondo, e la necessità di affrontarli diventa l’elemento centrale nella politica di sicurezza del nostro Paese e, naturalmente, in quella del resto del mondo libero. Questa è la nostra grande priorità di politica estera.

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Il mondo arabo musulmano, quindi, non è il principale problema strategico che dovremo affrontare negli anni Ottanta, nonostante il fatto che esso eserciti la principale minaccia contro Israele, a causa della sua crescente potenza militare. Questo mondo, con le sue minoranze etniche, le fazioni e le crisi interne, che è sorprendentemente autodistruttivo, come possiamo vedere in Libano, nell’Iran non arabo e ora anche in Siria, è incapace di affrontare con successo i problemi fondamentali e quindi non costituisce una minaccia reale per lo Stato di Israele, nel lungo periodo, ma solo nel breve periodo in cui il suo potere militare immediato è di grande importanza. Nel lungo periodo, questo mondo non sarà in grado di esistere nel suo quadro presente nelle zone intorno a noi, senza dover passare per veri cambiamenti rivoluzionari. Il mondo arabo musulmano è costruito come una casa temporanea, fatta di carte messe insieme da Francia e Gran Bretagna negli anni venti, senza che i desideri dei suoi abitanti venissero presi in considerazione. È arbitrariamente diviso in 19 Stati, tutti composti da combinazioni di gruppi etnici e minoranze ostili gli uni agli altri, in modo che ogni stato arabo musulmano al giorno d’oggi deve affrontare la distruzione etnica sociale al suo interno, e in alcuni una guerra civile è già in corso. La maggior parte degli arabi, 118 milioni su 170, vivono in Africa, soprattutto in Egitto, oggi 45 milioni.

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A parte l’Egitto, tutti gli Stati del Maghreb sono costituiti da un misto di arabi e berberi non arabi. In Algeria vi è già una guerra civile tra le due etnie nel Paese, che infuria nelle montagna di Kabile. Marocco e Algeria sono in guerra tra loro per il Sahara spagnolo, oltre alle lotte interne in ciascuno di essi. L’Islam militante mette in pericolo l’integrità della Tunisia e Gheddafi organizza guerre che sono distruttive dal punto di vista arabo, per un Paese scarsamente popolato e che non potrà diventare una nazione potente. È per questo che in passato egli tentò l’unificazione con gli Stati che sono più genuini, come l’Egitto e la Siria. Il Sudan, lo Stato più lacerato del mondo musulmano arabo di oggi è costruito su quattro gruppi ostili gli uni agli altri, una minoranza araba sunnita che governa la maggioranza degli africani non arabi, pagani e cristiani. In Egitto c’è una maggioranza musulmana sunnita di fronte a una grande minoranza di cristiani che è dominante nell’Alto Egitto, circa 7 milioni. Anche Sadat, nel suo intervento dell’8 maggio, espresse il timore che possano aspirare ad un loro proprio stato, qualcosa come un secondo Libano cristiano in Egitto.

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Tutti gli Stati arabi a est di Israele sono lacerati, spezzati e crivellati da conflitto interiori ancor più di quelli del Maghreb. La Siria fondamentalmente non differisce dal Libano salvo che per il forte regime militare che la governa. Ma la vera e propria guerra civile che si svolge attualmente tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita alawita, un mero 12% della popolazione, che però domina il Paese, testimonia la gravità del problema nazionale.

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L’Iraq non è diverso nella sostanza dai suoi vicini, anche se la sua maggioranza è sciita e la minoranza sunnita è quella dominante. Il sessantacinque per cento della popolazione non ha voce in politica, dove una élite di 20 per cento detiene il potere. Inoltre c’è una grande minoranza curda nel nord del Paese, e se non fosse per la forza del regime al potere, l’esercito e le entrate petrolifere, il futuro dello stato iracheno non sarebbe diverso da quello del Libano in passato, o della Siria oggi. I semi del conflitto interno e della guerra civile sono evidenti già oggi, soprattutto dopo l’ascesa di Khomeini al potere in Iran, un leader che gli sciiti in Iraq vedono come il loro leader naturale.

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Tutti i principati del Golfo e l’Arabia Saudita sono costruiti su di una delicata casa di sabbia in cui vi è solo petrolio. In Kuwait, i kuwaitiani costituiscono solo un quarto della popolazione. In Bahrain, gli sciiti sono la maggioranza, ma sono privi di potere. Negli Emirati Arabi Uniti, gli sciiti sono ancora una volta la maggioranza, ma i sunniti sono al potere. Lo stesso è vero per l’Oman e lo Yemen del Nord. Anche nello Yemen marxista del Sud c’è una considerevole minoranza sciita. In Arabia Saudita la metà della popolazione è straniera, egiziana e yemenita, ma una minoranza saudita detiene il potere.

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La Giordania è in realtà palestinese, governata da una minoranza beduina Trans-Giordana, ma la maggior parte delle forze armate e di certo la burocrazia sono ora palestinesi. È un dato di fatto che Amman sia palestinese come Nablus. Tutti questi Paesi hanno eserciti potenti, relativamente parlando. Ma c’è un problema anche lì. L’esercito siriano è oggi per lo più sunnita con un corpo ufficiali alawita, l’esercito iracheno è sciita con comandanti sunniti. Questo ha un grande significato nel lungo periodo, ed è per questo che non sarà possibile conservare la fedeltà dell’esercito per un lungo periodo a meno che si tratta del solo comune denominatore: l’ostilità nei confronti di Israele, ma oggi anche questo è insufficiente.

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Accanto agli arabi, divisi come sono, l’altro stato musulmano condivide una situazione simile. La metà della popolazione iraniana è costituita da un gruppo di lingua persiana e l’altra metà da un gruppo etnico turcomanno. La popolazione turca dispone di una maggioranza musulmano sunnita pari a circa il 50%, e di due grandi minoranze, 12 milioni di sciiti alawiti e 6 milioni di sunniti curdi. In Afghanistan ci sono 5 milioni di sciiti, che costituiscono un terzo della popolazione. Nel Pakistan sunnita ci sono 15 milioni di sciiti, che mettono in pericolo l’esistenza di quello stato.

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Questa immagine delle minoranze etniche nazionali che si estende dal Marocco all’India e dalla Somalia alla Turchia, sottolinea la mancanza di stabilità e la possibilità di una rapida degenerazione in tutta la regione. Quando questo quadro si aggiunge a quello economico, vediamo come l’intera regione è costruita come un castello di carte, incapace di sopportare i suoi gravi problemi.

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In questo mondo gigantesco e fratturato ci sono alcuni gruppi di ricchi e una massa enorme di persone povere. La maggior parte degli arabi hanno un reddito medio annuo di 300 dollari. Questa è la situazione in Egitto, nella maggior parte dei Paesi del Maghreb, tranne per la Libia, e in Iraq. Il Libano è lacerato e la sua economia sta cadendo a pezzi. E’ uno stato in cui non vi è alcun potere centralizzato, ma solo 5 autorità sovrane de facto; i cristiani nel nord, sostenuti dai siriani e sotto il dominio del clan Franjieh, in Oriente una zona di conquista diretta siriana, nel centro un’enclave falangista controllata dai cristiani, nel sud e fino al fiume Litani una regione prevalentemente palestinese controllata dall’OLP e dallo stato dei cristiani del maggiore Haddad infine mezzo milione di sciiti. La Siria è in una situazione ancora più grave e anche l’assistenza che otterrebbe in futuro, dopo l’unificazione con la Libia non sarà sufficiente per affrontare i problemi fondamentali dell’esistenza e il mantenimento di un grande esercito. L’Egitto è nella situazione peggiore: milioni di persone sono sull’orlo della fame, la metà della forza lavoro è disoccupata, e l’alloggio è scarso in questa zona più densamente popolata del mondo. Fatta eccezione per l’esercito, non vi è un singolo reparto operativo in modo efficiente e lo Stato è in una condizione permanente di fallimento e dipende interamente dall’assistenza estera americana garantita dalla pace.

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Negli Stati del Golfo, l’Arabia Saudita, la Libia e l’Egitto vi è la più grande accumulazione di denaro e di petrolio al mondo, ma quelli che ne godono sono piccole élites che non hanno una larga base di sostegno e di fiducia, qualcosa che nessun esercito può garantire. L’esercito saudita con tutta la sua attrezzatura non può difendere il regime da pericoli reali in casa o all’estero, e ciò che ha avuto luogo a La Mecca nel 1980, è solo un esempio. Una situazione triste e molto burrascosa circonda Israele e crea sfide per esso, problemi, rischi, ma anche ampie opportunità per la prima volta dal 1967. Le probabilità sono le occasioni perse in quel momento, ma che diventeranno realizzabili negli anni Ottanta in misura e secondo dimensioni che non possiamo nemmeno immaginare oggi.

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La politica di pace e la restituzione dei territori, attraverso una dipendenza dagli Stati Uniti d’America, preclude la realizzazione della nuova opzione creata per noi. Dal 1967, tutti i governi di Israele hanno limitato i nostri obiettivi nazionali fino a restringerne le esigenze politiche da un lato, mentre dall’altro i pareri distruttivi in casa neutralizzano le nostre capacità, sia in patria che all’estero. Non riuscire a prendere provvedimenti nei confronti della popolazione araba nei nuovi territori, acquisiti nel corso di una guerra a cui ci hanno costretto, è il grande errore strategico commesso da Israele, la mattina dopo la Guerra dei Sei Giorni. Avremmo potuto salvare noi stessi tutto il conflitto aspro e pericoloso fin da allora, se avessimo dato la Giordania ai palestinesi che vivono a ovest del fiume Giordano. Così facendo avremmo neutralizzato il problema palestinese che abbiamo oggi di fronte, al quale abbiamo trovato soluzioni che non rappresentano veramente nessuna soluzione, come il compromesso territoriale o l’autonomia che costituisce, nei fatti, la stessa cosa. Oggi, ci troviamo improvvisamente ad affrontare immense opportunità per trasformare a fondo la situazione e dobbiamo farlo nel prossimo decennio, altrimenti non potremo sopravvivere come stato.

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Nel corso degli anni Ottanta, lo Stato di Israele dovrà passare attraverso cambiamenti di vasta portata nel suo regime politico ed economico nazionale, insieme a cambiamenti radicali nella sua politica estera, al fine di resistere alle sfide globali e regionali di questa nuova epoca. La perdita dei campi petroliferi del Canale di Suez, dell’immenso potenziale di petrolio, gas e delle altre risorse naturali nella penisola del Sinai, che è geomorfologicamente identica ai ricchi Paesi produttori di petrolio della regione, si tradurrà in una perdita di energia nel prossimo futuro che distruggerà la nostra economia nazionale: un quarto del nostro presente PIL così come un terzo del budget che viene utilizzato per l’acquisto di petrolio. La ricerca di materie prime nel Neghev e sulla costa non potrà, in un prossimo futuro, modificare tale stato di cose.

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Riconquistare la penisola del Sinai con le sue risorse attuali e potenziali è dunque una priorità politica ostacolata da Camp David e dagli accordi di pace. La colpa si trova, naturalmente, con l’attuale governo israeliano e con i governi che hanno aperto la strada alla politica del compromesso territoriale, governi allineati fin dal 1967. Gli egiziani non avranno alcun bisogno di mantenere il trattato di pace dopo la restituzione del Sinai, e faranno tutto il possibile per tornare all’ovile del mondo arabo e dell’URSS al fine di ottenerne sostegno e assistenza militare. Gli aiuti americani sono garantiti solo per un breve periodo, entro i termini della pace e l’indebolimento degli Stati Uniti d’America, sia in patria che all’estero porterà ad una riduzione degli aiuti. Senza petrolio ne il reddito da esso prodotto, con l’enorme spesa pubblica a cui far fronte, nelle condizioni attuali non saremo in grado di passare il 1982, e dovremo agire al fine di ritornare alla situazione che esisteva nel Sinai prima della visita di Sadat e dell’errato accordo di pace firmato con lui nel marzo 1979.

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Israele ha due vie principali attraverso cui realizzare questo scopo, una diretta e l’altra indiretta. L’opzione diretta è quella meno realistica a causa della natura del regime e del governo di Israele, così come la saggezza di Sadat che ha ottenuto il nostro ritiro dal Sinai, che è stato, dopo la guerra del 1973, il suo successo più importante da quando ha preso il potere. Israele non romperà il trattato unilateralmente, né oggi, né nel 1982, a meno che sia duramente incalzato economicamente e politicamente, e l’Egitto non ci fornisca per la quarta volta la scusa per invadere di nuovo il Sinai. Ciò che rimane dunque, è l’opzione indiretta. La situazione economica in Egitto, la natura del regime e la sua politica pan-araba, porterà a una situazione dopo l’aprile 1982, nella quale Israele sarà costretto ad agire direttamente o indirettamente, al fine di riprendere il controllo del Sinai come riserva strategica, economica ed energetica per il lungo periodo. L’Egitto non costituisce un problema strategico militare a causa dei conflitti interni e potrebbe essere guidato indietro alla situazione di guerra post 1967 in non più di un giorno.

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Il mito dell’Egitto quale leader forte del mondo arabo è stato demolito nel 1956 e sicuramente non è sopravvissuto al 1967, ma la nostra politica, della restituzione del Sinai, è servita a trasformare il mito in realtà. Tuttavia, il potere dell’Egitto in proporzione sia al solo Israele sia nei confronti del resto del mondo arabo si è ridotto di circa il 50 per cento dal 1967. L’Egitto non è più il principale potere politico nel mondo arabo ed è sull’orlo di una crisi economica. Senza assistenza straniera la crisi arriverà domani. Nel breve periodo, a causa della restituzione del Sinai, l’Egitto guadagnerà parecchi vantaggi a nostre spese, ma solo nel breve periodo fino al 1982, e non riuscirà a cambiare gli equilibri di potere a suo vantaggio, e possibilmente porterà alla sua caduta. L’Egitto, nel suo attuale quadro politico interno, è già cadavere, tanto più se si tiene conto della crescente spaccatura tra musulmani e cristiani. Dividere l’Egitto territorialmente in regioni geografiche distinte è l’obiettivo politico di Israele negli anni Ottanta sul fronte occidentale.

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L’Egitto è diviso e lacerato da molti focolai di autorità. Se l’Egitto va in pezzi, Paesi come la Libia, il Sudan o anche gli Stati più lontani non continueranno ad esistere nella forma attuale e si uniranno alla rovina e alla dissoluzione dell’Egitto. La visione di uno Stato cristiano copto in Egitto insieme a un certo numero di Stati più deboli con potenza molto localizzata e senza un governo centralizzato come è stato fino ad oggi, è la chiave per uno sviluppo storico che è stato solo rallentato con l’accordo di pace, ma che sembra inevitabile nel lungo periodo.

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Il fronte occidentale, che in superficie appare più problematico, è di fatto meno complicato del fronte orientale, dove la maggior parte degli eventi che dettano i titoli ai giornali hanno avuto luogo di recente. La dissoluzione totale del Libano in cinque province, serve da precedente per tutto il mondo arabo, inclusi Egitto, Siria, Iraq e penisola arabica, e sta già seguendo quell’orientamento. La dissoluzione di Siria e Iraq in aree etnicamente o religiosamente uniche come in Libano, è l’obiettivo primario di Israele sul fronte orientale nel lungo periodo, mentre la dissoluzione del potere militare di questi Stati costituisce l’obiettivo primario a breve termine. La Siria cadrà a pezzi, in conformità con la sua struttura etnica e religiosa, divisa in diversi Stati, come in oggi il Libano, in modo che ci sarà uno stato sciita alawita lungo la sua costa, uno stato sunnita nella zona di Aleppo, un altro stato sunnita a Damasco ostile al suo vicino del nord, e i drusi che si insedieranno in uno stato forse anche nel nostro Golan, e certamente nel’Hauran e nel nord della Giordania. Questo stato di cose sarà la garanzia per la pace e la sicurezza nella zona, nel lungo periodo, e questo obiettivo è già alla nostra portata oggi.

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L’Iraq, ricco di petrolio da una parte e lacerato internamente dall’altra, è un candidato garantito per gli obiettivi di Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. Nel breve periodo è il potere iracheno che costituisce la più grande minaccia per Israele. Una guerra Iraq-Iran ridurrà in pezzi l’Iraq e provocherà la sua caduta, anche prima che sia in grado di organizzare un ampio fronte di lotta contro di noi. Ogni tipo di confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada verso l’obiettivo più importante, dividere l’Iraq come in Siria e in Libano. In Iraq, una divisione in province lungo linee etnico-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano è possibile. Così, tre o più Stati esisteranno attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul. Le zone sciite nel sud separate da quelle sunnita e curda del nord. E’ possibile che l’attuale scontro iraniano-iracheno approfondisca questa polarizzazione.
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L’intera penisola arabica è un candidato naturale alla dissoluzione a causa delle pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile soprattutto in Arabia Saudita, indipendentemente dal fatto che la sua forza economica a base di petrolio rimanga intatta o se invece venga diminuita nel lungo periodo, le divisioni interne e le disgregazioni sono uno sviluppo chiaro e naturale alla luce dell’attuale struttura politica.

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La Giordania costituisce un obiettivo strategico immediato nel breve periodo ma non nel lungo periodo, poiché non costituisce una minaccia reale nel lungo periodo dopo il suo scioglimento, la cessazione del lungo dominio del re Hussein e il trasferimento del potere ai palestinesi nel breve periodo.

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Non vi è alcuna possibilità che la Giordania continui ad esistere nella sua struttura attuale per molto tempo, e la politica di Israele, sia in guerra che in pace, deve essere orientata alla liquidazione della Giordania sotto l’attuale regime e il trasferimento del potere alla maggioranza palestinese. La modifica del regime a est del fiume causerà anche la risoluzione del problema dei territori densamente popolati dagli arabi ad ovest del Giordano. Sia in guerra che in condizioni di pace, l’emigrazione dai territori e il loro congelamento economico e demografico, sono le garanzie per il prossimo cambiamento su entrambe le rive del fiume, e noi dobbiamo essere attivi al fine di accelerare questo processo nel prossimo futuro. Il piano per l’autonomia dovrebbe essere respinto, così come ogni compromesso o divisione dei territori, a causa dei piani del’Olp e di quelli degli stessi arabi israeliani, il piano Shefa’amr del settembre del 1980, non è possibile andare a vivere in questo Paese nella situazione attuale, senza separare le due nazioni, gli arabi in Giordania e gli ebrei nelle zone ad ovest del fiume. La coesistenza genuina e la pace regnerà sulla terra solo quando gli arabi capiranno che senza dominio ebraico tra il Giordano e il mare non avranno alcuna esistenza né sicurezza. Una loro nazione sarà possibile solo in Giordania.

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All’interno di Israele, la distinzione tra i confini del ‘67 e i territori al di là di essi, quelli del ‘48, è sempre stata priva di significato per gli arabi e al giorno d’oggi non ha più alcun significato neanche per noi. Il problema deve essere visto nella sua interezza, senza la linea verde del ‘67. Dovrebbe essere chiaro, in ogni futura situazione politica e militare, che la soluzione del problema degli arabi indigeni arriverà solo quando riconosceranno l’esistenza di Israele nei confini sicuri fino al fiume Giordano e al di là di esso, come un nostro bisogno esistenziale in questa difficile epoca, l’epoca nucleare in cui presto entreremo. Non è più possibile vivere con tre quarti della popolazione ebraica concentrata sulla battigia, è molto pericoloso in un epoca nucleare.

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La dispersione della popolazione è quindi un obiettivo strategico nazionale di primissimo ordine, in caso contrario, dovremo cessare di esistere entro i confini. Giudea, Samaria e Galilea sono la nostra unica garanzia per l’esistenza nazionale, e se non diventiamo maggioranza nelle zone di montagna, non riusciremo a governare questo Paese e saremo come i Crociati, che l’hanno perso perché non era loro in ogni caso, ma soprattutto perché erano stranieri. Riequilibrare il Paese demograficamente, strategicamente ed economicamente è l’obiettivo più alto e più centrale di oggi. Cominciando dallo spartiacque montagnoso da Bersabea all’Alta Galilea, si realizza l’obiettivo nazionale generato da una maggiore considerazione strategica che sta sistemando la parte montuosa del Paese, che è vuota di ebrei oggi.

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Realizzare i nostri obiettivi sul fronte orientale dipende in primo luogo dalla realizzazione di questo obiettivo strategico interno. La trasformazione della struttura politica ed economica, in modo da consentire la realizzazione di questi obiettivi strategici, è la chiave per raggiungere l’intera variazione. Abbiamo bisogno di cambiare un’economia centralizzata in cui il governo è ampiamente coinvolto, in un mercato aperto e libero, nonché di cambiare con le nostre mani la dipendenza dal contribuente degli Stati Uniti d’America, in una vera e propria infrastruttura economica produttiva. Se non siamo in grado di fare questo cambiamento liberamente e volontariamente, saremo costretti in esso dagli sviluppi mondiali, in particolare in materia di economia, energia e politica, e dal nostro isolamento crescente.

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Da un punto di vista militare e strategico, l’Occidente guidato dagli Stati Uniti d’America non è in grado di resistere alle pressioni globali dell’URSS in tutto il mondo, e Israele deve quindi stare da solo negli anni Ottanta, senza alcuna assistenza estera, militare o economica, e questo rientra nelle nostre capacità di oggi, senza compromessi. I rapidi cambiamenti del mondo porteranno un cambiamento anche nella condizione della comunità ebraica mondiale per cui Israele diventerà non solo l’ultima istanza, ma l’unica opzione esistenziale. Non possiamo supporre che gli ebrei degli Stati Uniti d’America, e le comunità di Europa e America Latina continuino ad esistere nella loro forma attuale in futuro.

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La nostra esistenza in questo Paese è certa, e non vi è alcuna forza che potrebbe mandarci via da qui ne con la forza ne con l’inganno [come ha fatto Sadat]. Nonostante le difficoltà dell’errata politica di pace, del problema degli arabi israeliani e di quelli dei territori, siamo in grado di affrontare efficacemente questi problemi nel prossimo futuro.


[1] Già dal 1957, il primo ministro israeliano David Ben Gurion coltivava l’idea di spezzettare il Libano su base confessionale.

[2] Israel Shahak nasce a Varsavia, il 28 Aprile 1933, e muore, a Gerusalemme, il 2 luglio 2001.
Nel 1943, i nazisti lo deportano insieme alla madre nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Scampati alla Shoah, nel 1945, emigrano in Palestina.
Fa il servizio di leva presso una unità di élite dell’esercito israeliano e frequenta la Hebrow University, a Gerusalemme, dove si laurea in chimica, nel 1961.
Fino da giovane è critico verso numerosi aspetti deleteri dell’ebraismo classico [compreso il razzismo], verso la natura reazionaria del sionismo e l’oppressivo carattere sionista dello Stato di Israele.
Era apprezzato in Israele e nel resto del mondo, anche presso gli Arabi.
Per più di trenta anni denunciò strenuamente la negazione dei diritti umani in Israele e l’oppressione del Popolo palestinese, sostenendo, in quanto sopravvissuto alla Shoah, che gli oppressi possono divenire a loro volta oppressori.
Per Edward Said era “un uomo coraggioso che dovrebbe essere onorato per i servizi che ha reso all’umanità” e per Gore Vidal “l’ultimo, ma non l’ultimo dei grandi profeti’’.
Shahak non amava le organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti d’America e criticava il loro cieco allineamento alla politica del Governo israeliano nei confronti degli arabi e in particolare dei palestinesi. Li accusava di esercitare pressioni per soffocare il dissenso e di servirsi dell’Olocausto per ottenere finanziamenti e sostegno politico. A causa di ciò fu anche minacciato di morte.
In Open Secrets: Israeli Nuclear and Foreign Policies, Shahak analizza la politica estera israeliana, tra il 1992 ed il 1995, tesa a condurre una pratica segreta di espansionismo su molti fronti per conseguire il controllo della Palestina e dell’intero Medio Oriente.
A Israel Shahak si deve la traduzione dall’ebraico all’inglese del Piano Yinon.

[3] Livia Rokach lavorava in Italia per la radio israeliana, che la licenziò per le notizie “non allineate” che aveva dato sulla Guerra dei Sei giorni. Scelse di restare in Italia e svolse una intensa opera pubblicistica contro l’imperialismo e tutte le ingiustizie. Morì suicida a Roma nel 1984. Nessuno volle pubblicare il suo libro, Vivere con la spada, in Italia. Grazie a Noam Chomsky, il libro uscì negli Stati Uniti d’America, nonostante le minacce di azione giudiziaria dello Stato d’Israele. 

[4] Nel 2005, dopo anni di silenzio, l’ex-segretario della Difesa Donald Rumsfeld, uno dei più accaniti difensori della Guerra in Iraq, in una intervista al Times londinese aveva, a sorpresa, criticato, duramente, l’ex-presidente George W. Bush:
“L’idea che si possa modellare una democrazia in Iraq mi sembrava irreale. Ero preoccupato quando sentii quelle parole.”
E aveva aggiunto:
“Io non sono un americano che pensa che il nostro particolare modello di Democrazia possa essere replicato da altri paesi in ogni momento della loro Storia.”

[5] The Military Times Media Group  pubblica: Army Times, Navy Times, Air Force Times e Marine Corps Times.

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