LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione della:
LETTERA DI FARZAD KAMANGAR
Dicembre 2009 – Evin
Non dimenticherò che, in questo Paese, le parole si trasformano, talvolta, in “crimini” e in “peccati imperdonabili”, se solo vengono pronunciate. Il tratto di una penna su un foglio bianco può “turbare lo spirito del lettore” e portare al perseguimento giudiziario. Esprimere i propri pensieri può essere considerato “propaganda”. La simpatia può divenire “cospirazione” e una manifestazione può essere ritenuta un tentativo di “rovesciamento (del regime)”. Le parole hanno un peso legale, quindi, si deve fare attenzione.
Non dimenticherò di educare i miei occhi a non credere a tutto quello che vedono, la mia lingua a non ripetere tutto. Quello che sento, ogni notte, non è un grido, un’onda o una tempesta. Ogni notte, sento l’eco “della polvere e della sporcizia” che tengono sveglia la città, tutta la notte.
Non dimenticherò che in città, non vi è né povertà, né protesta, né inflazione, né disoccupazione, né ingiustizia, né fame, né disuguaglianza, né oppressione, né tirannia, né menzogna, né condotta immorale e contraria all’etica. Sono parole usate e difese dai nemici.
Ora, nondimeno, sotto la pelle della città, accade qualcosa che suggerisce al poeta le parole, che ispira un soggetto e una sceneggiatura al regista, che rende il coraggio agli anziani e la speranza ai giovani, qualcosa che spinge i disillusi e i disperati ad agire. Ora, il cuore del mondo sembra battere nella città.
È come se Tehran fosse divenuta il meridiano di Greenwich del mondo: un riferimento. Nessuno dorme finché gli abitanti della città non si addormentano. E finché non si svegliano, il nostro emisfero non vede la luce del giorno.
Ora, alcun bisogno di percorrere il mondo per sapere dove il cuore fa soffrire, dove lo schizzo d’inchiostro abbandona alla solitudine. Alcun bisogno di recarsi nelle regioni in crisi per trovare soggetti da fotografare. Per comporre o per cantare, alcun bisogno di sentire il dolore dei palestinesi, degli iracheni e degli afghani. Le note e i ritmi si accorderanno a quelli delle madri inquiete della città. Il ritmo profondo della musica si accorderà al ritmo della bastonatura sulla schiena e sul capo del popolo.
Ora, il tempo di luglio è divenuto autunno. Racconta di una foresta mutata in deserto. Si vede tutto, anche se la televisione è cieca. Si sente tutto, anche se la radio è sorda. Le parole non scritte appaiono dietro le righe nere dei giornali, anche se il giornale è divenuto muto. Si sente, si comprende tutto, nonostante la cinta delle spesse alte mura di Evin.
Ora, io non erro più solo nelle stradine della nostra città. Il mio cuore è sempre in Haft-e tir Square, in Enqelab Avenue e in Jomhuri Avenue. Avevo un fiore in mano; l’ho offerto alle madri in lutto della città.
Oggi, non si tratta più soltanto della solitudine di Ebrahim nella prigione di Sanandaj, né dei miei fratelli e delle mie sorelle, isolati nelle prigioni di Sanandaj, Mahabad e Kermanshah. Le loro sofferenze mi opprimono il cuore. Ho dozzine di fratelli e sorelle detenuti qui. Io scoppio in lacrime quando vedo i loro volti sofferenti e le loro vesti strappate. Io sono fiero di avere tali fratelli e tali sorelle.
La città non è più quel luogo che mi era straniero, grigio, inquinato, soffocato da alti edifici. Ora, la città è piena di Nede e di Sohrab. Come se, al termine di lunghi anni, la “farfalla della libertà” avesse attraversato la città, in volo, per giungere fino al cuore del popolo.
Prigione di Evin, 5 dicembre 2009
Farzad Kamangar
Traduzione di Daniela Zini
Copyright © 13 agosto 2011
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