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domenica 12 febbraio 2017

LETTERE DALLA SIRIA Lettera 9 22 marzo 2012 (traduzione di Daniela Zini)



LETTERE DALLA SIRIA

Lettera 9

22 marzo 2012

Buongiorno!
Ieri, sono andata con un’amica a trovare, nella periferia di Damasco, una nostra conoscente. Quest’ultima ci ha proposto di andare a fare le condoglianze alla madre di un giovane ucciso, una settimana prima.
Era impossibile rifiutare.
Abbiamo portato dei fiori, perché era la festa della mamma.
Si è seduta di fronte a noi.
Per avviare la conversazione, le abbiamo chiesto cosa fosse accaduto.
Ha risposto che non le avevano reso il corpo di suo figlio.
I notabili della città erano andati alla sede dei mukhabarat [servizi segreti] e all’ospedale militare, dove era, forse, deceduto; ma si erano sentiti rispondere che non era là. Avevano chiesto a tutte le sedi dei mukhabarat [servizi segreti] e a tutti gli ospedali, ma tutti avevano negato di ospitare il giovane o di essere in possesso del suo cadavere.
Ci ha raccontato che era, già, stato arrestato, due volte, e che i segni delle torture erano stati, sempre, visibili sul suo corpo.
“Un giorno, mi ha detto che era mille volte meglio morire che essere arrestati. La terza volta che sono venuti a cercarlo, è fuggito di casa. Si è nascosto in una fattoria con alcuni amici. Ma le forze di sicurezza li hanno circondati. Hanno cercato di salvarsi in auto, ma sono stati colpiti da un colpo di mortaio. Quattro di loro, che stavano sul sedile posteriore, sono stati uccisi sul colpo. Non ne rimanevano che tre, compreso lui. Ma era ferito e sanguinava. Ha detto ai suoi amici, che lo avevano portato a una certa distanza: 
“Lasciatemi e salvatevi. È preferibile che voi due vi salviate anziché morire tutti e tre.”
Allora, lo hanno lasciato recitare le due chahadas, e sono fuggiti via. È da loro che ho appreso la storia.”
Gli stessi giovani avevano raccontato a sua madre che, sul cammino, avevano visto un custode che lavorava in una fattoria vicina, al quale avevano affidato il ferito.
La madre era andata a chiedere a quell’uomo.
Le aveva risposto che i carri avevano portato via il giovane.
Non ha rivisto il corpo di suo figlio.
Non sa dove si trovi.
Concluse la sua storia con un lungo sospiro.
Poi, ci guardò e disse:
“Forse, è vivo…
Forse, è riuscito a fuggire da solo…
Forse, il custode lo ha raccolto e lo ha curato senza dirmelo…
Forse, nel carro, vi era un soldato buono, che si è mosso a compassione e lo ha portato da qualche parte perché lo curassero…”
Poi, abbassò la testa e le lacrime colarono dagli occhi:
“O, forse, è morto e hanno utilizzato il suo corpo per le esplosioni di piazza Tahrir…
Talvolta, mi dico che hanno, forse, preso i suoi organi, perché era, ancora, vivo.
O, allora, forse…”
Le lacrime la soffocavano e noi piangemmo insieme a lei.
Sì, tutte queste ipotesi sono verosimili.  
E, forse, non accadono che in Siria.


 (traduzione di Daniela Zini)

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