LETTERE DALL’IRAN
Oggi vi propongo la traduzione della:
LETTERA APERTA DI BAHAREH MAQAMI
Questa Lettera Aperta di Bahareh Maqami, attualmente rifugiata in Germania, è stata pubblicata, l’11 aprile 2010, su diversi siti iraniani, che si mobilitano contro il regime in Iran.
Il mio nome è Bahar (Primavera in persiano).
È primavera e io vi scrivo di fiori, ma di fiori dai petali dispersi. Vi scrivo di verdi virgulti, ma di virgulti schiacciati e calpestati dall’odio, un odio per tutto ciò che è bello e che è fatto a pezzi da anime sozze, un odio per coloro che vogliono giustizia da una banda di venduti.
Vi scrivo di coloro che non sono veri uomini.
Il mio nome è Bahareh Maqami e ho ventotto anni. Non resta più niente di me e non ho, dunque, ragione alcuna per celare il mio nome.
Ho perso tutto quello che contava ai miei occhi, in un solo giorno.
Ho perso i miei parenti, i miei amici, i miei vicini, i miei compagni, i miei collaboratori e i miei colleghi.
Ho perso tutto.
In modo iniquo, coloro che pretendono essere degli uomini mi hanno rubato tutto.
Hanno rubato la mia vita.
Ora che ho lasciato il mio Paese, vorrei condividere il mio dolore con qualcuno, anche solo per una volta.
Vorrei anche chiedere agli amici, che hanno subito la sofferenza di tale esperienza, di scriverne.
Debbono scrivere di quello che è loro accaduto.
Se temono per la loro vita o per il loro buon nome, usino degli pseudonomi, ma scrivano.
Debbono scrivere perché la Storia sappia quello che è accaduto alla nostra generazione, a questa generazione in lutto.
Debbono scrivere, soprattutto, per coloro che verranno dopo di noi e vivranno in un Iran libero, che sappiano il prezzo che è stato pagato per la loro libertà, che sappiano quante vite innocenti siano state sacrificate e quante riposte speranze siano andate perdute.
Debbono sapere delle schiene spezzate e delle ginocchia piegate!
Quando mio padre ha saputo, la sua schiena si è spezzata. Ne è rimasto stroncato.
Mia madre è invecchiata di cento anni, in una notte.
E, quanto a mio fratello, non riesco più a guardarlo negli occhi e lui non riesce più a guardare nei miei. Non vuole che io soffra più di quanto abbia già sofferto. Quando ha saputo, è stato come se gli avessero sottratto la propria virilità. Quando ha saputo che esistono individui che pretendono essere degli uomini, ma degli uomini non conservano che l’organo genitale, ha iniziato a odiare la sua virilità.
Per loro, la onorabilità, la dignità e la castità non hanno significato.
Ero una insegnante di scuola elementare.
Insegnavo ai piccoli fiori del mio Paese a leggere e a scrivere.
Insegnavo loro:
“Papà porta l’acqua.”
“Quell’uomo arriva.”
“Quell’uomo porta il pane.”
La mia immagine dell’uomo era quella di chi porta il pane. Aspettavo che arrivasse. E ora, questa immagine è cambiata. È di un bruto, accecato dal proprio desiderio. Non posso dimenticare il suo odore fetido di sudore. Ho, sempre, paura che possa tornare. Salto giù dal letto, nel cuore della notte, per timore dei suoi passi. Tutto il mio corpo trema al minimo rumore e il mio cuore si mette a battere più forte per la paura che venga. Sono, sempre, pronta alla fuga. Lascio, tutte le notti, le luci accese e passo, tutte le giornate, nel pianto e nella disperazione.
La nostra casa era in khiaban-e Kargar-e Shomali. Stavo andando alla moschea Qoba con mio fratello quando sono stata arrestata. Mi hanno picchiato, mi hanno portata via. Hanno fatto di me bottino. Come diceva il nostro antico poeta Hafez:
“Hanno fatto quello che facevano i mongoli.”
Alcuni hanno avuto le braccia spezzate, altri le gambe spezzate e altri le schiene spezzate. Altri ancora, come me, hanno avuto l’anima spezzata, come se tutta l’umanità si fosse separata da me.
Ero la primavera.
Ora, sono morta.
Sono un papavero falciato.
Vorrei pregare chi legge questa lettera e conosce qualcuno che, come me, è stato vittima di stupro, di usargli gentilezza. Di essergli accanto. Per me e per tutti quelli come me, nella nostra cultura, lo stupro non è soltanto un colpo inferto a una singola persona, ma a tutta la sua famiglia, a tutto il suo clan.
Una vittima di stupro non guarisce con il tempo.
Al minimo sguardo di suo padre, le ferite si aprono di nuovo.
A ogni lacrima di sua madre. il suo cuore si spezza di nuovo.
I parenti, gli amici, i vicini, tutti tagliano i rapporti.
Noi siamo stati costretti a vendere sotto costo la nostra casa e a trasferirci a Karaj (nella periferia di Tehran). Ma non ci siamo restati a lungo. Gli agenti hanno trovato, in poco tempo, il nostro nuovo indirizzo e ci hanno seguito. Si tenevano all’angolo della strada e abbozzavano un risolino ogni volta che mio padre passava di là. Abbiamo lasciato tutto e siamo emigrati.
Alla loro non più giovane età, i miei genitori sono divenuti dei rifugiati in un campo. Posso ben affermare che le ferite culturali sono, di gran lunga, peggiori di quelle fisiche. Sono molti quelli che sorridono quando sentono parlare di stupro.
Vi assicuro che non c’è proprio nulla di divertente in uno stupro!
È la sofferenza di una famiglia semplice. È una ragazza o un ragazzo che perde la propria considerazione e perdere la considerazione dell’amore non ha niente di divertente. Quelli che mi hanno stuprato ridevano. Erano in tre. Tutti e tre erano sudici e con la barba. Avevano un accento orribile e la bocca maleodorante. Hanno distrutto tutta la mia famiglia. Senza curarsi della mia verginità, mi hanno accusata di essere una puttana e mi hanno costretto a firmare una dichiarazione per provare che fossi una prostituta. Non ho più vergogna a dirlo e ne sono, addirittura, orgogliosa: mi hanno dato della puttana. Mi hanno detto:
“Firma qui, puttana!”
Ho detto loro che ero una insegnante e che non avrei mai firmato. Sostenevano di avere tre testimoni che mi avevano vista andare a letto con tre uomini in una sola notte. Ho replicato loro che avevo trenta testimoni che potevano confermare che ero una insegnante e che erano loro responsabili di quanto mi era accaduto.
Si sono beffati di me, dicendo:
“Non ti è andata così male! La tua paga è, ora, aumentata!”
L’intimità e l’onore delle persone non contano per loro.
Pudore e castità sono solo parole vuote per loro. Non hanno mai conosciuto queste virtù. Per loro, le donne sono tutte delle puttane.
E non solo le donne.
Hanno fatto la stessa cosa agli uomini.
Non sono esseri umani.
Soffrono di auto-subordinazione.
Sono divenuti bestie degeneri, che comprendono solo la distruzione di tutto ciò che è bello. Talvolta, sento la gente maledire le loro madri e le loro sorelle. Questi individui passerebbero, addirittura, sulle proprie madri e sulle proprie sorelle. Provo dolore per chi sia costretto a trascorrere tutta la propria esistenza vicino a tali bestie rabbiose. I miei denti anteriori sono stati spezzati e la mia spalla spostata. La mia vita di donna è andata distrutta. So che non sarò mai più capace di amare un uomo, non sarò mai più capace di essere avvicinata da un uomo e di fidarmi di lui. So che il mio Paese conta molti uomini coraggiosi, che hanno sofferto altrettanto, ma, per me, tra gli uomini veri e quelli che pretendono di esserlo non c’è alcuna differenza. La mia vita di donna è finita e io sono divenuta una morta vivente.
Ma scrivo.
Scrivo per riappropriarmi della mia vita.
Scrivo che ero una insegnante e sono divenuta una prostituta e, ora, sono una scrittrice.
Scrivo che ero Bahar (Primavera) e, divenuta Autunno (Paiz), sono ancora più bella. Sono una magnifica puttana, ripudiata dal quartiere, insegnante senza classe, schernita, condannata alla solitudine, sopraffatta dalle ingiustizie dei tiranni.
Per la repubblica islamica, io sono divenuta la donna dai capelli corti, dalle braccia rotte e dal volto insanguinato.
Allora io sono fiera di essere una puttana per la libertà.
So che non sono la sola.
Sentivo le loro voci, nelle celle accanto, quando il mio corpo giaceva inerte sul pavimento, e ho potuto sentire questi sedicenti uomini vantarsi, a più riprese, della loro virilità.
Chiedo a tutti coloro che hanno sofferto come me di scrivere. Debbono gridare le loro sofferenze, in ogni modo, perché sono quelle stesse sofferenze che Sadeq Hedayat (scrittore contemporaneo) definiva “i dolori che spezzano l’anima delle persone”.
Tirate fuori tutto quello che avete dentro!
Che tutto il mondo sappia!
Sappiate che non siete soli.
Siamo in molti come voi e come me.
Condividiamo tutti questa sofferenza.
Questa lettera sofferta avrebbe dovuto essere più lunga, ma la chiuderò con una domanda rivolta, direttamente, a Khamenei:
“Lei si considera il padre di questa Nazione. E io sono una figlia dell’Iran. I suoi figli mi hanno stuprata. Chi pagherà per il mio onore perduto?”
farvardin 1389, Germania
Bahareh Maqami
traduzione di Daniela Zini
Copyright © 23 luglio 2011 ADZ
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